CONTATTO II – Note a margine di un’epidemia

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Emergenza, crisi, fine, sono parole che tornano con ciclicità, questa volta intorno ad una Pandemia. Un presente che ci troviamo tutti a condividere, forse un punto di partenza per domandarci se è il presente che vogliamo vivere. Sanità e Salute: Due parole spesso confuse, su cui necessitiamo di fare chiarezza. Forse allora riusciremo ad immaginare anche un altro futuro.

Quadretti

I

-la situazione è grave, certo che me ne sono accorto – ora prenderemo delle drastiche misure di prevenzione e sicurezza – rispondeva il ministro alle assillanti domande dei giornalisti – chiuderemo le scuole, i cinema, le palestre, annulleremo eventi, proibiremo raduni, normeremo bar e ristoranti – quelli non si possono chiudere, pensava il ministro, dovremmo poi garantire delle scomode coperture finanziarie per sostenerli – organizzeremo gli ospedali e le strutture sanitarie per l’emergenza. Ci saranno reparti e strutture dedicate ai convalescenti ed ai soggetti in cura. Il personale sanitario sarà adeguatamente aggiornato e riorganizzato. Alcune zone saranno in quarantena, tutti noi – rivolgendosi al paese – dobbiamo imparare a vivere in un altro modo, evitare qualsiasi tipo di contatto

II

Dai Sara, non dovevi – diceva Serena con gratitudine. Anche oggi la giovane ragazza del primo piano le aveva portato non solo la spesa da lei richiesta ma vi aveva aggiunto anche un bel tortino di frutta – per addolcire questi tempi difficili – le aveva detto. Serena da quando era scoppiata l’emergenza del contagio non era più uscita di casa. Aspettava il suo settantottesimo compleanno e lo aspettava in casa, sola, davanti alla televisione che annunciava le contromisure in continua evoluzione. Serena abita a Codogno e come lei tutte le persone anziane del palazzo avevano smesso di uscire di casa, avevano creato una propria zona rossa nella zona rossa. Sara e Michele i due fratelli del primo piano e Paolo il giovane biondo del piano terzo avevano deciso di organizzare delle spedizioni ai supermercati per rendere meno pesante la quarantena agli abitanti del loro palazzo. A volte passavano anche in farmacia e ne uscivano con un armamentario che avrebbe fatto gola a qualsiasi amante di metadone e psicofarmaci. Non potendo più uscire da Codogno per andare al lavoro, avevano deciso di prendersi cura delle persone che vivevano accanto a loro, avevano deciso di fare il possibile perché la quarantena che tutti penalizzava e disorientava potesse rivelarsi più leggera per chi al momento era più a rischio. Tanto tutto era chiuso e fermo, non c’era molto altro da fare. – Pensa a Milano – si dicevano – si lamentano perché i bar ed i ristoranti devono chiudere prima. Qua tutto si è fermato, non possiamo più uscire dalla città. Cosa dovremmo dire noi? – Al posto che lamentarsi avevano deciso di approfittare del momento per conoscere meglio i propri vicini con i quali, nella frenesia della quotidiana routine, ci si incontrava occasionalmente sulle scale o in attesa dell’ascensore. Avevano deciso di fare della cura reciproca l’antidoto all’emergenza, avevano deciso di stabilire un contatto.

III

Otto, nove e…dieci. Così siamo a dieci chili, basteranno? – Dai prendine ancora, su, su, veloce non vedi che gli scaffali si stanno svuotando? – le diceva Michele mentre proteggeva il carrello già stracolmo, come impaurito che qualcuno potesse strapparglielo di mano. – Dai prendiamo ancora qualche pacco, gli spaghetti, prima che finiscano – Luisa cercava di trovare spazio tra la ressa che affollava il corridoio del supermercato. – uno, due, tre quattro, cinque…ehii questo l’ho preso prima io – mentre tirava verso di sé l’ultimo pacco di linguine sentì una resistenza all’altro capo del pacchetto e si trovò faccia a faccia con un uomo che provava a strapparglielo di mano. Intervenne subito Michele tirando un forte spintone al contendente che si trovò con il culo per terra. – Questo lo prendiamo noi – e tornò subito a stringere con vigore il carrello. – Dai Luisa corriamo in cassa, ormai qua sta finendo tutto. È ora di tornare a casa -. Avevano riempito la macchina fino a scoppiare, Luisa era seduta tutta storta per far posto ai sacchetti che affollavano anche il sedile anteriore. Erano finalmente pronti a chiudersi in quarantena. Ad evitare qualsiasi tipo di contatto.

IV

INDULTO. LIBERTÁ. Recitano i due striscioni appesi sul carcere di San Vittore. Il primo sul tetto, il secondo alle inferriate che chiudono il corridoio dell’ultimo piano del terzo raggio, la Nave. Alcuni detenuti gridano dal tetto. Fumo nero sale verso il cielo, si dissolve tra la plumbea foschia che ricopre Milano. Materassi che bruciano. I tetti del carcere si animano, scricchiolano le tegole ormai non più abituate a far da palcoscenico a simili atti di protesta. Una mattinata che squarcia gli ultimi miraggi di normalità, una mattinata seguita al blocco dei colloqui e allo spettro dell’isolamento dei detenuti come misure di prevenzione per il contagio. Non solo a Milano, le carceri si rivoltano.
I detenuti sul tetto gridano – libertà – non dimenticatevi di noi – qua dentro il rischio è grosso e non sarà inasprendo le misure di detenzione che ci sentiremo tutelati – libertà. Sotto le mura del carcere solidali e familiari rispondono alle grida, salutano, incitano. Sui social, tra i commenti alla diretta, una cascata di insulti ritrae i prigionieri come valevoli di qualsiasi sventura, anche del contagio. Dal tetto i detenuti cercano di incrociare gli sguardi delle persone accorse per portare coraggio, cercano di squarciare la normalità, cercano un contatto.

Discorsi che tornano

Quattro quadretti, quattro istantanee del presente, cominciato all’incirca l’ultima settimana di febbraio.
Quattro immagini che rappresentano un mondo in quarantena, un mondo immerso nella crisi, dove il vecchio non riesce a morire ed il nuovo fatica a nascere. Sembra ci troviamo nel mezzo di una catastrofe, nel bel mezzo di una fine, della fine del senso che solo ieri imprimevano alle nostre vite e a ciò che ci circonda.

Parlammo già di fine, lo facemmo in un articolo abbastanza noioso, Contatto, forse uscito quando del tema (la catastrofe climatica) si era già smesso di parlare, non ne facemmo un dramma, Oklahoma al momento è come una bacheca, un luogo dove si appendono le idee affinché non sfuggano, una bacheca da guardare e riguardare, una tempesta di spunti in un momento di vuoto. Noi agli appunti ci teniamo, quantomeno per poterli stracciare e fare spazio ad altro, altre volte per leggerli al contrario o confonderli con i fogli accanto. Insomma, il Teatro è un luogo dove cominciare dei discorsi e poterli poi proseguire in altri momenti, per evitare che come al solito i discorsi e le chiacchiere si perdano nell’info-sfera o in un colpo di tosse.

L’ultima volta provammo ad affrontare la differenza tra due atteggiamenti diametrali, tra due domande ontologicamente molto distanti. Tra il domandarsi, di fronte alla crisi, alla fine, alla catastrofe (leggetela un po’ come vi pare) che cosa fare per annullare l’emergenza, oppure come vivere in questo presente, come vivere l’epidemia? Proviamo a riprendere il discorso.

Che cosa fare? – la gestione sanitaria

La prima domanda chiude definitivamente la questione, già l’avevamo sostenuto. Chiude la questione sostenendo che si tratti di un’eccezione, di un’emergenza, che tutto potrà continuare a essere come prima. Chiude la questione proponendo di arginare il problema con qualche cerotto, con una momentanea quarantena, promette che con dei sacrifici si tornerà a vivere le comodità di prima. Chiedersi che cosa fare? Rimanda ad una politica della gestione, del controllo affinché non vi sia nessun adattamento, affinché l’emergenza non provochi nelle persone (e non dico popolo perché ormai è l’individuo l’interlocutore a cui ci si rivolge) la voglia di comportarsi in modo diverso, di farla finita una volta per tutte con una certa normalità, una certa individualità. Che cosa fare? Rimanda la soluzione del problema non al popolo ma ad un’elite di esperti. Ognuno è solo di fronte all’emergenza, solo e responsabile di attenersi a puntino ai decreti che si stanno susseguendo, responsabile di annullare il proprio buonsenso e di non prendere iniziativa. Guardiamo ai consigli diffusi da Confcommercio nelle prime settimane. Continuate a fare quello che facevate fino a ieri, consumate, consumate, consumate. In solitudine, al massimo in coppia. Ora tutto è chiuso, quindi secondo Confcommercio non dovremmo più fare nulla. Se alla domanda Che cosa fare? La risposta è, stai in casa, non fare nulla, è il momento di fare come fece Ian Solo, congelarsi e aspettare che la normalità riporti il disgelo e la vita. Ma c’è qualcosa che non funziona.

Come si può non vedere in ciò che succede a livelli più micro che di fronte a questa emergenza il mondo sta andando a rotoli e che la normalità dietro cui ci nascondiamo in realtà vela una miseria costitutiva ed una mancanza di etica comunitaria? Che il vuoto che riempie i gesti individuali rappresenta la mancanza di un orizzonte per cui prendere parte? Che l’unico senso rimasto agli individui polarizzati ed ego-centrati è la bieca sopravvivenza? Persone che si spingono e lottano tra loro per un chilo di pasta, persone che svuotano i supermercati senza pensare che forse qualcun altro avrà bisogno di fare la spesa, persone che scappano dalla città per godere delle proprie fortune individuali, della propria seconda o terza casa. Persone che di fronte alla rivolta delle carceri si augurano che i detenuti possano patire le peggiori sofferenze, che di fronte alla fragilità degli anziani sostengono che tanto sarebbero morti comunque. Persone che inveiscono contro i bar aperti, i bar aperti che inveiscono contro le persone che non ci vanno. Una società che si sgretola di fronte al pericolo. Un sistema morale che crolla di fronte alla volontà dell’individuo di badare a sé stesso, di evitare gli altri, di affidarsi ad un sistema sanitario avendo dimenticato cosa vuol dire la parola centrale in un’emergenza, prendersi cura. Non vorremmo essere intesi male: questa è un’epidemia, ed il sistema sanitario, ovvero gli strumenti e il sapere che organizza, sono molto importanti. Senza una pratica alla cura, alla salute, rischiano però di non servire a molto e di cedere spazio alle immagini catastrofiche di La strada di McCarthy, de Il mondo sommerso di Ballard. Le persone vagano sole, o a bande, in una continua lotta per la sopravvivenza.

Di fronte alla catastrofe si perde completamente il senso di comunità, tanto da domandarsi se questa comunità esista davvero o sia semplicemente un miraggio, una vecchia storia. Appena la routine si ferma, appena il ruolo che mantiene ognuno in vita scompare non sappiamo più come vivere, appena il nostro Io perde i riferimenti con cui la società lo identifica, si disperde, si trova di fronte alla propria fine, vede un precipizio. È allora che si comincia a domandare con foga Che cosa dobbiamo fare? Un appello a riassegnare un ruolo ad ognuno, a ridare spessore all’io in un momento di totale dispersione, un momento in cui si rivela la totale incapacità di sapersi organizzare. Un momento in cui i rantoli del Narciso, così attaccato alla vita, ne mostrano la sua natura più perfida, ottusa e autocompiacente. Quanta miseria in due semplici lettere, IO.

Come vivere l’epidemia? – o della salute

Ma torniamo all’epidemia. O meglio alla salute. O meglio alla seconda domanda. Come vivere l’epidemia? La domanda è sicuramente curiosa. Prima di tutto cosa vuol dire voler vivere un’epidemia? E torniamo alle pratiche dell’anti-Narciso. Vivere la catastrofe vuol dire riuscire a muoversi a ritmo delle vibrazioni prodotte dagli eventi che ci circondano, che emergono e svaniscono. Significa accettare ciò che accade e chiedersi quali effetti può provocare sulla comunità o le comunità tra le quali il corpo che sta parlando si intreccia e si riconosce. Significa chiedersi i motivi per cui il contagio si sta diffondendo e non sorprendersi troppo nel comprendere che un’epidemia oggigiorno, non è qualcosa di così strano. In un mondo globale dove le merci e la forza lavoro viaggiano e si muovono freneticamente, dove nelle città si vive l’uno sopra l’altro, la diffusione di un virus non è nulla di strambo. E non avere gli anticorpi adatti fa parte della nostra impotenza costitutiva. La prospettiva della morte non si può rifuggire. La prospettiva dell’estinzione è meno misera di quella della sopravvivenza. La seconda, la prospettiva della sopravvivenza, ci ritrae soli, in lotta con il diverso da noi (il Grande Fuori), aggrappati con le unghie e con i denti ad una vita che sfugge. La prospettiva dell’estinzione, invece, spegne la luce che ci illumina protagonisti sul palco, ci riporta nell’ombra in mezzo agli Altri, alla ricerca del modo migliore per rendere meno sofferente l’inevitabilità della morte. Chiedersi come vivere nell’epidemia ha il potere di ricreare comunità. Dove la gestione verticale manca di indicazioni su cosa fare per riempire il tempo in modo produttivo, interrompe il tempo dei meriti e dei demeriti, delle condanne e delle assoluzioni, chiedersi come vivere ora nell’epidemia significa accorgersi delle persone che ci sono di fianco. Significa accorgersi delle reti di relazioni in cui siamo inseriti e rivitalizzarle. (Molti si ritroveranno a fare i conti con la propria solitudine. Ogni giorno le reti vengono erose, ne viene impedito lo sviluppo). Significa pensare alla salute, più che alla sanità.

Salute, questa è una parola che ci piace molto. La traduciamo come prendersi cura l’uno dell’altro, avere attenzione per chi sta soffrendo di più la possibilità del contagio. Avere attenzione per chi ci sta vicino, scoprire le diverse intensità con cui gli altri entrano in vibrazione con l’epidemia. E dunque scoprire cosa può il nostro corpo, in che modo possiamo salvaguardarci anche noi, come possiamo praticare nuovamente una dimensione etica che sollevi lo sguardo dalla dimensione individuale a quella comunitaria, dove ciò che importa non è Io, Tu, Noi… ma che il contagio non si diffonda e che nel frattempo le persone non periscano di solitudine o sentendosi dimenticate. Traduciamo il termine salute come un nuovo modo di abitare il territorio. Ogni territorio scoprirà differenti pratiche di resistenza, le reti di solidarietà e di complicità troveranno infine modo per riprendere spazio e rafforzarsi, per continuare a vivere e non abbandonarsi alla semplice sopravvivenza.

Quindi sì, spostarsi poco. Trovare nella terra parte della comunità dimenticata, della comunità che ci fa scoprire ciò che possiamo fare, come possiamo resistere, come possiamo portarci vantaggio reciproco e non guardarci come nemici, avversari, con la paura che dall’altro arrivi il contagio.
Comprendere i corpi che ci circondano vuol dire anche riconoscere quelli con cui evitare un contatto ma non per questo da abbandonare. Per non perdere quegli sguardi che tinteggiano in qualche modo anche il nostro mondo e l’angolo da cui lo guardiamo.
Ecco che allora accettiamo l’epidemia, ritroviamo un’eticità, ritroviamo un senso profondo nella vita che nulla ha a che vedere con la sopravvivenza. Vita e morte si intrecciano nell’unico gioco possibile alla nemesi del Narciso. Come vivere l’epidemia è la domanda che porta alla ricerca di un contatto per prevenire il contagio e la paura.