È PIÙ FACILE
L’affollarsi delle distopie comincia a rendere i nostri occhi cisposi. Confcommercio prova a scrutare nel nostro animo, e fa paura che ci riesca. Può esistere anche uno stato d’eccezione che non ci aspettavamo – quello degli oppressi.
L’inizio della chiacchiera

Prima era cronaca lontana, e quantomai estetica. Belle a vedersi, le fotografie delle metropoli spopolate, isolate, in quarantena. Terribile – ma distante il giusto – l’abisso che si spalanca quando l’emergenza irrompe a sconvolgere o rafforzare l’organizzazione e la riproduzione del tessuto sociale. I primi tempi le distopie che affollano e annoiano in varie e reiterate forme il nostro immaginario (che brutta parola) trovavano ulteriore linfa, si riaccendevano di una conferma storica. Che emozione, ricevere dopo nemmeno un paio di mesi la cartolina degli anni ’20 che annuncia l’effettivo momento epocale. In minima ma comunque significativa parte COVID-19 diventa – anche – il nome del fremito indistinto che attraversa la piccola parte della società occidentale che si vuole e si pensa radicalmente antagonista, consapevole del disastro: eccola, la conferma di ogni discorso su una fine che è sempre più vicina, sempre più stringente, sempre più già-forse-avvenuta.
E dopo, l’Apocalisse.
Non la fine del mondo, per ora. Di certo, però, qualcosa che assomiglia all’apocalisse nel suo significato letterale: rivelazione, o svelamento. Rivelazione della fragilità, delle contraddizioni e della disumanità di fondo su cui poggiano le nostre società – e ce ne sarà, da dire. Rivelazione, però anche di un certo discorso sulla fine che scopre o dovrebbe scoprire il suo essere piuttosto chiacchiera sulla fine. Lingua di fuoco che parla a vuoto, commenta e si attorciglia su uno status quo di pensieri e azioni così simile, così fratello nella forma a quella vita di cui dovrebbe essere il nemico giurato. E’ più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Frase quantomai giusta, molto spesso abusata. O pronunciata troppo in fretta. Così si spostano gli accenti e si sente distintamente mondo, risuona (ed è doveroso) capitalismo, viene scandito bene immaginare. Restano nascoste, prigioniere nella gola, le prime parole – rivelatrici, appunto.
E’ più facile.
Le mie belle cose

Verso la fine di Febbraio la distopia approda in Italia, e capita nel suo cuore pulsante. Milano vicina all’Europa, Milano che ride e si diverte scopre alle sue porte la minaccia dell’epidemia. Gli eventi portano dolorosamente allo scoperto i vermi nascosti sotto le pietre del tempio della produzione, del fatturato, del flusso ad ogni costo. E d’altro canto rendono manifesto un ulteriore aspetto di quella che in modo ormai un po’ logoro viene definita città-vetrina, qualcosa di inquietante soprattutto per chi la odia. Perché le vetrine luccicano, le vetrine ingannano, le vetrine sottraggono. Ma spesso, anzi, di continuo, le vetrine ci restituiscono il nostro riflesso.
Per frenare il panico circola da subito un video ridicolo che con gli occhi di adesso assume un ‘ironia macabra. Milano non si ferma, recita il Sindaco rivolto a quello che “piaccia o no, è il cuore d’Italia”. Una carezza dal retrogusto minaccioso, Milano non si ferma perché non può fermarsi. La Confcommercio fa di più. Sceglie di riassumere in un breve decalogo la vita media del cittadino-consumatore. Anni e anni di studio del marketing e storytelling applicato alle aziende (chiedere alla Scuola Holden) saranno pur serviti a qualcosa. Dieci frasi brevi che ci ricordano, con la premura un po’ ansiosa di una mamma di fronte ad un bilancio famigliare critico, cosa possiamo fare, cosa dobbiamo fare, cosa vogliamo fare. Il punto è che ci prendono. Li fanno studiare per questo, i nostri copywriter. Ci prendono ed è esattamente ciò che accade, Milano non si ferma, forse rallenta appena, di certo brinda alla propria salute sputandosi in faccia orgoglio a dismisura. Ma un momento, chi è questa Milano? Una certa enfasi d’odio legittimo rischia di separarla, astrarla su un piano immaginario e molto comodo in cui la metropoli da bere sono sempre altri che non hanno nulla a che fare con noi. Forse anche per i suoi nemici guardare un po’ più a fondo nell’abisso dell’esci a cena: i ristoranti sono aperti! avrebbe contributo a far venire a galla l’immagine di ciò che – tutti – siamo diventati.
C’è un milanese d’adozione dall’anima tormentata che è strano non sia stato tirato in ballo in questi giorni. Eppure battono alla porta è il quinto dei Sessanta Racconti di Dino Buzzati. La ricca famiglia Gron vive tranquilla nella sua villa lussuosa ben lontana dal fiume. Ma il fiume ha strabordato, minaccia di arrivare anche fin lassù, e il giovane Massigher è corso ad avvertire tutti di andarsene, scappare. I Gron non vogliono crederci. Soprattutto la signora Gron, fiera custode del benessere accumulato negli anni. Non ne vuole proprio parlare, svia il discorso, finché non vede l’acqua strisciare da sotto le finestre, grondare dalle pareti, inondare le stanze. Solo allora lancia le sue urla di dolore. “Oh no! no!” proruppe infine la signora Maria, esasperata. “Oh! non voglio! I miei fiori, le mie belle cose, non voglio, non voglio!”. E faceva di no col capo: per significare che lo proibiva, che adesso sarebbe venuta lei in persona e l’acqua non avrebbe osato passare.
Bell’apologo. Meno bello che al grido individual-collettivo non voglio, non voglio lanciato contro il cielo dagli spritz e dagli ultimi giorni di saldi si è in qualche modo unita la stessa variegata galassia antagonista o apocalittica, in un tentennamento terrorizzato di fronte al possibile scarto dalla propria quotidianità. Poteva trattarsi di annullare qualche iniziativa, o rifiutarsi di cercare in tutta fretta il modello politico migliore da appiccicare sull’emergenza in corso, per riuscire a ricondurlo comunque al già noto, al già detto. Di fronte alla possibilità di forzare pensieri e azioni in altre direzioni il riflesso porta principalmente a riprodurre in sedicesimo nella bolla social il balletto mediatico di analisi e controanalisi, paura e snobismo. Un adagio mai abbastanza ripetuto vuole che siano gli agitatori di professione gli ultimi a capire che sta succedendo qualcosa. Un pensiero che trova ad ogni occasione la propria conferma e che si potrebbe forse allargare: masticata senza assaporarla, la tensione apocalittica rischia di essere tranquillamente digerita, e risputata poi fuori in formula anziché in parola. Vale nell’ambito narrativo, con le distopie elevate (svilite) ad esercizio di stile, vale in campo politico quando fine, eccezioni ed urgenze non vengono annunciate ma canticchiate.
Come posso rinunciare al rito dell’aperitivo? si domanda il lumpenhipster gaudente smarrito tra i Navigli deserti. Forse una segreta complicità lo lega a chi nella fine si affanna a cercare il che cosa e non il come. Del resto, è più facile immaginare un crollo che però non coinvolga anche le forme di vita alle quali siamo abituati. Qualcuno, tempo fa, definiva quest’epoca il tempo della piccola borghesia planetaria. Il COVID-19 ne ha confermato esistenza e predominio. La principale preoccupazione di tutti, fino a pochi giorni fa, era tenere aperta il più a lungo possibile la serranda della propria bottega, materiale o spirituale.
L’altra eccezione

In realtà, ci sono parecchi compagni di strada e di pensiero che proprio muovendosi nel lungo naufragio della Storia recente e passata ci hanno insegnato innanzitutto che vivere nella catastrofe è ben altra cosa che gridare alla catastrofe. Che la coscienza della fine chiama allo scarto e non alla pedissequa fedeltà in sé stessi. E soprattutto che di fronte allo stato di eccezione il compito, più che cercare con minuzia superficiale di rimarcarne natura e confini è quello di produrre altro stato di eccezione. Quello degli oppressi. Difatti, dall’otto di Marzo a far saltare il banco di una certa disputa sotterranea e un po’ attorcigliata ci hanno pensato alcuni oppressi. Nelle carceri italiane ci sono 61230 detenuti a fronte di 50931 posti (teorici). Carne da contagio, soffocata dal sovraffollamento, privata anche dei colloqui con familiari e assistenti volontari, senza possibilità di comunicare con l’esterno, in condizioni igienico sanitarie inumane, esposta più di tutti al rischio del virus. E’ dalle prigioni che è partita una rivolta. Più di ventisette carceri sparse per tutta Italia a partire da domenica otto marzo insorgono. A Modena restano uccise nove persone, la protesta divampa da nord a sud.
Lunedì mattina dal tetto di San Vittore a Milano, un detenuto urla ai solidali in strada tre parole che sovrastano la chiacchiera e illuminano un altro spazio che si apre nel momento dell’emergenza: Noi siamo dimenticati. Tre parole che potrebbero estendersi a tutto quanto è stato messo a nudo dall’epidemia del Coronavirus. I posti in ospedale che mancano, la canzonetta liberista sulla privatizzazione della sanità. La prosecuzione del lavoro come necessità indifferibile: chiudono le città, non chiudono le fabbriche. Noi siamo dimenticati, urla chi ha fatto saltare il banco svelando la diseguaglianza che si approfondisce e non si livella quando arriva il pericolo comune.
E’ più facile fare dell’emergenza un riassuntino pret-à-porter delle nostre comprovate convinzioni sulla fine. E’ molto meno facile che diventi lo spazio dove si riscopre la necessità dello scarto da ciò che odiamo così come da quello che abbiamo caro. Invece che all’acquarello distopico, la rivolta delle carceri assomiglia ad una prova di un vero stato di eccezione rovesciato. L’esplosione di ciò che viene dimenticato è l’irruzione della fine nel cuore dei giorni in cui tutti, fino all’ultimo, hanno provato a fare come se non dovesse cambiare nulla.