AVANTI, BARBARI!
Il nostro presente è abbastanza convulso e, almeno ai nostri occhi, difficilmente riassumibile in poche tesi. Molte delle categorie – politiche e non solo – a cui siamo abituati trovano difficilmente coerenza con la realtà e a furia di applicarle si finisce con l’appiccicarle, sostanzialmente oscurando spazi di vita (e di lotta?) ad esse sempre più irriducibili. Classe, movimenti, identità e rivoluzione sono senza dubbio tra le parole più abusate e confuse. Ne consegue per tutti una strutturale difficoltà a trovare un posizionamento, a meno di non decidere a tavolino, e da lontano, ciò che è giusto o sbagliato. Per questo non possiamo più rintanarci in un milieu confortevole, e dobbiamo provare a ributtarci nella mischia per capire qualcosa di più. Il testo di cui pubblichiamo la traduzione – apparso in inglese su Endnotes nel dicembre 2020 e in traduzione francese su Lundi Matin nel maggio 2021 – ha il merito di incoraggiare alcuni ragionamenti non ortodossi facendosi carico della complessità del nostro presente. Propone spunti da far dialogare, a nostro avviso, con altre ipotesi – circolanti o che seguiranno. Condivide immagini e strumenti che possono quantomeno essere d’aiuto nella bufera che ci coinvolge, a prescindere che ci si trovi più o meno d’accordo con le tesi avanzate.
Se da una parte infatti riteniamo molto interessante l’ipotesi dei non-movimenti – nonché la tesi secondo la quale questi stessi si darebbero come fenomeni inevitabili, parte del tessuto materiale dell’esistente, senza essere allo stesso tempo, portatori in sé di alcun valore morale – troviamo un po’ affrettato l’ottimismo che evita di affrontare la questione della contro-insurrezione. Ci troviamo poi parzialmente in crisi quando verso la fine del testo, evidenziando i limiti di tali non-movimenti torna in gioco la questione dell’orizzonte politico. Sembra infatti che se i non-movimenti privi di alcuna identità e di programmaticità non si rivolgono alla politica – qui intesa comunque nel suo senso migliore, come un’identità comune e un piano materiale di vita – si voterebbero ogni volta ad una sconfitta, e a un inevitabile riassorbimento. Preoccupazione che troviamo bene riassunta in una perifrasi ricorrente: rivoluzionari senza rivoluzione. Sono questi i partecipanti ai non-movimenti, (o insurrezioni, o anche lotte) che da un decennio hanno prese piede nel globo, alle quali se non manca inventiva e radicalità manca sicuramente un fronte, che secondo gli autori del testo andrebbe ricostituito. Si torna dunque – ci sembra – all’inizio del discorso, al rischio di una riduzione alla questione della politica, che apre di nuovo alla volenterosa cecità in cui molti militanti e politici (noi stessi, per esempio, in varie fasi della nostra vita) trovano agio – quell’istinto del milieu nel quale dovremmo invece abituarci a non sentirci più a casa.
Sul registro degli assenti c’è forse allora la dimensione del quotidiano, della vicinanza, di quelle rivoluzioni fatte di contatto. Un parteggiare che ha più a che vedere con esercizi di etica che con manifesti di critica (che in qualche modo richiede identità e punti fermi). Seguendo queste suggestioni ci sembra di grande rilevanza portare l’attenzione al fuoco delle relazioni, dove si gioca una partita importante, ovvero la possibilità di capire come questo mondo possa essere abitato, come si possa stare nella catastrofe, o in termini più recenti come vivere nella pandemia. Tutte domande non riducibili ad un solo programma, e tantomeno conformi al principio di identità ma bisognose di una buona dose di incontri e della capacità del rimettere in discussione molte certezze. Abbiamo sempre cercato ispirazione verso il cielo, forti dei principi che ne discendevano. Siamo ora pronti a smarrirci nel torbido per poter tornare a poggiare i piedi per terra e posarvi lo sguardo. Per dare attenzione a chi si trova al nostro fianco e in qualche modo sperare di trovarne altrettanta (forse così i rivoluzionari potranno riconquistare la rivoluzione.) In tanta critica a volte ci manca in fondo – a noi come a questo testo – anche un poco di amore.
All’inizio del maggio 2020, delle rivolte motivate dalla fame sono scoppiate a Santiago, in Cile. I lockdown hanno privato uomini e donne del loro reddito fino a farli morire di fame. Un largo movimento di cucine comunitarie auto-organizzate si è diffuso velocemente nel Paese. Più avanti nel mese, delle rivolte si sono diffuse in Messico, in risposta all’omicidio di Giovanni López — un muratore che era stato arrestato per non aver indossato la mascherina — per mano della polizia, mentre migliaia di lavoratori migranti, disperati, violavano il coprifuoco in India. Alcuni lavoratori dei magazzini di Amazon negli Stati Uniti e in Germania hanno cominciato a scioperare contro gli inadeguati protocolli sanitari anti COVID-19 [1]. Eppure l’agitazione della lotta dei lavoratori del più grosso rivenditore al mondo è stata velocemente surclassata, verso la fine di maggio, da un movimento di massa di dimensioni senza precedenti che ha attraversato gli Stati Uniti nello sdegno per l’omicidio in diretta di George Floyd da parte della polizia. Alla rivolta, principalmente iniziata dai cittadini neri di Minneapolis, si sono velocemente aggregati americani di ogni luogo, razza e classe.
Nelle prime manifestazioni e disordini si poteva scorgere addirittura qualche miliziano, in una rievocazione di un terzo-posizionismo degno dell’Età di QAnon [2].
Inizialmente è sembrato che l’avvento del COVID-19 implicasse un’interruzione nella lotta di classe o, quantomeno, che fornisse all’apparato repressivo delle risorse aggiuntive. Questa, almeno, era la previsione di tre anziani dissidenti italiani che hanno fatto circolare testi che hanno dato scandalo durante le prime settimane della pandemia [3] . E in realtà potrebbe essere vero che il lockdown rappresenta, come Julien Coupat ha recentemente sostenuto, “un nuovo modo di governare, e produrre un certo tipo di essere umano”. [4]
Le mobilitazioni massicce che hanno scosso il Cile dall’ottobre 2019 si sono interrotte con il confinamento, che è giunto insieme a una paura generalizzata della nuova piaga, in una nazione dove la salute è una merce costosa. Il lungo sciopero generale contro le riforme delle pensioni in Francia si è interrotto improvvisamente quando le riforme sono state approvate con la stessa serie di decreti che hanno annunciato le prime misure emergenziali relative al coronavirus, scavalcando il parlamento. Per un certo periodo i manifestanti a Baghdad, Beirut e Honk Kong sono stati allontanati dalle strade, e i dissidenti italiani sembravano aver ragione. Eppure non c’è voluto molto affinché le masse in tutto il mondo cominciassero a violare il coprifuoco e le chiusure che hanno confinato metà dell’umanità e hanno gettato l’economia mondiale in un’enorme recessione.
All’incirca quando si intensificavano le manifestazioni contro l’omicidio di Floyd negli Stati Uniti, migliaia di persone marciavano dalle favelas di San Paolo verso il palazzo del governatore di Stato, chiedendo supporto economico, mentre masse in Colombia ed El Salvador si prendevano le strade, battendo le pentole per protesta contro il peggioramento delle condizioni di vita e chiedendo la fine del confinamento.
A luglio, in centinaia invadevano il parlamento serbo in risposta alla reintroduzione del coprifuoco da parte del governo, mentre l’uccisione del popolare cantante Haacaaluu Hundeessaa in Etiopia innescava manifestazioni violente che provocavano la morte di 150 persone. Nel mese seguente, manifestazioni simili esplodevano nel confinante Kenya, quando la baraccopoli di Nairobi si sollevava contro la polizia, responsabile dell’uccisione di 20 persone nel tentativo di imporre il coprifuoco, mentre la Bielorussia era agitata da manifestazioni, scontri e scioperi per via delle elezioni truccate che vedevano Alexander Lukashenko come sempre vittorioso. A settembre, la Colombia è stata attraversata da una serie di rivolte a seguito dell’omicidio di Javier Ordóñez per mano della polizia. Al contempo i quartieri popolari di Madrid e Napoli si sollevavano contro la polizia e il confinamento. Nel momento in cui scriviamo [5], la Nigeria sta vivendo una massiccia ondata di proteste contro un’omicida e corrotta forza di polizia, e l’India è nel bel mezzo del più grande sciopero generale della propria storia.

Il nostro periodo attuale può rappresentare una sorta di metanoia (una conversione o svolta) delle popolazioni contro l’insieme di apparati e costumi che non sono più in grado di plasmare con successo la nostra specie in un animale senza altro habitat che il lavoro salariato e il capitale. Sulla scia di decenni di tassi di crescita in declino e di crescenti riprese senza occupazione, siamo ora nel mezzo della peggiore recessione globale dagli anni ’30 (vedi figura 1). Il Bureau of Labor Statistics degli Stati Uniti ha annunciato “le peggiori cifre mensili sulla disoccupazione nei 72 anni per i quali l’agenzia ha dati registrati”, mentre la Banca d’Inghilterra ha avvertito che “il Regno Unito affronterà il suo più forte calo della produzione dal 1706”[6]. I compagni di Faridabad, in India, hanno recentemente sostenuto che “il capitale si sta ritirando a casaccio. Il capitale è estremamente debole. Sta vacillando”[7]. Questo potrebbe sembrare eccessivamente ottimistico, ma è ormai chiaro che il “tipo di uomo” che una tale economia produce non è un tipo isolato socialmente distanziato e che si autopromuove, ma una massa scontenta di uomini e donne pronti alla rivolta. Sono scesi nelle strade su una scala senza precedenti e di portata planetaria, una confusione di identità disparate unite dalla rabbia per il deterioramento delle condizioni di vita, l’alienazione e la polizia.
1. UN ACCUMULO GLOBALE DI NON-MOVIMENTI
È ancora troppo presto per prevedere le conseguenze della pandemia, ma è certo che l’era delle proteste iniziata con il crollo economico del 2008 non è finita. La maggior parte delle rivolte che hanno poi dato vita ai, per usare le parole di Barack Obama, sogni di speranza e cambiamento di quell’anno, sono state schiacciate dalla repressione statale, trasformate in guerra civile, o fossilizzate in partiti politici che cercano di amministrare le economie stagnanti del nostro mondo. Eppure, se la speranza di cambiamento era ingenua, è stato solo perché i veri cambiamenti si sono rivelati più incubi che sogni, con l’ascesa dell’ISIS, il golpe di Abdel Fattah el-Sisi, e la proliferazione di un nuovo populismo che ha catapultato al potere figure come Donald Trump, Victor Orba e Jair Bolsonaro, ma anche Emmanuel Macron e Boris Johnson.
Alcuni hanno cercato di spiegare questo sviluppo, da Occupy a Trump, attraverso la classica dialettica di rivoluzione e controrivoluzione [8]. Tuttavia, non è affatto chiaro che stiamo assistendo a una “controrivoluzione”, perché i Trump di questo mondo possono solo inasprire i conflitti e approfondire gli scismi, al punto che il partito dell’ordine si rivela essere il partito dell’anarchia [9]. Questi neo-populisti non possono produrre alcuna reale egemonia, ma solo dividere le popolazioni [10]. La vittoria di Joe Biden dimostra che la paura del fascismo era esagerata. Ma i Biden del pianeta possono solo favorire gli scismi che delegittimano il processo democratico. Se c’è uno sviluppo illiberale è piuttosto legato alle crescenti misure draconiane dello Stato contro i movimenti di protesta a cui stiamo assistendo in tutto il mondo, che chiedono sovranità sulle loro vite e una pace, un ordine e una sicurezza che nessun Trump, Biden o persino Sanders può dare loro [11].
L’asse destro della figura 2 (in verde) mostra che tra il 2008 e il 2019, c’è stato un aumento delle lotte antigovernative in tutto il mondo di circa l’11% all’anno. L’asse di sinistra (in rosso) mostra il costante declino della legittimità politica dal 2008, misurata dalla percentuale di persone che esprimono soddisfazione per la democrazia [12]. Altre figure sparse in questo articolo mostrano le stesse statistiche suddivise per regione. Chiaramente visibile in questa figura, la nuova ondata di rivolte emerse dal maggio 2020 indica che ci stiamo dirigendo verso un decennio ancora più dirompente. L’insurrezione non sta arrivando, è già arrivata, svolgendosi a livello planetario con sempre maggiore intensità ogni anno [13].

Questo non implica che ci stiamo muovendo costantemente verso un punto omega in cui la rivoluzione diventa inevitabile. Questi movimenti possono semplicemente indicare il nostro ingresso in un mondo ingovernabile. Ma oggi possiamo ripetere le parole di Jacques Camatte del 1972 e insistere sul fatto che “[d]a maggio c’è stato il movimento della produzione di rivoluzionari” [14]. In tutto il mondo uomini e donne stanno, se non abbandonando il mondo del capitale, almeno esprimendo un reale dissenso con lo status quo. Implicito nell’accumulo di proteste dal 2008 è una crescita del numero di persone con esperienze di mobilitazione di massa e di dissenso pratico che possono potenzialmente iniziare “a capire le necessità esistenti per la rivoluzione”. [15] Così, anche se il nostro periodo non è rivoluzionario nel breve termine, è fondamentalmente dirompente e produce il potenziale per una rottura con il modo di produzione capitalista. L’accumulo di lotte, e quindi di uomini e donne che hanno sperimentato in prima persona la necessità della rivolta e forse della rivoluzione, è un prerequisito per qualsiasi discussione seria sul superamento del capitalismo.
È vero che la rivoluzione non è una scuola e non possiamo fidarci della memoria collettiva più dei nostri falsati ricordi individuali. Ma l’accumulo di dissenso sociale negli ultimi dieci anni sembra destinato a continuare e, sempre di più, a modellare il terreno su cui le lotte vengono combattute. Questo non è solo perché le lotte antigovernative hanno già ristrutturato il panorama politico, come nei casi di partiti come il Movimento Cinque Stelle in Italia o En Marche di Emmanuel Macron, che hanno organizzato assemblee e copiato la retorica del 2011 di non essere né di destra né di sinistra. Né è semplicemente perché i movimenti di piazza, le rivolte giovanili e lotte simili hanno gettato le basi per Syriza e Podemos e gonfiato i sogni di Jeremy Corbyn e Bernie Sanders (parallelamente alla crescita della destra nazionalista che sembra essere la verità della svolta populista). No, insistiamo sul fatto che l’accumulo di dissenso sociale dal 2008 indica una continua intensificazione dei conflitti di classe, semplicemente perché i fallimenti spesso brutali, o le deboli vittorie, dei movimenti dal 2011 non hanno esorcizzato lo spettro del cambiamento [16]. Al contrario, l’anarchia del nostro periodo implica che enormi manifestazioni, rivolte di massa e (dobbiamo sottolinearlo) ondate di scioperi [17] sono diventate la nuova normalità. In Cile si può, per esempio, identificare un filo rosso che va dalla revolución pingüina del 2006, quando centinaia di migliaia di liceali hanno messo in ginocchio il sistema scolastico, chiedendo titoli di viaggio gratuiti e una riforma dell’istruzione, alle rivolte più violente e generali intorno al 2011. E poi ancora, con maggiore intensità, abbiamo assistito a un nuovo salto nel 2019, quando le masse si sono riversate nelle strade, indignate dalla dichiarazione di guerra alla popolazione del presidente Sebastián Piñera, che ha portato alla revisione della costituzione [18]. Traiettorie simili possono essere identificate in molti paesi, come negli Stati Uniti, dove Occupy Wall Street è stata seguita da Black Lives Matter, che a sua volta ha aperto la strada, quest’anno, al più grande movimento sociale della storia di quel paese [19].
Enormi rivolte e intensi conflitti sociali stanno diventando un aspetto così normale della nostra epoca che persino la sinistra radicale li liquida come se non soddisfacessero i suoi elevati standard: sono troppo liberali, troppo violenti, troppo passivi, troppo informali, troppo nazionalisti, troppo parte dello status quo, o troppo investiti da politiche identitarie.
In questo articolo sosteniamo che ciò a cui abbiamo assistito dal 2008 è un continuo aumento di ciò che il sociologo iraniano-americano Asef Bayat ha descritto come “non-movimenti”, ovvero “l’azione collettiva di attori dispersi e non organizzati”[20]. Questi non-movimenti non sono in alcun modo rivoluzionari in sé. Sono più vicini a ciò che Camatte ha recentemente chiamato “rivolte passive”: espressioni soggettive del disordine oggettivo del nostro tempo [21]. Essi riflettono soprattutto la crescente delegittimazione della politica in un contesto di stagnazione e austerità continue. È la combinazione di non-movimenti in costante aumento che coinvolgono un numero senza precedenti di persone, con un declino della legittimità democratica, che ci permette di descrivere la tendenza della nostra epoca come la produzione di rivoluzionari senza rivoluzione.
Come esempi di “non-movimenti” Bayat indica le lotte dei poveri non organizzati in Egitto; la lotta dei giovani in Turchia per reclamare e realizzare lo stile di vita da loro desiderato; così come la lotta delle donne per la parità di genere sia nella sfera domestica che in quella pubblica in Cile, India e Stati Uniti. In queste lotte le “pratiche rivendicative” si fanno sentire “attraverso azioni dirette, piuttosto che attraverso l’esercizio di pressioni sulle autorità affinché concedano – qualcosa che i movimenti sociali convenzionalmente organizzati (come i movimenti sindacali o ambientali) di solito fanno.”[22] Tali pratiche spesso si vestono con gli abiti dell’identità. Come i movimenti operai appartenevano a un emergente ordine mondiale capitalista organizzato da una polarizzazione del campo politico lungo linee di classe, così oggi la frammentazione di classe ha modellato l’orizzonte dei non-movimenti. In un’epoca di debito, in cui gran parte della popolazione non ha risparmi o addirittura ha debiti, la decomposizione di classe annulla le basi non solo di un movimento operaio, ma della stessa rappresentanza democratica. Così oggi è razionale per i proletari, e sempre più anche per i membri delle classi medie, rivolgersi ad altre categorie per definire il proprio posto in un ordine mondiale traballante. La classe rimane la fonte primaria delle nostre separazioni – la sociologia marxista vecchio stile è ancora per molti versi valida – ma l’appartenenza di classe è oggi calibrata da una moltitudine di variabili come l’età, il genere, la geografia, la razza o la religione che fungono da canali, oltre che da limiti reali, per le lotte sociali, e rendono la politica dell’identità una vera espressione della lotta di classe [23].
Come chiariremo più avanti, non vogliamo liquidare, denunciare o, per quel che conta, esaltare la politica dell’identità, né confonderla con il liberalismo o il riformismo [24]. Tuttavia, bisogna riconoscere che c’è qualcosa di abbastanza liberale nei non-movimenti, in quanto sono costretti a confrontarsi con le tendenze illiberali della nostra epoca. Per esempio, i manifestanti francesi stanno attualmente lottando contro nuovi controlli draconiani sulla libertà di parola e di stampa, compresa una legge che vieta di fotografare la polizia [25]. Si potrebbe dire che i non-movimenti hanno la loro base nella “tribù delle talpe” che Sergio Bologna ha descritto nella sua analisi dell’autonomia italiana degli anni ’70, ma la loro forma può anche suggerire la sottoculturalizzazione e l’infantilizzazione della società che critici come Christopher Lasch e Jean Baudrillard hanno un tempo denunciato [26] . Allo stesso tempo la confusione delle identità indebolisce le teorie governate, per esempio, da prospettive “intersezionali” che vedono la classe come un’identità tra le altre, perché è la stessa struttura di classe ramificata che ha fatto dell’identità la categoria politica centrale di un capitalismo stagnante [27].
Inoltre, la critica esterna alla politica dell’identità non è centrata, perché gli stessi non-movimenti presentano una critica immanente dei suoi limiti nella loro pratica quotidiana. Essi rivelano come uomini e donne cominciano a concepire la realtà in categorie al di là degli imperativi dell’economia, mentre si scontrano con le conseguenze di quello che spesso viene chiamato neoliberalismo. Le politiche dell’identità sono, per noi, la modalità necessaria di politicizzazione di un soggetto neoliberale per il quale i predicati dell’identità sembrano essere contemporaneamente essenziali e inessenziali, potenzianti e indebolenti. Tali politiche non possono essere facilmente ricondotte a una divisione strategica tra “reale” e “sociale”, “classe operaia” e “classe media”, “rivoluzionario” e “riformista”, perché il loro divenire operative nella lotta porta a una confusione di identità, comprese quelle generate dalla lotta stessa.
Le rivolte dopo l’omicidio di George Floyd e il cambiamento negli atteggiamenti razziali negli Stati Uniti, che è stato giustamente chiamato il “grande risveglio”, è un’espressione di questo modello, e rivela la natura antropologica dei non-movimenti [28]. Ciò a cui stiamo assistendo è, in larga misura, una messa in discussione di costumi, rappresentazioni e modi di riproduzione che non sono più adatti a un proletariato deindustrializzato. Tuttavia, anche coloro che hanno colto la peculiarità dei non-movimenti non hanno generalmente riconosciuto questo cambiamento. Per Bayat, i non-movimenti implicano “una rivoluzione senza rivoluzionari”, nella misura in cui danno vita a rivolte esplosive che non sono “ancorate a visioni strategiche o programmi concreti”. [29] Per i critici della politica dell’identità, come Michael Lind, i non-movimenti esprimono un approfondimento del capitalismo piuttosto che il suo addomesticamento o superamento [30]. Tuttavia entrambi fraintendono la dinamica interna dei non-movimenti. Da un lato abbiamo sostenuto, contro Bayat, che stiamo assistendo alla produzione di rivoluzionari senza rivoluzione, poiché milioni di persone scendono nelle strade e vengono trasformate dal loro sfogo collettivo di rabbia e disgusto, ma senza (ancora) alcuna nozione coerente di trascendere il capitalismo. Dall’altro lato, contro Lind, insistiamo che i non-movimenti indicano il nucleo dirompente della nostra epoca, il fatto che la stagnazione capitalista implica una crisi della rappresentanza politica in quanto tale, e quindi la fine dei movimenti politici in senso classico.
Il movimento sociale classico, come definito da Carl Schmitt, è la mediazione tra il popolo non organizzato e lo stato [31]. Un tale movimento cerca di organizzare o mobilitare “il popolo” come categoria amministrativa e politica, che deve superare le identità che differenziano una data nazione, spesso reprimendo violentemente gli interessi o persino l’esistenza di gruppi specifici. Al contrario, i non-movimenti esprimono la dimensione antagonista della politica dell’identità, nel senso che non possono costituire un popolo, e raramente articolano chiare rivendicazioni politiche o positive. Oppure producono un flusso infinito di richieste parziali e a volte contraddittorie – assomigliando così a un’idra i cui molti richiami sono quasi impossibili da soddisfare, ma la cui vita può essere breve e violenta. Naturalmente all’interno dei molti non-movimenti che vediamo in tutto il mondo, che incorporano ampi settori del proletariato così come elementi della classe media in corso di impoverimento, molti sperano di costituirsi come un nuovo soggetto. A volte si collegano con partiti, sindacati e altre organizzazioni che un tempo appartenevano al mondo dei movimenti e delle ideologie, ma che oggi agiscono per lo più come uno strano insieme di sottoculture. Il nazionalismo e il populismo sono certamente tornati. Ma, come ha notato Gilles Dauvé, a proposito dei Gilets Jaunes, i non-movimenti tendono a mobilitarsi solo come plebaglia, sconvolgendo lo status quo [32]. Essi revisionano le costituzioni, rovesciano i governi e costringono presidenti e primi ministri a dimettersi (come abbiamo visto recentemente in Cile, Perù e Guatemala). Tuttavia, poiché rappresentano la crisi di un capitalismo stagnante, e il loro effetto è quello di rendere ingovernabile quella stagnazione, i non-movimenti indicano la necessità di un universalismo che vada oltre le rovine dei movimenti dei lavoratori [33].
In un mondo in cui l’identità media la classe, la rabbia proletaria prende il colore giallo (come i Gilets Jaunes) o nero (come la rivolta di George Floyd) piuttosto che rosso. La traiettoria da un mondo di lavoratori a un globo di proletari – che Gáspár Miklós Tamás ha descritto [34] – ha spostato la lotta di classe oltre le forme tradizionali e la retorica della politica. Ma il nostro punto non è solo insistere di nuovo sul fatto che il movimento operaio si è indebolito globalmente dagli anni ’70, che la composizione di classe stessa si rivela principalmente negativa, come decomposizione, e che nuovi simboli ideologici stanno quindi plasmando le proteste e riconfigurando i movimenti sociali. Ciò che vogliamo sottolineare è che la logica del non-movimento esprime la dimensione antagonista e la base sociale della “politica dell’identità” in quanto tale, sia che provenga da destra o da sinistra. Più che richiamare la litania dei cul de sac identitari, il punto è mostrare come uno status quo sempre più dirompente sia necessariamente attraversato da problemi di identità, e che qualsiasi discussione sull’emancipazione deve iniziare da qui.
Quello cui stiamo assistendo oggi è una confusione identitaria generalizzata. Lo vediamo non solo negli Stati Uniti, dove i liberali laureati stanno abbattendo le statue e si sono uniti ai proletari neri e a una manciata di miliziani bianchi in un fronte popolare contro la polizia, ma anche in Francia, dove i lavoratori nelle strade una volta cantavano l’internazionale e ora fanno il loro grido di guerra “Aou! Aou! Aou!” (dal film 300 di Zack Snyder) e sventolano bandiere francesi mentre dissacrano il monumento più patriottico della Francia – l’Arco di Trionfo. In Cile, lo slogan “evadere”, sollevato inizialmente dagli studenti delle scuole secondarie – la vera avanguardia delle rivolte – contro gli aumenti delle tariffe dei trasporti nell’ottobre 2019, si è presto generalizzato in una rivolta contro l’austerità e la repressione della polizia che ha preso come simbolo la bandiera indigena Mapuche, piuttosto che le bandiere rosse o nere della sinistra [35]. Con questi canti e simboli confusi i non-movimenti si dichiarano dalla parte dei “barbari” contro lo stato (o l’impero) e iniziano a mettere in discussione un modo di produzione che non può più produrre benessere o prosperità [36]. Esprimono un bisogno di una nuova riproduzione dell’esistenza quotidiana, un bisogno che spinge uomini e donne a rivoltarsi in tutto il mondo su una scala senza precedenti.
È vero che questo bisogno si esprime spesso solo come mancanza o addirittura come fame letterale. Ma non c’è, come ha dimostrato il ritorno delle rivolte per il cibo dal 2011, niente di più ingovernabile di uomini e donne affamati. E i nove anni dal 2011 al 2020 sono stati anni di crescente disperazione e immiserimento. Le lotte di Puerta del Sol, Tahrir e Syntagma nel 2011 sono state presto eclissate. Tuttavia, la loro spinta non è scomparsa, è stata semplicemente scambiata con la furia e la disperazione ancora maggiore dei Gilets Jaunes o le rivolte in Cile, Ecuador, Messico e ora Perù e Guatemala. Inoltre, gli stati e le economie capitaliste sono stati impotenti quando sono stati chiamati a soddisfare i bisogni crescenti e sempre più esplosivi dei non-movimenti.

2. CONFUSIONE E INGOVERNABILITÀ
Una caratteristica unificante dei non-movimenti è che lottano sul terreno di un capitalismo stagnante (vedi figura 1, sopra). Proprio come la stagnazione del suo capitalismo ha portato alla caduta dell’Unione Sovietica, così l’attuale era di stagnazione e deindustrializzazione ha portato all’indebolimento della socialdemocrazia europea, prima attraverso una svolta a destra, e poi attraverso la sua pasokification [37]. Questo processo si è svolto parallelamente all’ascesa dei partiti illiberali e, dal 2008, alle dure misure di austerità. Per reazione abbiamo visto nei non-movimenti l’aspetto dirompente sia dei valori liberali che della difesa dei bisogni primari di un proletariato immiserito sempre più differenziato in frammenti nettamente distinti. Ma questa frammentazione non comporta necessariamente la divisione. Al contrario, spesso costringe le persone a unirsi in alleanze reali ma deboli, come quella del “99 per cento”, o il mosaico di gruppi che si sono riuniti nell’estadillo social (rivolta sociale) cilena. Lì i movimenti si sono hanno fatto loro la canzone di Victor Jara El derecho de vivir en paz – “il diritto di vivere in pace” – non perché si identifichino con l’eroe della canzone (Ho Chi-Minh), ma perché la pace e persino l’ordine sono diventati una richiesta radicale in un mondo sempre più catastrofico.
Il non-movimento non si limita a designare le esplosioni di rivolte e occupazioni di piazze in cui la classe media impoverita e i lumpenproletari, la gente delle banlieues e dell’hinterland, islamisti e femministe, miliziani e neri poveri, possono almeno potenzialmente unire le armi contro un nemico comune e cominciare così a sciogliere le loro separazioni. Indica anche un repertorio di abitudini ed esperienze, una politica quotidiana che rende possibili tali rotture spettacolari e scoppi violenti. Il fatto che la maggioranza delle persone coinvolte nella rivolta di George Floyd fosse bianca, e che la morte di Floyd potesse diventare un catalizzatore per una rivolta ad ampio raggio contro Trump, rivela cambiamenti sociologici e demografici che rendono possibile la confusione dei non-movimenti e che vanno oltre la rivolta stessa [38].
Anche le organizzazioni formali che, almeno per un periodo, riescono a rappresentare una particolare realtà sociale, devono adattarsi alla logica dei non-movimenti. Possiamo vederlo nei sindacati francesi, inizialmente ostili ai Gilets Jaunes, che sono stati in grado di attingere a quel non-movimento nel settembre 2019 per lanciare il loro sciopero contro le riforme delle pensioni di Macron [39].
In questo senso il non-movimento è diventato la forma egemonica di lotta, ma solo nella misura in cui riflette una più ampia crisi di rappresentanza. In questo senso i non-movimenti possono essere descritti come processi destituenti piuttosto che costituenti [40]. Ma contro coloro che feticizzano la destituzione come una via positiva o rivoluzionaria, vorremmo sottolineare che oggi ogni potere sta diventando destituente, nel senso che non solo i flussi di capitale, ma anche le spinte e i bisogni delle popolazioni, rendono l’ordine politico sempre più difficile da governare. Questa ingovernabilità può anche essere vista nella formazione dei non-movimenti come risposta a una governance draconiana o sempre più irrazionale, specialmente come risposta alla violenza della polizia. Una delle poche cose che la maggior parte dei lavoratori, degli studenti, dei disoccupati e così via, in qualsiasi paese, hanno avuto in comune negli ultimi decenni è il fatto di essere stati vittime di politiche venali che assegnano le sempre più scarse risorse statali alle élite interne. Mentre tale corruzione può essere una fonte di rabbia popolare in qualsiasi momento, questa rabbia è esacerbata ora che la politica statale si è ridotta a lottare per la distribuzione di una torta fissa o in diminuzione, e che gli appelli frequenti a stringere la cinghia rendono qualsiasi ingiustizia in quella distribuzione ancora più intollerabile.
Come abbiamo argomentato in “The Holding Pattern”, una rabbia diffusa contro la palese ingiustizia di un regime di crisi, amministrato da una classe politica corrotta e incompetente, ha ampiamente definito una marea crescente di lotta di classe e mobilitazioni popolari in tutto il mondo dal 2008. Questo, argomenteremo più avanti, è anche il motivo per cui i non-movimenti di oggi si sono così spesso concentrati sulla polizia, come volto brutale della corruzione e dell’ingiustizia, ed è parte della ragione per cui l’antirazzismo è stato una forza di mobilitazione così centrale negli Stati Uniti [41].
Tuttavia, ciò con cui ogni ondata di mobilitazione di massa si scontra è la limitata capacità di andare oltre un’unità negativa (un’unità contro razzismo/polizia/élite) per stabilire una forza sociale o politica positiva e creativa. I perpetui problemi della politica dell’identità sono sintomatici di questo limite: l’incapacità di un’ondata di lotta di incarnarsi e sostenersi data l’atomizzazione e la frammentazione dei suoi costituenti. A un certo punto ogni onda si schianta e si frantuma su quei frammenti. I non-movimenti tendono sia ad attaccare che a ritirarsi da uno stato che percepiscono ritirarsi da loro. In questo senso la richiesta americana di “defund the police” riflette una tendenza più ampia (per molti versi un progresso) a non lottare più per prendere il controllo dello stato, ma semplicemente a scontrarsi contro l’apparato statale: austerità contro austerità.
Mentre i movimenti tradizionali si sono formati intorno a strutture ideologiche relativamente stabili e a comunità reali, come il sindacato, il partito di massa o i paesi socialisti statali, quelli che si sono diffusi nel mondo dal 2008 esprimono i desideri collettivi di popolazioni sempre più atomizzate. Ma se la fine dell’era dei movimenti è in un certo senso la fine dell’ideologia, non è, come abbiamo visto, la fine dell’identità. Al contrario, le identità proliferano in un’economia sempre più racketizzata e subculturale dove, come ha sostenuto Tyler Cowen, “la media è finita”.[42] Non c’è più un centro stabile, ma piuttosto una struttura di classe altamente segmentata che riconfigura il terreno dei movimenti classici come il fascismo e la socialdemocrazia. Se la politica centrista di Clinton e Blair durante gli anni ’90, e l’ascesa delle politiche identitarie a partire dagli anni ’70, già segnalavano questo cambiamento, il periodo successivo al 2008 rivela invece una crescente confusione di identità.
I non-movimenti sono, come abbiamo ribadito, l’espressione soggettiva di un disordine più generale che ha le sue radici nella stagnazione capitalista. È la quantità di proteste e rivolte – la loro crescente normalità – che distingue la nostra epoca, per esempio, dagli anni dell’antiglobalizzazione. Per questo diciamo che la nostra epoca è segnata dalla produzione di rivoluzionari su scala globale. Uomini e donne di tutto lo spettro dell’ideologia politica e della stratificazione identitaria si confrontano con l’ordine regnante attraverso il loro disgusto, la loro paura e la loro rabbia, e difendono sempre più il loro diritto a “evadere” i costi insopportabili della vita capitalista. Sono rivoluzionari senza rivoluzione, ma nel loro confronto con la riproduzione capitalista, così come nella loro fame di comunità, i non-movimenti esprimono un potenziale conflitto con la logica del capitale in quanto tale.
In un tale contesto, la politica – nella forma classica di inimicizia e scisma – ritorna con una vendetta. La politica dell’identità annuncia oggi un ritorno del politico piuttosto che la nascita di un’era post-politica (come molti critici di sinistra della politica dell’identità hanno sostenuto). Ma la politica non può più produrre alcuna stabilità significativa. Divide la popolazione contro se stessa e porta le nazioni, se non alla guerra civile, almeno a conflitti accresciuti e scismi più profondi. Tuttavia, mentre l’aporia dell’identità rappresenta una perdita di ciò che potremmo chiamare comunità, siamo lontani dal vedere un desiderio di ritorno al mondo orribile della socialdemocrazia e del fascismo. Al contrario, tendiamo a vedere una fame di esistenza comunitaria basata sulle richieste liberali espresse nei non-movimenti. Per quanto strano possa sembrare, liberalismo e coscienza sociale (wokeness)sono diventati forze dirompenti in un momento in cui ampi settori della sinistra stanno diventando sempre più conservatori, abbracciando il populismo nazionalista che alimenta la destra.
Per questo motivo, vorremmo rassicurare il lettore preoccupato che ora si chiede: come si può essere sicuri che il disordine dei nostri tempi non ci spinga semplicemente ancora più a fondo in un ordine autoritario che può solo allargare l’abisso tra liberalismo e democrazia di cui siamo testimoni oggi? La primavera araba non ha forse portato alla dittatura e alla guerra? Occupy non ha forse fatto da preludio a Trump? Le lotte brasiliane contro gli aumenti delle tariffe dei trasporti non hanno forse posto le basi per le proteste anti-corruzione che hanno dato il potere a Bolsonaro? La logica identitaria che sta formando le lotte in tutto il mondo non ci spinge in profondità in un mondo fascista? Le forze illiberali e fasciste stanno guadagnando forza, ma sarebbe irrazionale attribuire la loro ascesa ai non-movimenti, poiché essi stessi sono espressione del disordine della nostra epoca che i populisti di destra e di sinistra cercano di sfruttare. Inoltre, il contraccolpo culturale che alimenta il populismo di destra è in corso da decenni, molto prima del crollo del 2008 – il primo motore dei non-movimenti [43].
Inoltre, la chiusura delle frontiere e la svolta verso il nazionalismo e le dure politiche sui rifugiati in paesi governati da governi di sinistra, come la Svezia e la Danimarca, e la vittoria della destra populista in nazioni come la Polonia e l’Ungheria, rivelano sviluppi distintamente illiberali in luoghi che non sono stati lacerati dai non-movimenti. Lasciato a se stesso, in questo mondo di produttività stagnante e deindustrializzazione, lo stato capitalista contemporaneo fonderà troppo facilmente la cittadinanza nella lingua, nella cultura e nel lavoro. Questo è il motivo per cui masse sempre più grandi di uomini e donne in tutto il mondo sono mobilitate dai valori liberali e democratici, e sempre più portate a odiare una polizia cui sono stati assegnati i lavori sporchi di un ordine ingovernabile [44].

3. UN NUOVO DISORDINE MONDIALE
Bayat paragona l’emergere dei non-movimenti con ciò che Timothy Garton Ash ha chiamato, in riferimento ai movimenti dell’Europa dell’Est negli anni ’80 e ’90, “refolution” – rivolte violente per le riforme liberali [45].
Questi sono stati effettivamente importanti precursori, ma per ragioni che né Ash né Bayat riconoscono. Ciò che Ash non è riuscito a vedere è che questi movimenti stavano rispondendo al crollo dell’impero sovietico che prefigurava una crisi per il moderno mondo industriale [46]. Da allora l’Occidente sta recuperando terreno rispetto agli ex paesi comunisti in termini di stagnazione e deindustrializzazione (vedi figura 1). Le rivolte proliferanti della nostra epoca, che spesso scompaiono tanto velocemente quanto appaiono, esprimono lo stato dirompente di un ordine economico globale in stagnazione secolare e la geopolitica fatiscente del periodo post 1945.
Un anno dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il marxista italiano e ostinato leader della setta Amadeo Bordiga scrisse “Tracciato d’impostazione”, un saggio così pieno di esagerazioni retoriche e gergo sconclusionato che, quando appaiono, le sue vere intuizioni brillano come gemme nel fango [47]. Bordiga cercò di chiarire la definizione di un movimento rivoluzionario in un momento in cui il “demo-capitalismo” regnava supremo, e la stessa teoria comunista aveva perso il suo significato originario come scienza radicale e sperimentale che prevedeva il cambiamento sociale. Per questo rivoluzionario settario, la trinità dell’antifascismo, della democrazia e infine del marxismo era diventata il principale ostacolo per qualsiasi prospettiva comunista degna di questo nome. Ora “movimenti squisitamente conservatori di istituzioni borghesi osano chiamarsi partiti del proletariato”, si lamentava [48]. La vittoria degli alleati nel 1945 non solo offuscò le prospettive di una guerra rivoluzionaria in Europa, ma rimodellò l’immaginario comunista originario in uno democratico che, in definitiva, avrebbe alienato i proletari dal movimento operaio. Così, molto prima che Thomas Piketty avvertisse delle conseguenze della “sinistra braminica”[49], Bordiga dichiarò che il marxismo si stava trasformando in un’ideologia per manager della classe media, o peggio, in una semplice difesa del liberalismo e della democrazia [50].
Bordiga sarebbe forse stato d’accordo con Mario Tronti, che ha insistito sul fatto che “il movimento operaio non è stato sconfitto dal capitalismo, [è stato] sconfitto dalla democrazia” [51]. Bordiga, tuttavia, sosteneva che il movimento comunista aveva esso stesso posto le basi per questa sconfitta democratica. La sua famosa critica all’antifascismo, e le sue riflessioni controfattuali sul perché una vittoria dell’Asse avrebbe potuto scatenare la guerra civile e quindi la rivoluzione, possono sembrarci bizzarre oggi [52]. Tuttavia, la diagnosi di Bordiga dell’era post-seconda guerra mondiale può aiutarci a capire la crescita dei non-movimenti, spesso in lotta per valori apparentemente liberali e che fanno pressione sullo stato dal basso, nello stesso momento in cui vediamo un aumento della destra populista, che riflette una crisi delle classi dirigenti. Il nostro tempo è attraversato dal disordine sia dall’alto che dal basso, e questa crisi sembra disfare le basi della lunga pace (la Pax Americana) che ha interrotto lo svolgimento rivoluzionario di un’epoca precedente.
Le ascese di Trump, Bolsonaro, Duterte, Modi, Orban, Putin, e perfino Macron rivelano che lo status quo è di perturbazione, quello che David Ranney ha chiamato “Un nuovo disordine mondiale” [53]. Come abbiamo visto recentemente in Polonia e negli Stati Uniti, le elezioni sono sempre più combattute e vinte su margini stretti tra “liberali” e “conservatori”, con l’età e l’istruzione tipicamente più decisive della classe nel formare la lealtà al partito [54]. I Trump del mondo dividono le popolazioni, e persino le classi dirigenti contro se stesse e rivelano che la lotta per la democrazia liberale può essere facilmente radicalizzata, così come i rivoluzionari possono essere facilmente cooptati come camicie nere pronte a lottare con le loro pietre, scudi e ombrelli per lo status quo democratico. La rivolta di George Floyd, per breve tempo, è diventata, per esempio, un canale per la resistenza all’autocrazia dei nuovi leader populisti in tutto il mondo. Ma sotto l’opposizione “liberale” e “conservatrice” possiamo identificare ciò che Bordiga potrebbe chiamare tendenze “antiformiste”, che intensificano i conflitti e rimodellano la forma sociale del nostro ordine attuale.
Nell’analizzare il conflitto sociale e le istituzioni sociali, Bordiga ripudia le espressioni cariche di valori come “conservatore”, “progressista”, o anche “rivoluzionario” [55]. Il compito del marxismo, che Bordiga chiama “scienza della specie”, è quello di comprendere ogni movimento sociale o istituzione nella sua dimensione “conformista”, “riformista”, o “antiformista” [56]. Un movimento conformista è una forza che cerca di mantenere “le forme e le istituzioni esistenti intatte, proibendo qualsiasi trasformazione, e facendo riferimento a principi immutabili” [57]. I movimenti riformisti sono “quelli che, pur non cercando di sconvolgere bruscamente e violentemente le istituzioni esistenti, segnalano che le forze produttive stanno premendo troppo forte, e sostengono cambiamenti graduali e parziali dell’ordine attuale” [58]. I movimenti antiformisti, al contrario, comportano un “assalto alle vecchie forme, e prima ancora di saper teorizzare le caratteristiche del nuovo ordine, tendono a rompere il vecchio, provocando l’irresistibile nascita di nuove forme” [59].
Se adottiamo la tipologia di Bordiga, sosterremmo che sono questi ultimi che vediamo aumentare su base annuale, man mano che sempre più persone esprimono la loro frustrazione nei confronti dello status quo. La proliferazione dei non-movimenti riflette l’instabilità di un mondo post-industriale e quindi può essere descritto come “antiformista”. Eppure queste esplosioni possono facilmente trasformarsi in movimenti riformisti o addirittura conformisti se, paradossalmente, rimangono incapaci di evitare le tendenze alla guerra civile e alla violenza nichilista implicite in tale instabilità. Il sogno di Bordiga di una guerra rivoluzionaria è diventato (o forse è sempre stato) una fantasia ingenua, incapace di produrre le basi per una società senza classi. Le guerre civili in Libia e Siria rivelano quanto facilmente la guerra trasforma le organizzazioni rivoluzionarie di massa in racket militari bisognosi di denaro, armi e reclute [60].
Anche se l’affermazione di Bordiga sulla guerra era naïf, la sua critica alla democrazia merita comunque di essere presa seriamente in considerazione. Lo sviluppo dal 2008 al 2020 mostra che i non-movimenti trovano il loro limite nel Giano Bifronte di repressione e rappresentanza (o, nella loro forma più completa, guerra e democrazia). I due possono essere combinati per indebolire i non-movimenti, per esempio legandoli allo stato o trasformandoli in partiti o sindacati formali. Tali sconfitte nascono dalle necessità dei non-movimenti stessi, dalla loro incapacità di superare i loro limiti immanenti. Ma se l’accumulo di lotte antigovernative continua ad aumentare, come ha fatto ogni anno dal 2008, allora sarà necessario che i non-movimenti sviluppino la loro critica istintiva della repressione e della rappresentanza in una critica spietata della guerra e della democrazia.
Una strategia che cerchi di liberare la logica antiformista dei non-movimenti dovrebbe comportare una discussione sui problemi della mediazione politica, e quindi una difesa di ciò che è spesso chiamato antipolitica [61]. Se le rivolte devono evitare le due trappole della guerra e della democrazia, è necessaria una prospettiva strategica che metta in discussione le divisioni ideologiche e identitarie all’interno del proletariato, comprese quelle tra lavoratori e strati della classe media. Si può scommettere che le conseguenze economiche dei lockdown che già cominciano a costringere la gente a riunirsi in fronti contro un’economia stagnante e deteriorata, contribuiranno ancora di più alla confusione di identità prevalente e visibile in molti luoghi del mondo. Proprio come i Gilets Jaunes hanno fuso uomini e donne dell’hinterland – certamente spesso conservatori o di destra –, con studenti di sinistra, membri insoddisfatti della classe media e proletari delle banlieues, il rallentamento e la più recente chiusura dell’economia porranno le basi per una maggiore confusione [62]. A volte l’incertezza generata da questa commistione può apparire spaventosa, che è forse il motivo per cui i giovani di Napoli che protestavano per le conseguenze del confinamento hanno sentito il bisogno di dichiarare “Siamo lavoratori, non fascisti”.
Come ha avvertito Perry Anderson nel 2017, una delle ragioni per cui il sistema sta vincendo potrebbe essere il fatto che sia la paura, piuttosto che la rabbia, a mobilitare l’ala sinistra [63]. Ma i non-movimenti hanno coraggiosamente sfidato la repressione della polizia, il confinamento e la paura del coronavirus semplicemente radunando le persone a migliaia nelle strade. Questa messa in discussione di una normalità capitalista, segnata dall’isteresi e dal catastrofismo che l’accompagna, sarà ancora più importante quando l’economia continuerà a ristagnare e i non-movimenti saranno spinti in una direzione più rivoluzionaria [64].
Una riflessione strategica dovrebbe quindi prevedere anche i mezzi attraverso i quali i non-movimenti potrebbero eventualmente prendere il controllo della stagnazione/deindustrializzazione capitalista e liberare le basi per un nuovo mondo che essa contiene. Questo è qualcosa che non sono né interessati a fare né in grado di fare, poiché minaccia la loro spontaneità e, in un certo senso, la loro passività costitutiva. Ma per sopravvivere, i non-movimenti devono ispirare la creazione di forme di vita capaci di vivere per qualcosa di più del denaro e del lavoro salariato. Questo implicherebbe un nuovo uso dei mezzi di produzione come strumenti contro il capitale – strumenti che non solo ci liberano dal lavoro, ma ci permettono anche di condividere il lavoro necessario a garantire che la vita possa diventare qualcosa di più della mera sopravvivenza [65]. Come hanno recentemente delineato gli “Angry Workers of the World”, l’obiettivo immediato dovrebbe essere per tutti quello di “lavorare meno a piena retribuzione, secondo il livello che la produttività sociale ha raggiunto.” [66]
Tuttavia, le popolazioni disposte a vivere un’esistenza così comunitaria, dove l’economia è governata da una deindustrializzazione al contempo resa possibile e proibita dal capitalismo, possono essere prodotte solo attraverso la forma (chiamiamola provocatoriamente) della mescolanza interclassista così caratteristica del nostro periodo. Proletari, studenti e strati della classe media sono costretti a stare insieme nelle strade. Lavoratori con un potere strategico chiave, tecnici con il know-how per rimodellare il volto industrializzato del mondo, tali gruppi saranno cruciali per la trascendenza del capitalismo; ma l’affermazione del loro potere sarà una ricetta per un’ulteriore frammentazione di classe a meno che non possa andare oltre i loro interessi settoriali e convergere con segmenti delle masse precarie o disoccupate del mondo. Così, mentre è necessario essere “radicati” nella vita proletaria, creando così legami internazionali tra i lavoratori in lotta, è altrettanto essenziale collegare i luoghi di lavoro ai non-movimenti la cui crescita travalica la maggior parte dei confini sezionali e persino di classe [67]. Il fallimento in questo senso comporta la riproduzione delle divisioni che stratificano le classi in diversi segmenti con interessi distinti e non raramente antagonisti. Sicuramente è qualcosa di questa oscillazione – che costringe le persone a unirsi in deboli alleanze, ma crea anche divisioni significative all’interno del proletariato globale – che caratterizza il nostro periodo di decrepiti Behemoth e Leviatani falliti.
Oggi un virus ha portato la macchina civilizzatrice quasi a fermarsi. Ha rivelato l’incapacità dello stato capitalista di proteggere la vita senza spegnere un’economia che è diventata quasi inseparabile dall’esistenza umana in quanto tale. Dato che non cerchiamo né siamo in grado di ricreare la macchina della crescita che era la base della socialdemocrazia, l’unica strada da percorrere è, come insistevano i bordighisti nel 1953, combattere per un radicale “de-investimento del capitale”. Per Bordiga questo implicava che ai “mezzi di produzione fosse assegnata una proporzione minore in relazione ai beni di consumo” e che si preparasse un “piano di sottoproduzione, cioè la concentrazione della produzione su ciò che è necessario” [68]. Una tale combinazione di de-investimento e sottoproduzione ha certamente mostrato di essere possibile attraverso i lockdown (così come la stagnazione secolare dell’economia). Ma per affermare il controllo sul declino capitalista sarebbe necessario affrontare le questioni sociali che producono le strane convergenze tra diversi strati sociali all’interno dei non movimenti.
Le proteste dei ragazzi delle scuole superiori in Cile per un aumento dei trasporti di 30 pesos sono diventate un movimento di massa contro i 30 anni della costituzione neoliberale, che è stata revisionata nell’ottobre 2020: “No son 30 pesos son 30 años”. Una protesta contro un aumento del prezzo del carburante in Francia è diventata presto una mobilitazione di massa contro la crescente disuguaglianza e le misure di austerità imposte da un governo autocratico. Quando le lotte si intensificano e molte richieste iniziali vengono soddisfatte – non di rado per il semplice fatto che la repressione costringe sempre più persone nelle strade per il disgusto della violenza della polizia – i non-movimenti rivelano un punto di unità nel fatto che sono tutti prodotti, o almeno condizionati, dalla stagnazione economica. In questo contesto, la confusione identitaria dei non-movimenti può aiutarli a prendere coscienza di ciò che sono: espressioni soggettive del declino economico. Abbiamo sostenuto che la coscienza di classe, nel periodo attuale, può essere solo la coscienza del capitale [69]. Oggi questo, a sua volta, non implica altro che la crescente rivelazione che il capitalismo è senza futuro. E quando i Gilets Jaunes dicono “fine del mondo, fine del mese”, non stanno solo esprimendo ciò che vedono come la dimensione apocalittica della nostra epoca, ma affermano la fine di questo mondo e di questa vita come il prerequisito necessario alla creazione di un nuovo mondo e di una nuova vita.

4. ADESSO SIAMO TUTTI BASTARDI
Abbiamo visto la folla cercare di distruggere l’Arco di Trionfo, sventolando la bandiera e cantando l’inno nazionale, così come l’abbattimento a volte indiscriminato dei monumenti negli Stati Uniti: sono tutti indicativi di un modello più ampio di ciò che può essere chiamato solo antipolitica [70]. Ma, come per molti non-movimenti contemporanei, dalla primavera araba ai Gilet Jaunes e al Black Lives Matter, la rabbia contro la polizia viene spesso a rappresentare un odio più ampio per la politica. Questo non è semplicemente perché la polizia è la manifestazione immediata della repressione statale, un avversario tattico nelle strade. Se le statue sono i simboli morti dello stato, la polizia è quella viva, e questo è particolarmente vero in un’epoca di austerità e di pandemia mortale. Poiché lo stato si è dimostrato incapace di proteggere la popolazione da una crisi a più teste, diventa chiaro che il suo ruolo primario sarà quello di contenere le ricadute di queste crisi disciplinando la popolazione. Lo stato viene, cioè, ridotto alla sua funzione di polizia.
Il popolare slogan francese tout le monde déteste la police – “tutti odiano la polizia” – può indicare una più ampia delegittimazione dello stato moderno, il cui antico precursore, la polis, ha dato sia il nome che la forma alla “polizia”. La violenza della polizia, le quarantene, l’allontanamento sociale e le misure di confinamento (o la volontà dei politici di riaprire le economie) sono diventati i fattori scatenanti di una nuova ondata di dissenso sociale che riflette una crisi acuta della rappresentanza politica. Naturalmente, non tutti odiano letteralmente la polizia. I sondaggi dell’Europa occidentale mostrano spesso un notevole grado di fiducia nella polizia (sebbene questo vari a seconda della classe, dell’età, della nazione e della razza) [71]. Mentre la polizia è ampiamente disprezzata nelle autocrazie, i recenti programmi di austerità hanno dato loro una forma particolarmente degenerata e violenta in alcune democrazie neoliberali, dove sono diventati il rappresentante primario dello stato in molte comunità povere e operaie [72] . Di conseguenza, i sondaggi più recenti mostrano che la fiducia nella polizia è diminuita, e possiamo vedere segni che la polizia è diventata sempre più oggetto di odio non solo da parte dei proletari e delle minoranze razziali, ma anche tra i segmenti della piccola borghesia, e persino tra i benestanti.
Certamente, una ragione di ciò può essere un aumento sia dei casi che della consapevolezza della brutalità della polizia. La polizia è universalmente brutale, perché il lavoro seleziona e incoraggia una personalità autoritaria, e il ruolo della polizia nel proteggere la ricchezza e la proprietà ha sempre reso la polizia, nei termini di Orwell, il nemico naturale della classe operaia [73]. Ma la brutalità della polizia può essere amplificata dalla loro ulteriore responsabilità di far rispettare prima l’austerità e ora i lockdown. Senza un aumento dell’impegno della forza lavoro della polizia, i singoli agenti che si trovano a corto di tempo e risorse possono essere più inclini a ricorrere a punizioni sommarie o esemplari. In ogni caso, il loro ruolo nel contenere e disciplinare la popolazione che si ribella a queste misure rende inevitabile un aumento della brutalità, e l’aumento dei livelli di brutalità a sua volta porterà inevitabilmente a un aumento dell’inimicizia sia delle vittime che degli spettatori (reali o virtuali).
Inoltre, l’esperienza di essere odiati può di per sé dare origine a un’identità subculturale tra i poliziotti non molto diversa da quella di molti di coloro che li combattono: la sensazione di essere una minoranza assediata (“le vite blu contano” [74]) che può amplificare la tendenza a una maggiore brutalità. La loro sensazione di non essere rispettati né dai proletari che disciplinano, né dai ricchi che proteggono, può anche portare al cinismo. Così, se è vero che “all cops are bastards” (“tutti i poliziotti sono bastardi”), è anche vero che, reagendo al loro senso di abbandono (da parte dei politici e delle élite) e di illegittimità (agli occhi di coloro che proteggono), i poliziotti arrivano a vedere se stessi come bastardi – i figli non riconosciuti di una società malata – e provano piacere nell’ostentare le norme “civilizzate” brutalizzando impunemente [75]. Come Edmund in Re Lear, essi “stanno dalla parte dei bastardi” [76].
La possibilità che un segmento crescente della popolazione si identifichi con questa brutalità spudorata solleva un vero pericolo fascista, e questo produce una comprensibile reazione antifascista e anti-poliziesca. Eppure, come Camatte già sottolineava nel ’68: “è pericoloso delegare tutta la disumanità a una parte dell’insieme sociale, e tutta l’umanità a un’altra” [77]. Per Camatte il rischio non è solo quello di andare contro un principio fondamentale dell’umanesimo (e quindi del comunismo), ma anche quello di “escludere di fatto la possibilità di minare le forze di polizia” [78]. Concentrare i nostri attacchi sulla polizia significa, per Camatte, “perpetuare un certo rituale – un rituale in cui la polizia è sempre proiettata nel ruolo di invincibili soggiogatori” [79]. Piuttosto che assumere che attaccare la polizia sia la tattica insurrezionale per eccellenza, dobbiamo pensare strategicamente a come circumnavigare la polizia, e persino sfruttare potenziali contraddizioni all’interno del campo nemico [80].
Una critica contemporanea della violenza, adeguata a un’epoca in cui la guerra può significare solo sconfitta, non richiede la ritirata; piuttosto, può indicare la necessità di un’intelligenza rivoluzionaria, come quando masse di donne circondano la polizia in Bielorussia, o il muro delle mamme protegge il fronte a Portland. Eppure sarebbe un errore sopravvalutare l’importanza delle tattiche e dei piani nel discutere le azioni spontanee di milioni di uomini e donne. I modi migliori per smobilitare la polizia e le forze di sicurezza passano dall’intensificazione (quindi molto spesso violenta) delle proteste. Non sono le rivolte che mettono in pericolo il continuo svolgimento delle lotte (le stazioni di polizia bruciate possono mobilitare milioni di persone, come abbiamo visto dopo l’omicidio di George Floyd), ma la militarizzazione del conflitto. Tutte le forme di violenza professionalizzata ostacolano la crescita dei non-movimenti, proprio nella misura in cui questi prendono la forma di masse di rivoluzionari non professionisti, che cercano di superare le divisioni del lavoro che indeboliscono il potenziale emancipatorio delle proteste.
Alla fine, i non-movimenti non solo delegittimano la polizia, ma un intero mondo in cui la politica è ridotta alla polizia. Possono combattere la polizia nel modo più efficace delegittimando il sistema nel suo complesso. Come abbiamo visto molte volte di recente, questo può implicare il dispiegamento dell’esercito, sollevando lo spettro della guerra civile. Alla fine, questo spettro può essere dissipato solo attraverso la defezione. E proprio come i soldati devono disertare (tradizionalmente la conditio sine qua non del successo rivoluzionario), le defezioni della polizia e del personale di sicurezza, come nella cosiddetta Rivoluzione Bulldozer in Serbia nel 2000, saranno sempre più necessarie per andare oltre l’inimicizia che riporta i non-movimenti alle categorie, identità e ruoli che hanno iniziato a trascendere nelle loro confusioni [81].
Forse nell’odiare la polizia odiamo ciò che siamo diventati. Non nel senso che odiamo “i poliziotti nelle nostre teste”, ma nel senso che siamo diventati dipendenti dalla stessa austera infrastruttura che poggia in ultima analisi sulla polizia, ma la cui esclusione – ciò che Ruth Gilmore ha descritto come “abbandono organizzato” – significa morte prematura, e non solo per mano della polizia [82]. In un certo senso siamo diventati tutti “bastardi”. Eppure, se è così, è chiaro che né il “defunding” né l’“abolizione” della polizia affronterebbero questo problema più profondo.
“Defund” (togliere i fondi) implica che il denaro speso per la polizia e le prigioni, se riassegnato ad altri programmi sociali, potrebbe affrontare i problemi sociali sottostanti che la polizia dovrebbe gestire o contenere. Ma questo ignora il fatto che la polizia e le prigioni sono il più economico dei programmi sociali, l’espressione stessa dell’austerità, e quindi di scarsa utilità per la riparazione redistributiva [83]. “Abolire”, in pratica, spesso significa sostituire la polizia con qualche altra istituzione (ad esempio mediatori professionali, assistenti sociali, sicurezza privata) che probabilmente presenterà patologie simili o correlate [84]. Ma anche le visioni più radicali dell’abolizione tendono a inciampare nei reali problemi sociali che gli stati capitalisti assegnano alla polizia. Quelle che mettono le vittime sotto il controllo della punizione e della “responsabilità” possono riprodurre il pregiudizio punitivo dell’attuale regime carcerario [85]. Ma mentre gli appelli per la riduzione del danno e la riparazione sono del tutto giustificati, dovrebbe essere chiaro che essi sono al di là della portata di ciò che qualsiasi società capitalista potrebbe ammettere (e tanto meno permettersi). Perché richiederebbe di riconoscere che la riparazione – repair – non è la stessa cosa del risarcimento – reparation – (cancellare i propri debiti è uscire dalle relazioni sociali riacquistando le sue quote) e che il capitalismo ci rende tutti bastardi (anche se nessuno è semplicemente questo) [86].
Forse non è sorprendente che lo slogan “defund the police” abbia preso piede in un paese che possiede non solo una forza di polizia relativamente omicida, ma anche una tradizione profondamente radicata di giustizia privata [87]. Il termine “abbandono organizzato” dovrebbe attirare la nostra attenzione sul fatto che quando la politica si riduce alla polizia l’assenza della polizia può essere altrettanto politica della sua presenza. Possiamo trovare vari esempi di questa politica – la presenza di questa assenza – non solo nella fantasia americana del selvaggio West, ma anche in molte situazioni di guerra (sia civile che non civile), e in alcuni quartieri impoveriti abbandonati dallo stato, come le favelas brasiliane che sono in gran parte amministrate da bande. Meno conosciuti, possiamo trovare esempi anche nel Sud all’epoca delle leggi segregazioniste di Jim Crow, dove la polizia spesso si rifiutava di entrare nei quartieri urbani neri a meno che i bianchi non dichiarassero di essere stati vittime del crimine nero [88]. Più recentemente abbiamo visto un barlume nelle “zone senza polizia” che sono state dichiarate in alcune città americane, come la CHAZ di Seattle, che, se considerata una nazione indipendente (come alcuni partecipanti hanno suggerito), avrebbe avuto il più alto tasso di omicidi del mondo [89]. Nel South Side di Chicago, dove il tasso di omicidi ha brevemente raggiunto livelli brasiliani quest’estate, abbiamo un senso più chiaro di come potrebbe essere abolire la polizia senza abolire il capitalismo. La “polizia” privata dell’Università di Chicago a Hyde Park, un’isola di ricchezza in mezzo alla povertà del South Side, è meglio finanziata di tutti i distretti locali messi insieme. La sicurezza privata è, dopo tutto, un accordo assolutamente più efficiente in termini di costi per i ricchi: perché sprecare i dollari delle tasse per un dipartimento di polizia tentacolare in tutta la città quando tutto ciò di cui si ha veramente bisogno è di proteggere le proprie enclave?
Sotto la pressione dei manifestanti, nel giugno 2020, il consiglio comunale di Minneapolis ha votato non solo per il “defund” [togliere fondi, NdT], ma anche per sciogliere il loro dipartimento di polizia. Anche se sembra che revocheranno quell’impegno, se seguissero il modello “abolizionista” di Camden, New Jersey, potrebbe semplicemente significare rinominare il dipartimento [90]. Visioni più radicali di abolizione sono state talvolta propagandate tra le milizie che hanno passato l’estate a sorvegliare le strade di Minneapolis alla ricerca dei mitici “saccheggiatori suprematisti bianchi” [91]. Resoconti divergenti della loro esperienza indicano la complessità della questione della violenza, poiché essa si presenta in modo diverso ad attivisti, proprietari di negozi e residenti di quartieri ad alta criminalità. Come rivela la storia delle rivoluzioni del XX secolo, è raramente possibile distinguere chiaramente tra violenza politica e antisociale nella nebbia della guerra civile [92]. Ma i tentativi necessariamente caotici dei rivoluzionari di difendere i territori strappati allo stato e al capitale non dovrebbero essere confusi con una guardia di quartiere o il braccio armato di una “organizzazione comunitaria” che protegge la proprietà privata in aperta o tacita collaborazione con la polizia locale [93].
Da questi esempi è chiaro che le lotte stesse possono facilmente diventare espressioni passive dell’anarchia e del disordine che i Trump del mondo cercano di intensificare [94]. Come disse Agamben ad Atene nel 2013: “la vera anarchia è l’anarchia del potere” [95]. Possiamo forse vedere un riconoscimento di questo in uno dei canti più popolari delle rivolte cilene: No estamos en Guerra. Questo era diretto contro il presidente Sebastián Piñera, che in un discorso dell’ottobre 2019 dichiarò: “Siamo in guerra contro un nemico potente, che è disposto a usare la violenza senza alcun limite” [96]. In questo esempio, uno tra i tanti, i non-movimenti del mondo sembrano paradossalmente rappresentare il partito dell’ordine, mentre la polizia non è altro che la forza armata del partito dell’anarchia, che non fa altro che intensificare i conflitti che dilaniano il nostro mondo.
Naturalmente, sarebbe sciocco adottare un principio astratto di non violenza. La rivolta in Cile è purtroppo costata la vita ad almeno 30 persone dall’ottobre 2019, e circa 500 hanno ferite agli occhi. Eppure è chiaro che le masse nelle strade non desiderano il caos né anelano alla violenza. Rinominando l’hub dei non-movimenti Plaza Baquedano a Santiago in Plaza Dignidad, i manifestanti cileni dichiarano che cercano una vita dignitosa. Si può forse scorgere un (logoro) filo rosso che collega il cupo slogan No Estamos en Guerra del 2019, a Make Love not War del 1968 e persino Peace, Land and Bread del 1917. Perché la storia del comunismo non è solo la storia della lotta di classe, ma anche la storia di un’inimicizia contro l’inimicizia, una rivolta contro l’antagonismo che divide le classi subalterne in amico e nemico. In questo senso è un desiderio di pace.

5. UNA SCIENZA DELLA SPECIE
In “The Holding Pattern”, in Endnotes 3, abbiamo descritto la preoccupazione centrale della Primavera Araba e di Occupy come il problema di comporre diversi frammenti del proletariato (così come della classe media disillusa) in una forza coerente nelle piazze. A posteriori, questi sono stati i primi segnali di una marea crescente di non-movimenti. Ma il “problema della composizione” è più convenzionalmente inteso come un problema di una “politica dell’identità” che sembra essere sorto insieme alla scomparsa del movimento operaio [98]. Sarebbe solo una leggera esagerazione dire che la politica anti-identitaria è il peggior prodotto della politica identitaria. Molti critici di sinistra della politica dell’identità hanno supposto che ci sia una questione di identità attorno alla quale i resti del movimento operaio potrebbero ancora radunarsi, vale a dire il “nazionalismo cittadino” che non è mai stato lontano dal suo cuore [99]. Ma abbiamo visto che solo la destra può prosperare validamente su quel terreno. Tuttavia, la “politica dell’identità” non è solo uno spettro che perseguita la sinistra socialdemocratica. È infatti diventato un termine di avversione quasi universale. Perché anche i più “svegli” tendono a impiegare lo stesso termine (o un sinonimo) per criticare coloro che fomentano inutili divisioni o fanno dubbie pretese di rappresentare sottogruppi sempre più piccoli di oppressi. Questo è il motivo per cui prendiamo la “politica dell’identità” per segnalare più di un semplice insieme di limiti che i non-movimenti contemporanei devono affrontare. Nel senso più ampio in cui impieghiamo il termine, la politica dell’identità forma il terreno stesso su cui la maggior parte delle lotte si svolge oggi, e quindi su cui tali limiti devono essere affrontati.
I movimenti sociali classici – siano essi di destra o di sinistra – possono manovrare solo sul terreno di un capitalismo decrepito che i non-movimenti del mondo stanno oggi lentamente, e forse presto rapidamente, rimodellando. In Apocalisse e Rivoluzione, Giorgio Cesarano ha descritto le prime istanze della politica identitaria come “movimenti di liberazione controrivoluzionari” che nella loro parzialità producono comunque una “faticosa consapevolezza della vera posta in gioco: la liberazione della specie dall’ideologia, il necessario superamento di ogni separazione, la conquista armata del punto di vista della totalità” [100]. Nei termini di Bordiga, potremmo dire che accanto alla loro dimensione conformista e riformista (su cui si fissano le litanie “anti-risveglio”) tali movimenti contengono anche elementi decisamente antiformisti, nel senso che riconfigurano il terreno stesso su cui si gioca la contestazione.
Il principio organizzativo centrale dei non-movimenti è stato la loro rabbia e il loro disgusto contro l’ingiustizia o la corruzione percepita in generale, e contro la polizia, i politici o le élite in particolare. Ma arriva un punto nell’evoluzione della lotta in cui tale unità negativa (unità attraverso l’inimicizia) è vissuta come insufficiente. Siamo uniti attraverso un senso condiviso di ciò che è sbagliato, ma limitati da questo stesso rapporto con l’ingiusto, che può essere trasceso solo articolando una visione condivisa di ciò che è giusto. Inoltre, ci riuniamo sotto la bandiera degli arrabbiati e degli indignati, ma dietro di essa rimangono nascoste le reali divisioni di interesse e di fedeltà. Divisioni che inevitabilmente ad un certo punto si fanno sentire, spesso violentemente. Questo è vero anche quando la lotta sembra non essere solo una lotta contro un particolare nemico, ma la lotta di una specifica frazione della classe (ad esempio i neri, gli indigeni, i giovani, i migranti) che può presentarsi come la più sfruttata o la più indignata, la parte che sta al posto del tutto.
Oggi l’insieme in quanto tale non può essere rappresentato, così che una qualche forma di politica identitaria tende a delineare le potenzialità e i limiti di qualsiasi lotta di classe che si estenda al di là di un particolare luogo di lavoro o di una particolare sezione della classe. In effetti, tali lotte possono estendersi solo affrontando e confondendo le separazioni identitarie in cui la classe operaia è invischiata. La classe è frammentata in una miriade di situazioni, ognuna delle quali è in grado di avere una rappresentazione parziale, ma nessuna è in grado di mappare in modo pulito una fedeltà politica o un gruppo di interesse. Inoltre, raramente c’è una soluzione al problema della coordinazione in base alla quale tali identità parziali possono essere allineate per rappresentare adeguatamente la classe nel suo complesso.
Negli Stati Uniti, per esempio, la classe sembra essere mediata dalla “razza”; lo strato più povero e privo di diritti della società è sproporzionatamente di discendenza africana o indigena, e i segni visibili di tale discendenza sono spesso identificati con quello strato. Naturalmente, il problema con questa forma di apparenza non è solo che c’è una classe media nera e indigena la cui esistenza è necessariamente in tensione con questi precetti culturali, ma anche che i bianchi poveri sono spesso rappresentati da questa prospettiva come privilegiati. Nell’immaginario dell’America liberale, la classe operaia bianca è arrivata ad essere vista come incorreggibilmente razzista, un “cesto di miserabili”[101] identificato con la vituperata base di Trump, mentre i conservatori persistono nell’associare questo gruppo con professioni maschili scomparse ormai da tempo – compresi gli agenti di polizia – la cui rispettabilità viene contrapposta alle presunte patologie del “sottoproletariato” nero. Per entrambi, la classe è così divisa lungo una linea morale e razziale allo stesso tempo in poveri meritevoli e non meritevoli, ma quale “razza” è associata a quale lato di questa dicotomia manichea dipende in gran parte dalla fedeltà liberale o conservatrice dell’osservatore.
Ma se la politica razziale degli Stati Uniti è un esempio estremo di una classe mediata dall’identità, questa non è affatto un’eccezione americana. Le lotte sull’identità sono arrivate ovunque a dominare la sfera politica. Non perché la gente sia diventata più razzista, sessista o omofoba. Al contrario, tali opinioni sono generalmente diminuite, anche se sono diventate più salienti nei riallineamenti politici contemporanei [102]. La tendenza generale è che le generazioni più giovani, più liberali e progressiste si confrontano con le parti conservatrici, e spesso più vecchie, della popolazione, le quali hanno un’influenza sproporzionata sulla politica (a causa della loro ricchezza e propensione al voto). In questo contesto il nazionalismo e il populismo sono diventati più pronunciati, ma questo non segnala di per sé un cambiamento di direzione, perché tutta la politica mainstream (sia di sinistra che di destra) è fondamentalmente una politica dello stato, del cittadino, del popolo e della nazione. Ciò che è cambiato è che i non-movimenti del mondo hanno interrotto tale politica conformista con il loro impeto antiformista.
Oggi tutta la politica tende alla politica dell’’identità non perché le divisioni identitarie si siano chiarite e indurite, ma piuttosto perché vengono sempre più sfidate e confuse. Da un lato, ciò è una semplice funzione della stagnazione capitalista in corso, in cui le trasformazioni del processo produttivo si combinano con il peggioramento delle tendenze economiche per minare le aspettative di stabilità nel lavoro, nella salute, nella residenza e nella vita familiare. D’altra parte, le identità sono ulteriormente messe in discussione, fino a mettere in discussione la loro stessa sopravvivenza, ogni volta che la necessità di combattere queste condizioni in costante peggioramento supera i limiti reali della cooperazione tra frammenti di classe, e i non-movimenti si riversano nelle strade, nelle piazze e nelle rotonde. Questi spazi sono necessariamente confusi, perché la loro produzione richiede una confusione attiva di identità disparate. Questo processo è rischioso, perché implica una politica identitaria che gioca con una posta molto alta, sempre a rischio di diventare meramente performativa, amara e persino violenta.
L’ultima iterazione di Black Lives Matter può quindi essere vista come un’istanza di un modello generale che ha caratterizzato l’accumulo globale di non-movimenti. Le manifestazioni, le rivolte e gli attacchi ai monumenti, che hanno travolto gli Stati Uniti dal 26 maggio, rappresentano una tremenda confusione di elementi fino ad allora separati e persino opposti. All’interno di questo amalgama proliferano le divisioni interne, sia lungo le linee delle identità preesistenti, sia lungo quelle nuove create dalla lotta. Nella ribellione di George Floyd possiamo indicare la divisione tra il “giorno” e la “notte”, corrispondente a proteste pacifiche più borghesi e ad atti di rivolta e saccheggio più proletari [103]. Potremmo anche parlare delle divisioni tra “violenti” e “non violenti”, o della divisione tra grandi città e piccoli paesi, molti dei quali hanno visto le loro prime manifestazioni in questo momento. Ma la cosa più sorprendente, forse, era la composizione razziale di queste proteste.
Ci sono pochi dubbi sul fatto che i proletari neri abbiano aperto la strada, sia nella rivolta iniziale di Minneapolis che nei successivi casi di saccheggi mirati a Chicago e Philadelphia. Nella stragrande maggioranza delle proteste, e anche in molte rivolte, tuttavia, i partecipanti che si identificano come “bianchi” sembrano essere la maggior parte delle persone nelle strade [104]. Questo è visibile nei sondaggi di opinione che hanno chiesto se le persone hanno protestato, nelle indagini sulla folla condotte dai sociologi, nella maggior parte dei rapporti di arresto rilasciati dalla polizia, e persino nelle analisi dei telefoni cellulari di alcuni luoghi delle rivolte [105]. Questo fatto è spesso ignorato sia da destra che da sinistra, presumibilmente perché sconvolge il loro senso di identità. Eppure è proprio la mobilitazione di massa dell’“America bianca” che ha distinto questa rivolta da altri movimenti comparabili, come il Black Lives Matter nel 2015, così come l’ondata di rivolte che ha travolto le città americane negli anni ’60 [106].
È possibile leggere questo come un tradimento di massa della bianchezza, che corrisponde a una graduale ma sostenuta riduzione degli atteggiamenti razzisti, specialmente tra i giovani americani. Ma se “antirazzismo” è stata la parola d’ordine universale del movimento, è importante chiarire che ha significato cose diverse per persone diverse. Negli effetti a catena del movimento attraverso la cultura possiamo vedere un notevole aumento dell’antirazzismo performativo, organizzato intorno a rivendicazioni individuali di rappresentazione razziale e virtù antirazzista. Lo vediamo non solo nei soliti contesti di discussione online e nell’istruzione superiore, ma anche nella politica parlamentare e in qualche misura nelle strade, dove a volte è stato facilitato da ceppi residui di nazionalismo che sono più che disposti a controllare i confini razziali. Si possono facilmente identificare degli esempi: i politici democratici che si inginocchiano con il Kente [107], i cristiani bianchi che lavano simbolicamente i piedi dei pastori neri, e il numero sempre crescente di “diversity trainers” NOTA e “leader neri” che sembrano sempre dire ai bianchi della classe media quello che vogliono sentire: spostati in fondo, resta nella tua corsia, rimani non-violento, ritirati in esercizi individuali di espiazione della colpa e redenzione [108].
Tuttavia, è importante riconoscere che questa non è stata la forma dominante di antirazzismo che ha preso piede dopo il 26 maggio. Abbiamo visto, invece, qualcosa di molto più vicino alla “politica dell’identità” che descriviamo in questo articolo: una politica di coloro che sanno che le divisioni lungo le linee razziali devono essere attivamente sfidate se vogliono rimanere una forza contro la polizia (e la politica che le sta dietro). Espressioni di unità interrazziale sono state ampiamente viste sugli striscioni e sentite nei canti, ma sono state materializzate da azioni concertate verso un obiettivo comune, che si trattasse di assediare un distretto, abbattere una statua o difendere la folla dagli attacchi della polizia. Quando gli attivisti in tali situazioni tentano di segregare razzialmente la folla (o di verificare la buonafede razziale delle persone per stabilire il livello desiderato di diversità) sono spesso giustamente visti come il completamento del lavoro dei poliziotti e dei fascisti, che divideva e indeboliva il movimento.
In effetti, si può vedere la rivolta come una rivolta di quest’ultima forma pragmatica di antirazzismo contro la prima, di tipo performativo. Dopo tutto, i rivoltosi hanno preso di mira principalmente le amministrazioni cittadine guidate da sindaci liberali, molti dei quali avevano costruito le loro carriere su una truffaldina morale antirazzista. Questi sindaci, un numero notevole di donne nere, stavano ora proteggendo poliziotti assassini, supervisionando la brutalizzazione dei manifestanti e –- nel caso di Chicago – alzando i ponti levatoi per chiudere fuori un proletariato prevalentemente nero dal ricco centro della città. Il loro discorso di diversità e inclusione non ha dissuaso i proletari neri dall’incendiare e saccheggiare le città da loro amministrate; ma non sono stati nemmeno efficaci nel convincere l’America bianca a rimanere a casa e “fare il lavoro”. Invece centinaia di migliaia (forse milioni) di bianchi si sollevarono contro questi sindaci liberali, neri o POC [109], e nella maggior parte dei casi furono in grado di combattere a fianco dei loro vicini neri senza sovra-determinarli [110].
Ma se la ribellione di George Floyd ha quindi rappresentato un “tradimento della bianchezza”, non è stato esattamente il tipo difeso un tempo dalla rivista Race Traitor. Non è stato un tradimento strategico che aveva come obiettivo il potere della classe operaia, ma piuttosto un tradimento spontaneo di soggetti neoliberali, alimentati dalla rabbia e dal disgusto, che rifiutano di essere ciò che sono, e assaporano brevemente, nella confusione della lotta, ciò che potrebbero essere. Questo è il senso positivo di ciò che chiamiamo “confusione”. Si può osservare anche quando gli islamisti sono entrati in piazza Tahrir, quando i sostenitori del Front National si sono uniti ai blocchi delle rotonde, o quando i cileni della classe media sono scesi in strada per combattere la polizia a fianco di anarchici e ultras. Tale confusione attraverso le linee politiche, culturali e razziali è sia più comune che meno complicata di quanto l’immaginazione liberale antirazzista sia capace di sognare (specialmente per i proletari che hanno meno da perdere o quando l’ordine meritocratico è scosso).
Eppure, mentre la fusione è possibile, persino facile, nel calore della lotta, raramente dura [111]. E mentre la confusione dei non-movimenti è spesso premessa di un tradimento di ciò che siamo, raramente ci permette di lasciarci alle spalle la nostra vecchia vita. Ci ribelliamo contro una condizione di solitudine (una solitudine solo esacerbata dall’allontanamento sociale e dai confinamenti), ma le rivolte raramente soddisfano la fame di comunità che ha portato le rivolte ad esistere [112]. Alcuni attivisti si incontrano tra loro, e molte persone diventano attivisti per la prima volta, ma non c’è una comunità di tattiche, solo una temporanea affinità tra identità politiche e tattiche: Gilets Jaunes, milizie, antifa, frontliner e “leader della comunità” – un mondo di tribù, bande, racket [113]. I non-movimenti hanno generalmente lottato per produrre assemblee di quartiere o costruire legami durevoli con l’organizzazione sul posto di lavoro. Invece, interrompono bruscamente la vita quotidiana, segnando il tempo come gli “atti” numerati dei Gilet Jaunes, o le manifestazioni di massa ogni venerdì in Cile, quando la gente si riunisce in numeri senza precedenti per esprimere la propria rabbia e poi si disperde immediatamente, o nelle loro vite individuali o nelle loro varie tribù identitarie.
Né questa mancanza di coerenza è un vantaggio tattico o strategico. Sono state le dimensioni e la portata delle mobilitazioni piuttosto che la loro diversità di tattiche a sopraffare la polizia – ed è stata la brutalità iniziale della polizia ad essere spesso responsabile delle dimensioni e della portata. Tutti i partecipanti possono vedere che, oltre un certo punto, la confusione della mobilitazione, la sua mancanza di organizzazione sostenuta, è un ostacolo all’estensione della lotta. Eppure, confondendo l’identità dei suoi partecipanti, i non-movimenti rappresentano un crogiolo in cui possiamo vedere la formazione di un nuovo tipo di umano, uno meno in preda al panico o addomesticato di quanto Agamben e altri abbiano temuto. Abbiamo sostenuto che i non-movimenti imbrigliano e radicalizzano i cambiamenti nella riproduzione dell’esistenza quotidiana, e quindi della vita umana. Cambiamenti che rendono possibili le esplosioni nelle strade che abbiamo visto nell’ultimo decennio. La nostra scommessa è quindi che questa svolta antropologica continuerà anche dopo che le lotte di piazza saranno schiacciate dalla repressione, o si spegneranno per mancanza di organizzazione o di resistenza, poiché i non-movimenti sono espressione della logica antiformista della nostra epoca.
La confusione delle identità è la condizione di possibilità della rivolta oggi, ma anche un limite da superare. Nel breve-medio termine ci aspettiamo che venga sempre più problematizzata, sia in senso pratico che teorico. Questo limite può indicare la necessità di un nuovo tipo di organizzazione, come ha detto recentemente un amico (riferendosi a un gruppo hip hop underground): una Organized Konfusion [114]. Si potrebbe anche chiamare un “partito comunista”, anche se, come hanno sostenuto recentemente alcuni compagni, dovrebbe avere un aspetto molto diverso dai partiti di una volta [115]. In particolare dovrebbe fare appello a un proletariato non più interpellato dai resti del movimento operaio, e che è costretto insieme a sezioni delle popolazioni eccedenti e a strati medi declassati in rivolte contro un generale immiserimento. Così un tale partito invisibile dovrebbe fare appello anche a quei gruppi ribelli, siano essi lumpen o borghesi senza diritti, che sono scesi in piazza in numeri senza precedenti, in ondate che esprimono la volatilità del nostro periodo. Potrebbe anche aver bisogno di fare appello a quei segmenti di classe che sono attualmente mobilitati contro i non-movimenti, per rompere l’inimicizia che rafforza la polizia e spinge le lotte verso la logica della guerra.
Eppure, dato che i non-movimenti sono, come abbiamo ripetutamente argomentato in questo testo, i segni soggettivi della stagnazione del capitalismo, forse il loro compito più importante è prendere coscienza di questa condizione latente e orientarsi verso la fine potenziale di un sistema che è già in declino cronico. I non-movimenti segnalano che il proletariato non ha più alcun compito romantico [116]. Non può mobilitare un popolo né lottare per l’egemonia. Al contrario, può superare il nostro ordine traballante – che in un certo senso sta già disfacendo le fondamenta della società di classe – solo continuando a resistere a tutti i tentativi di ringiovanire il mondo della politica.
I primi passi di inciampo della nostra epoca anarchica giacciono nella confusione d’identità che i non-movimenti testimoniano nella loro fame di comunità umana. Questa fame non è stata finora soddisfatta dalle vittorie né placata dalla repressione, ed è per questo che pensiamo che il nostro periodo continuerà ad essere segnato dall’accumulo di rivoluzionari senza rivoluzione. Gli affamati si vestono di giallo e usano il linguaggio frammentato dell’identità piuttosto che della classe, perché l’intera struttura della sinistra è crollata. Se un antirazzismo pragmatico ha sopraffatto quello performativo durante la rivolta di George Floyd, è perché il pragmatismo della rivoluzione non prende più la sua poesia dal mondo morto delle ideologie. La rivoluzione del XXI secolo deve lasciare che i morti seppelliscano i loro morti per arrivare al proprio contenuto. Così il compito di una scienza contemporanea della specie è quello di rileggere le rune del nostro tempo, per capire come gli stessi non-movimenti rivelino la tendenza antiformista della nostra epoca e come, nella loro confusione, si possa identificare l’eclissi delle forme sociali che chiamiamo capitale, stato e classe. Poiché il comunismo è il vero non-movimento che abolisce queste forme sociali, noi diciamo alle masse che affrontano il nostro ordine traballante – avanti barbari!
[1] Negli Stati Uniti queste non erano davvero ribellioni spontanee della base, ma erano generalmente organizzate da gruppi di pressione legati sia alla volontà di rompere i grandi monopoli tecnologici, sia ad “Amazonians United”, affiliato a Labor Notes.
[2] Il movimento ha assunto un più familiare cast antifascista dopo che un vigliante, sostenitore di Trump, ha ucciso due persone a Kenosha, Wisconsin. Il primo dibattito presidenziale tra Trump e Biden, esso stesso una messa in scena della nostra epoca caotica, ha posto una domanda degna di un primer di Crimethinc: se l’antifa è “un’idea o un’organizzazione”, mentre i giornalisti liberali della NPR e del New York Times hanno approfondito l’anarchismo insurrezionale.
[3] Si vedano i testi di Cesare Battisti , ex membro dei Proletari Armati per il Comunismo (PAC), che ha scritto dal carcere che “quella a cui stiamo assistendo non è più una guerra di ideologie, ma un assalto decisivo del capitale contro la condizione umana come comunione di corpo e spirito”; del filosofo Giorgio Agamben, attaccato da gran parte della sinistra per aver osato criticare il confinamento e del situazionista Gianfranco Sanguinetti, il quale sosteneva che “stiamo assistendo alla decomposizione e alla fine di un mondo e di una civiltà, quella della democrazia borghese con i suoi parlamenti, i suoi diritti e poteri e contropoteri”.
[4] Julien Coupat et alii, Cose viste
[5] L’articolo è apparso su Endontes nel dicembre 2020 [NdT].
[6] World Bank, “Covid-19 to Plunge Global Economy into Worst Recession since World War II”, 8 Giugno 2020 e Carmen Reinhart & Vincent Reinhart, “The Pandemic Depression The Global Economy Will Never Be the Same”, Foreign Affairs, Ottore 2020.
[7] Kamunist Kranti, “A Glimpse of Social Churnings: Attempts at Conversational Interactions during Global Covid Lockdowns”, Settembre 2020.
[8] Si veda, per esempio, Bolt Rasmussen, Trump’s Counter-Revolution (Washington, USA: Zero Books, 2018). Per un testo classico sul concetto di controrivoluzione si veda Amadeo Bordiga, “Lezioni delle controrivoluzioni”, Bollettino interno del PCInt (1951).
[9] Certamente, come Nate Holdren ha recentemente sostenuto, c’è poco di veramente eccezionale in Trump stesso. Al di là di tutto lo spettacolo, Trump personifica semplicemente la sua posizione di classe. Si è fatto le ossa nella crisi fiscale di New York, rubando fondi pubblici in mezzo al caos. Da allora, è stato in costante, frenetico movimento, speculando sul turbamento, indifferente alla fonte della sua ricchezza, saccheggiando tutto il possibile prima della prossima grande scossa (o crack bancario). Eppure la presa di potere del ramo esecutivo da parte del settore FIRE [il settore economico basato sulla finanza, l’immobiliare e le assicurazioni, NdT] è stata di per sé politicamente significativa, per le ragioni che delineiamo nel testo. Alla fine, ciò che Trump rende evidente è che gli uomini forti della nostra epoca possono solo produrre scismi e aumentare la paura della guerra civile. Si veda ad esempio la recente analisi di Mike Davis sulla vittoria di Biden che termina con la seguente drammatica conclusione: “Le strutture profonde del passato sono state dissotterrate durante la presidenza di Trump e gli è stato dato il permesso di accelerare il futuro. Guerra civile? Alcune analogie sono inevitabili e non dovrebbero essere liquidate facilmente”. Mike Davis, “Trench Warfare: Notes on the 2020 Election”, New Left Review no.126, 2020.
[10] Il giornalista venezuelano Moisés Naím ha recentemente sostenuto che le elezioni stanno perdendo il loro potere stabilizzante: “Profonde divisioni politiche affliggono ora la maggior parte delle democrazie del mondo. Stanno diventando così estreme che molti cittadini definiscono la loro identità politica in contrasto con “l’altra parte” … Spesso, la rabbia e l’animosità verso coloro che hanno opinioni politiche contrastanti sono tali che gli oppositori non sono nemmeno accettati come legittimi attori politici.” Moisés Naím, “Il vincitore delle elezioni americane? La polarizzazione”, El País, 24 novembre 2020.
[11] Un esempio di uno sviluppo così illiberale è la cosiddetta Ley Mordaza, la legge bavaglio spagnola, che è stata applicata contro i movimenti sociali nel 2015 e poi massicciamente utilizzata durante la pandemia. Un altro esempio è la legge francese sulla sicurezza che, tra le altre cose, vieterebbe la diffusione di immagini della polizia sui social media. Ovviamente non possiamo identificare il liberalismo con la democrazia, figure così diverse come il centrista Yascha Mounk e lo stalinista Domenico Losurdo ci ricordano la dimensione aristocratica e antidemocratica della tradizione liberale. Eppure, il liberalismo è la principale ideologia dei diritti borghesi ed è la crisi di questi diritti che in larga misura configura il nostro periodo attuale e forse segnala anche l’ascesa di un dispotismo occidentale. Così, quando sosteniamo che le lotte hanno una dimensione liberale, insistiamo principalmente sul fatto che (1) le persone lottano contro l’eclissi dei diritti; (2) si producono come soggetti neoliberali e usano spesso retoriche liberali e sollevano richieste liberali; (3) esprimono come l’ordine meritocratico e liberale sia in declino e stia perdendo legittimità in tutto il mondo.
[12] I dati in questa e in tutte le figure seguenti provengono dal database degli eventi GDELT (asse destro) e dal rapporto Global Satisfaction with Democracy 2020 (asse sinistro). GDELT utilizza l’elaborazione del linguaggio naturale e algoritmi di data mining per identificare gli eventi di protesta nei media convenzionali e sociali. Abbiamo estratto dal loro database tutti gli eventi che sono stati codificati come condotti da civili contro il governo, la polizia, la magistratura, le imprese o le élite. Per le loro stime della legittimità democratica, Roberto Foa e i suoi colleghi hanno raccolto più di 4 milioni di risposte da 3.500 sondaggi per sapere se le persone erano soddisfatte o insoddisfatte della democrazia nei loro paesi. Questi dati trimestrali, ponderati in base alla popolazione, sono stati gentilmente condivisi da Foa.
[13] Va sottolineato anche che queste proteste e rivolte tendono a coinvolgere numeri molto più grandi di prima e a durare più a lungo. Il 2010 è stato l’inizio di un’ondata globale di scioperi, nel 2020 abbiamo visto il più grande sciopero della storia svolgersi in India così come abbiamo visto, proprio l’anno scorso, il più lungo sciopero in Francia dal 1968. La rivolta di George Floyd è stato il più grande movimento nella storia moderna degli Stati Uniti, e abbiamo visto le più grandi manifestazioni, rivolte e occupazioni universitarie da decenni nel Regno Unito, Cile e Canada.
[14] Jacques Camatte, “De la révolution”, Invariance, series II no. 2 (1972).
[15] Ibid.
[16] Alcune vittorie ottenute non sono state, infatti, deboli, ma piuttosto decisive. Le proteste in Tunisia hanno portato all’inizio del 2018 all’abrogazione delle misure sul bilancio; un paio di mesi dopo il primo ministro Hani Mulki ha dovuto dimettersi a causa delle proteste in Giordania, così come il primo ministro iracheno Adil Abdul-Maahdi; nel 2019 le proteste in Libano hanno costretto i primi ministri Saad Hairi e Hassan Diab a dimettersi; nel 2020 la costituzione è stata revisionata in Cile e le proteste in Perù hanno portato alle dimissioni del presidente ad interim Manuel Merino e il piano sul bilancio è stato abrogato in Guatemala dopo l’incendio di parti del palazzo del Congresso.
[17] Come il collettivo Wildcat ha argomentato in modo convincente, da una prospettiva globale siamo tanto in un’era di scioperi quanto di rivolte: “Gli anni dal 2006 al 2013 sono stati caratterizzati da un’ondata di proteste di massa nelle strade, scioperi e rivolte su una scala senza precedenti. Secondo il Friedrich-Ebert-Stiftung New York 16 l’ondata è paragonabile solo agli sconvolgimenti rivoluzionari del 1848, 1917 o 1968 – il think-tank ha analizzato 843 movimenti di protesta in totale tra il 2006 e il 2013, in 87 paesi, che coprono il 90% della popolazione mondiale. Proteste di tutti i tipi, contro l’ingiustizia sociale, contro la guerra, per una vera democrazia, contro la corruzione, rivolte contro gli aumenti dei prezzi degli alimenti, scioperi contro i datori di lavoro, scioperi generali contro l’austerità”.
[18] Il referendum dell’ottobre 2020 ha dato ai movimenti una vittoria reale che non implica necessariamente una diminuzione del conflitto attraverso il recupero democratico. Al contrario, sembra implicare un cambiamento più ampio, forse epocale, per un periodo che si può dire iniziato con la dittatura neoliberale di Augusto Pinochet.
[19] Si stima che tra i 15 e i 26 milioni di persone abbiano preso parte alle proteste solo in maggio e giugno. Si veda Larry Buchanan et al. “Black Lives Matter May Be the Largest Movement in US History” in The New York Times, 3 luglio 2020.
[20] Si veda Asef Bayat, Life as Politics: How Ordinary People Change the Middle East (Cairo: American University, 2013) e “The Urban Subalterns and the Non-Movements of the Arab Uprisings”, Jadaliyya website 2013.
[21] Si veda “Lettre à propos de Greta Thunberg” di Jacques Camatte, 20 maggio 2019, sito di Invariance. Per Camatte, “rivolta passiva” non è un termine peggiorativo, né un riferimento alla “rivoluzione passiva” di Gramsci, ma piuttosto una forma di attività sismica o reazione spasmodica della specie.
[22] “The Urban Subalterns and the Non-Movements of the Arab Uprising” Jadaliyya website 2013.
[23] Come sosteniamo nella sezione 5, quando il motore di crescita del capitalismo industriale rallenta e il movimento operaio si riduce a un gruppo di pressione settoriale, l’identità viene sempre più a mediare la lotta di classe.
[24] Mentre rifiutiamo la valenza negativa del termine “politiche identitarie”, non la sostituiamo con una positiva. Nel senso specifico in cui impieghiamo il termine, sottolineiamo il loro carattere “antiformista”. Il concetto per noi è analitico piuttosto che normativo, denota la negoziazione dell’identità che è sia premessa che conseguenza delle mobilitazioni popolari di massa che si diffondono oggi nel mondo.
[25] Leggi di sicurezza simili sono state recentemente imposte a Hong Kong. Speriamo che il cortège de tete abbia più successo della prima linea.
[26] Si veda Christoper Lasch, La cultura del narcisismo (Abacus 1980), Jean Baudrillard, America (Verso 2010) e Sergio Bologna, “La tribù delle talpe”, 1977. Quest’ultimo testo è particolarmente meritevole di essere ripreso perché Bologna descrive una profonda trasformazione dello stato che struttura i conflitti della nostra epoca: “Il ‘sistema dei partiti’ non mira più a rappresentare i conflitti, né a mediarli o organizzarli: li delega agli “interessi economici” e si pone come la forma specifica dello Stato, separata e ostile ai movimenti della società. Il sistema politico diventa più rigido, più frontalmente contrapposto alla società civile. Il sistema dei partiti non “riceve” più le spinte dalla base; le controlla e le reprime”.
[27] Il lavoro, la povertà e il reddito sovra-determinano i non-movimenti, ma la proletarizzazione, come meccanismo primario di separazione, pone così come disgrega le identità, o piuttosto pone le identità specificando gli interessi all’interno di un mercato del lavoro sempre più frammentato.
[28] Matthew Yglesias, “The Great Awokening”, Vox aprile 2019. Gilles Dauvé ha, negli ultimi decenni, più volte ricordato la dimensione antropologica sia del capitalismo sia del comunismo: “il comunismo è una rivoluzione antropologica nel senso che si occupa di ciò che Marcel Mauss analizzava ne Il dono (1923): una rinnovata capacità di dare, ricevere e ricambiare. Significa non trattare più il nostro vicino di casa come un estraneo, ma anche non considerare più l’albero in fondo alla strada come un pezzo di paesaggio curato dagli operai comunali. La comunitarizzazione è la produzione di un rapporto diverso con gli altri e con se stessi, dove la solidarietà non nasce da un dovere morale esterno a noi, ma da atti e interrelazioni pratiche”. Gilles Dauvé, “Communisation”, Troploin 2011, testo in grassetto nell’originale.
[29] Asaf Bayat, Revolution without Revolutionaries: Making Sense of the Arab Spring (Stanford University Press, 2017), xi.
[30] Michael Lind, “The Double Horseshoe Theory of Class Politics” The Bellows, July 16, 2020.
[31] Carl Schmitt: Staat, Bewegung, Volk (Hanseatische Verlagsanstalt, 1933).
[32] Si veda Gilles Dauvé, “Yellow, Red, Tricolour, or: Class & People”, Giugno 2019. Si veda anche Temps Critiques, L’évènement Gilets JaunesMaggio 2019.
[33] Si veda il punto otto delle nostre LA Thesis: “Questo è ciò che intendiamo quando diciamo che la coscienza di classe, oggi, non può essere che la coscienza del capitale. Nella lotta per la loro vita, i proletari devono distruggere ciò che li separa. Nel capitalismo, ciò che li separa è anche ciò che li unisce: il mercato è allo stesso tempo la loro atomizzazione e la loro interdipendenza. È la coscienza del capitale come nostra unità nella separazione che ci permette di postulare dall’interno delle condizioni esistenti – anche se solo come negativo fotografico – la capacità di comunismo dell’umanità”. [cfr. https://endnotes.org.uk/other_texts/en/endnotes-la-theses, NdT].
[34] Si veda Gáspár Miklós Tamás, “Telling the truth about class” Socialist Register 2006.
[35] La frammentazione della sinistra in Cile in una miriade di partiti, sette e gruppi rivela che la sinistra stessa è diventata un’identità tra le altre, che di per sé non è di grande importanza per il successo e l’evoluzione dei non-movimenti.
[36] Qui e nel titolo si allude al classico saggio di Amadeo Bordiga “Avanti, Barbari!”, Battaglia Comunista, n. 22, 1951, tradotto in inglese qui. Per una discussione più completa sulla barbarie si veda Robert Hullot Kentor, “What Barbarism Is”, Brooklyn Rail, febbraio 2010. Nel suo recente libro, The Decadent Society, Ross Douthat sostiene che i barbari sono troppo “disorganizzati, mal guidati, cospiratori e anti-intellettuali” per minacciare la nostra “società decadente”. Indicativamente, il pop-conservatore americano non solo disprezza le masse per il rifiuto della famiglia, del lavoro e persino del sesso, ma rivela che l’unica cosa che i conservatori di oggi possono sperare di conservare è il progresso capitalista. Ma i non-movimenti indicano la fine di questo progresso e rivelano che la decadenza può essere l’unica via d’uscita dalla nostra impasse. Questo è ciò che T. W. Adorno è giunto a sostenere nel suo brillante saggio su Il declino dell’Occidente di Oswald Spengler: “In un mondo di vita brutale e oppressa, la decadenza diventa il rifugio di una vita potenzialmente migliore rinunciando alla fedeltà a questa e alla sua cultura, alla sua crudezza e alla sua sublimità. Gli impotenti, che al comando di Spengler devono essere messi da parte e annientati dalla storia, sono l’incarnazione negativa all’interno della negatività di questa cultura, di tutto ciò che promette, per quanto debolmente, di rompere la dittatura della cultura e porre fine all’orrore della preistoria. Nella loro protesta sta l’unica speranza che il destino e il potere non abbiano l’ultima parola. Ciò che può opporsi al declino dell’Occidente non è una cultura risorta, ma l’utopia che è silenziosamente contenuta nell’immagine del suo declino”. T. W. Adorno, “Spengler dopo il declino”, Prismi
[37] Pasokification è un termine nato nell’opinione pubblica anglofona e ispirato dal crollo del grande partito greco Pasok, che ha ottenuto solo il 4,7% dei voi nel 2015; si riferisce al processo di declino elettorale dei partiti social-democratici legati all’ex movimento operaio. Più in generale si riferisce alla disintegrazione del campo politico classico [NdT].
[38] Per le prove sulla composizione della rivolta di George Floyd si veda la sezione 5 qui sotto.
[39] Questo è diventano lo sciopero generale più lungo della storia francese, sconfitto unicamente dal rinforzo delle misure di confinamento. Si veda Rona Lorimer, https://endnotes.org.uk/other_texts/en/rona-lorimer-french-strikes-in-the-state-of-exception “French Strike in the State of Exception”, Endnotes Sept 2020.
[40] Questo è così anche quando portano ad una (potenzialmente) nuova costituzione come in Cile, poiché questo cambiamento significa meno una svolta verso una nuova normalità che un approfondimento di una situazione ingovernabile. L’80% di coloro che hanno votato per la nuova costituzione ha votato anche perché fosse scritta da altri che non fossero i politici al potere, e anche se i partiti probabilmente coopteranno questo processo, il voto stesso è stato sicuramente un voto contro il sistema politico.
[41] Il razzismo è la quintessenza dell’ingiustizia americana, quella che sembra riassumere tutte le altre, nonché la quintessenza dell’arbitrio e quindi del male. L’antirazzismo offre quindi agli americani immiseriti un principio unificante che non potrebbero trovare altrove e che permette loro di sospendere temporaneamente le differenze unendosi contro un male ampiamente vituperato. Ma noi sosteniamo di seguito che a un livello più profondo il disgusto per i poliziotti razzisti riflette la frustrazione e la rabbia antipolitica già provata da tanti verso questo regime di crisi. Naturalmente, “antirazzismo” significa cose diverse per persone diverse. Per Joseph Rosenbaum e Anthony Huber, che sono stati uccisi da un vigilante privato adolescente a Kenosha Wisconsin, significava chiaramente unirsi ai loro vicini neri nel combattere una forza di polizia che aveva reso anche loro delle vittime. Come ha commentato l’amico di Huber: “Non direi che era un politico, ma penso che sicuramente odiava i razzisti”. D’altra parte per Mark Mason, CFO di Citigroup, rappresenta un’opportunità a doppio taglio di essere premiato e reso un simbolo dai suoi soci d’affari bianchi, sostenendo pubblicamente che lui e George Floyd condividevano una comune esperienza di oppressione. Vedi le sezioni 4 e 5 qui sotto.
[42] Per Cowen, la sovraccapacità industriale ha diviso gli Stati Uniti in un sistema bimodale: “una nazione di fantastico successo, che lavora nei settori tecnologicamente dinamici, e tutti gli altri”. Tyler Cowen, Average is over: Powering America beyond the Age of the Great Stagnation (Plume 2014).
[43] Per un’interessante riflessione sulla crescita del populismo di destra come reazione alla rivoluzione dei valori che il ’68 potrebbe simboleggiare, si veda Pippa Norris & Ronald Inglehart, Cultural Backlash: Trump, Brexit, and Authoritarian Populism (Cambridge University Press 2018).
[44] I Trump e i Bolsonaro del mondo pongono le basi per un più generale sconvolgimento sociale che ha il potenziale di superare l’attuale forma democratica e liberale. Sembra improbabile che i Biden del pianeta possano fermare questo sviluppo. Forse possono più facilmente smobilitare le classi medie e bloccare la convergenza interclassista nelle strade, necessaria per produrre un cambiamento duraturo. Eppure, dato che Obama non ha potuto ostacolare Occupy o Black Lives Matter, e Macron ha chiaramente alimentato i Gilets Jaunes, la nostra scommessa è che la sconfitta elettorale di Trump non stabilizzerà lo status quo né ci libererà dal pericolo della democrazia illiberale. La crisi della rappresentanza è più profonda di Trump e le divisioni politiche che comporta continueranno ad affliggere il nostro mondo durante la presidenza di Biden. Potrebbe far guadagnare tempo al sistema, ma non renderà il capitalismo meno ingovernabile.
[45] Timothy Garton Ash, “Revolution: The Springtime of Two Nations” The New York Times, 15 Giugno, 1989.
[46] Robert Kurz, Der Kollaps der Modernisierung: Vom Zusammenbruch des Kasernen-Sozialismus zur Krise der Weltökonomie (Eichborn 1991).
[47] Amadeo Bordiga, “Tracciato d’impostazione”, Prometeo no. 1 (1946).
[48] Ibid.
[49] Thomas Piketty, http://piketty.pse.ens.fr/files/Piketty2019.pdf Brahmin Left vs Merchant Right: Rising Inequality & the Changing Structure of Political Conflict” World Inequality Database Working Paper (2018).
[50] Si veda Paul Mattick, Marxism, Last Refuge of the Bourgeoisie? (M.E. Sharpe, 1983).
[51] Si veda “Tesi su Benjamin” in Mario Tronti, La politica al tramonto (Einaudi, 1998).
[52] L’argomento di Bordiga era che il fascismo, mancando di legittimità, avrebbe radicalizzato la lotta di classe. Egli affermò nel 1947, in un importante testo che “la successione non è: fascismo, democrazia, socialismo – è invece: democrazia, fascismo, dittatura del proletariato”. Vedi “Tendenze e Socialismo”, Prometeo, 1947. Le riflessioni controfattuali di Bordiga non dovrebbero essere liquidate, ma tendono a diventare una forma di finzione perversa e potrebbero essere paragonate a La notte della svastica di Katherine Burdekin (1937) o a The Man in the High Castle di Philip K. Dick (1962).
[53] David Ranney, New World Disorder (2014).
[54] Naturalmente l’età e l’educazione possono anche essere pensate attraverso la lente della classe. “Età” nel senso della generazione boomer che ha beneficiato della democrazia sociale (comprando proprietà che ora sono una fonte di ricchezza); “educazione” nel senso che la “democratizzazione” dell’istruzione superiore non è stato un processo uniforme, e molti sono ancora esclusi dall’accademia.
[55] Amadeo Bordiga, “Tracciato d’impostazione”, Prometeo no. 1 (1946).
[56] Ibid.
[57] Ibid.
[58] Ibid.
[59] Ibid.
[60] Ibid.
[61] E, come un compagno ha recentemente dichiarato a proposito della rivolta di Floyd: “l’attività rivoluzionaria dovrebbe essere misurata nei termini della sua capacità di essere difesa in modo sostenibile dal maggior numero di persone possibile. Quando la violenza rivoluzionaria tende a isolare i partecipanti invece di difenderli, fa più male che bene”. “At the Wendy’s: Armed Struggle at the End of the World”, Ill Will, 9 novembre 2020.
[62] Moisés Naim ha scritto in modo significativo a proposito della vittoria di Biden e della polarizzazione che comporterà: “La polarizzazione non deriva solo dai risentimenti causati dalle difficoltà economiche o dalla combattività stimolata dai social media. L’antipolitica – il rifiuto totale della politica e dei politici tradizionali – è un altro importante motore. I partiti politici devono ora affrontare una pletora di nuovi concorrenti (‘movimenti’, ‘onde’, ‘fazioni’, ONG) la cui agenda si basa sul ripudio del passato e su tattiche che favoriscono l’intransigenza”. Moisés Naím, “Il vincitore delle elezioni americane? La polarizzazione”, El País, 24 novembre 2020.
[63] Uno scoppio rivoluzionario può comportare una chiusura ancora più radicale dell’economia.
[64] Perry Anderson, “Why the system will still win” Le Monde Diplomatique, 2017.
[65] Si veda René Riesel e Jaime Semprun, Catastrophism, disaster management and sustainable submission for a critique of a catastrophism that fuels the state as well as many social movements: “Come forma di falsa coscienza nata spontaneamente dal terreno della società di massa – cioè dall’“ambiente ansiogeno” che si è creato ovunque – il catastrofismo esprime dunque, innanzitutto, le paure e le tristi speranze di tutti coloro che si aspettano la loro salvezza da una messa in sicurezza basata sul rafforzamento delle misure coercitive. Si percepisce però anche, a volte abbastanza chiaramente, come un’aspettativa di tutt’altro tipo: l’aspirazione a una rottura con la routine, a una catastrofe che sia davvero un culmine che sgombri l’aria, facendo cadere, come per magia, le mura della prigione sociale. Il gusto per questa catastrofe latente potrebbe essere soddisfatto attraverso il consumo dei numerosi prodotti dell’industria dello spettacolo fabbricati proprio a tale scopo; per la maggior parte degli spettatori, questa scarica di ansia-piacere sarà sufficiente”.
[66] Jacques Camatte sosteneva già nel 1977 che l’utopia di un mondo oltre il lavoro tendeva a diventare una forma di sogno capitalista in un mondo postindustriale. Scriveva ironicamente che “La richiesta di abolizione del lavoro è anche un elemento dell’utopia del capitale: la realizzazione di un umano senza denti e senza arti [une humanité anodonte et phocomœle], non tanto attraverso l’effettiva scomparsa dei denti e degli arti anteriori, ma come risultato del loro non utilizzo; perché l’uomo è diventato dipendente dal capitale, suo utente parassitario.” Jacques Camatte, “La révolte des étudiants italiens”, Invariance, serie III, no. 5 & 6, 1980.
[67] Angry Workers of the World, “The necessity of a revolutionary working class program in times of coup and civil war scenarios” Ottobre 2020.
[68] Quest’ultimo richiede un’indagine collettiva su come i non-movimenti esprimano una reale necessità di superare la base dell’attuale vita proletaria (e in gran parte della classe media), quella che ci tiene divisi e invischiati in conflitti identitari.
[69] Amadeo Bordiga, “Il programma immediato della rivoluzione”, Sul filo del tempo, Maggio 1953.
[70] Si veda la nota 32.
[71] Oggi il grande pubblico esprime spesso simpatia per la distruzione di proprietà e la dissacrazione di certi monumenti. Mathew Impelli: “Il 54% degli americani pensa che bruciare il distretto di polizia di Minneapolis sia stato giustificato dopo la morte di George Floyd”, Newsweek, 3 giugno 2020.
[72] Silvia Staubli, Trusting the Police: Comparisons across Eastern and Western Europe (transcript 2017).
[73] “Il potere della polizia è informe, come la sua presenza spettrale, inafferrabile e diffusa per ogni dove, nella vita degli Stati civilizzati. E per quanto la polizia possa, nei particolari, apparire ovunque la stessa, non si può infine negare che il suo spirito sia meno devastante dove essa incarna, nella monarchia assoluta, il potere del sovrano, in cui si congiunge la pienezza del potere legislativo ed esecutivo, che nelle democrazie, dove la sua presenza, non sollevata da un rapporto del genere, testimonia della massima degenerazione possibile della violenza.” Walter Benjamin, “Critica della violenza” Riflessioni (Schocken 1986) p. 287.
[74] “Non ho un amore particolare per il ‘lavoratore’ idealizzato come appare nella mente del comunista borghese, ma quando vedo un lavoratore in carne ed ossa in conflitto con il suo nemico naturale, il poliziotto, non devo chiedermi da che parte sto”. George Orwell, Omaggio alla Catalogna (Harvill 1938) p. 138. Si noti, tuttavia, che i proletari a volte si affidano anche alla polizia per risolvere le controversie, vendicare i danni, e proteggere la loro proprietà e dignità contro le minacce provenienti dall’interno e dall’esterno delle loro comunità.
[75] NdT: “Blue Lives Matter” è uno slogan dietro al quale si sono ritrovati alcuni poliziotti statunitensi, parafrasando Black Lives Matter.
[76] “La ‘legge’ della polizia segna realmente il punto in cui lo Stato, sia per impotenza che per le connessioni immanenti in qualsiasi sistema giuridico, non può più garantire attraverso il sistema giuridico i fini empirici che desidera a qualsiasi prezzo raggiungere. Perciò la polizia interviene ‘per ragioni di sicurezza’ in innumerevoli casi in cui non esiste una chiara situazione giuridica”. Benjamin, “Critica della violenza”
[77] “Why brand they us
With base? with baseness? bastardy? base, base?
Who, in the lusty stealth of nature, take
More composition and fierce quality
Than doth, within a dull, stale, tired bed,
Go to the creating a whole tribe of fops,
Got ‘tween asleep and wake? Well, then,
Legitimate Edgar, I must have your land:
Our father’s love is to the bastard Edmund
As to the legitimate: fine word, —legitimate!
Well, my legitimate, if this letter speed,
And my invention thrive, Edmund the base
Shall top the legitimate. I grow; I prosper:
Now, gods, stand up for bastards!”
– King Lear, Atto I scena I
[78] “Quando il conflitto arriva, come inevitabilmente accadrà, non si deve tentare di ridurre i vari individui che difendono il capitale al livello di avversari ‘bestiali’ o meccanici; essi devono essere messi nel contesto della loro umanità, perché l’umanità è ciò di cui anche loro sanno di essere parte e che sono potenzialmente in grado di ritrovare. In questo senso il conflitto assume dimensioni intellettuali e spirituali. Le rappresentazioni che giustificano la difesa del capitale da parte del singolo devono essere rivelate e demistificate; le persone in questa situazione devono prendere coscienza della contraddizione, e i dubbi devono sorgere nelle loro menti.” Jacques Camatte, “Contro la domesticazione”, Invariance II, no. 3, 1973.
[79] Ibid.
[80] Ibid.
[81] Eric Hazan, “Sur La Police, Une Opinion Minoritaire” Lundi Matin, 18 Aprile, 2016.
[82] Sviluppando la distinzione di Sorel tra sciopero generale politico e proletario, Benjamin scrive: “Mentre la prima forma di interruzione del lavoro è violenta in quanto provoca solo una modifica esterna delle condizioni di lavoro, la seconda, come puro mezzo, è nonviolenta. Perché essa ha luogo non nella disponibilità a riprendere il lavoro in seguito a concessioni esterne e a questa o quella modifica delle condizioni di lavoro, ma nella determinazione di riprendere solo un lavoro completamente trasformato, non più imposto dallo Stato, un rivolgimento che questo tipo di sciopero non tanto provoca quanto realizza.” W. Benjamin, “Critica della violenza”
[83] Ruth Wilson Gilmore, Golden Gulag (University of California Press 2007), p. 178.
[84] Non è solo che la spesa per la polizia e le prigioni è (e sarà sempre) una piccola frazione della spesa sociale, ma negli Stati Uniti questa forma di austerità è scritta nel sistema federalista di tassazione e spesa, perché i governi delle città che pagano la polizia sono quelli che hanno meno capacità di generare entrate. Vedi Eric Levitz, “Defunding the Police Is Not Nearly Enough”, New York Magazine, 12 giugno 2020.
[85] Si veda Tristan Leoni, “Abolish the Police” DDT21, Settembre 2020. Si veda anche l’esempio di Camden, NJ discusso qui di seguito.
[86] Si veda Marie Gottshaulk, The Prison and Gallows (Cambridge University Press 2006) sul ruolo chiave della democrazia e dei “diritti delle vittime” nella costruzione dello stato carcerario americano.
[87] Si veda Gilles Dauvé, “For a World Without Moral Order” (1983) e La Banquise, “Pour un monde sans innocents”, (1986). L’edizione di Antagonism Press o “For a World Without A Moral Order” aveva sul retro della copertina l’apposita citazione: “Il comunismo non conosce mostri”.
[88] Gli Stati Uniti sono 30esimi al mondo per gli omicidi di polizia pro capite, ma sono senza sforzo il primo tra i paesi ricchi (Police Killings by County). Sul vigilantismo (cioè la tendenza a delegare il controllo dell’ordine pubblico a corpi di polizia privata, NdT) si veda Christopher Waldrep, The Many Faces of Judge Lynch (Palgrave 2002), che indica la tradizione americana della sovranità popolare, così come il suo scetticismo verso l’autorità legale risalente all’epoca rivoluzionaria, come spiegazione della sua storica predilezione per il linciaggio.
[89] Si veda, per esempio, John Dollard, Caste and Class in a Southern Town (Double Day 1937). Un recente lavoro di Gabriel Lenz indica che il tasso di omicidi dei neri nelle città del Sud durante quest’epoca era più alto che in qualsiasi altro luogo e periodo della storia americana. Sulle reazioni politiche nere alla “sottopolizia” si veda James Forman Jr, Locking Up Our Own (Farrar, Straus and Giroux 2017). [Under-policing – sottopolizia è quella che emerge normalmente da una mancanza di cosiddetti servizi polizieschi preventivi e di supporto, NdT.]
[90] Christopher Rufo, “The End of Chaz”, City Journal, 1° luglio 2020. Sulla base di 2 omicidi (con 4 sparatorie aggiuntive) nella sua storia durata 24 giorni, Rufo ha stimato un tasso di omicidi della CHAZ di 1.216 per 100.000 abitanti. Questo numero è ovviamente gonfiato dalle piccole dimensioni della CHAZ, ma anche se dovessimo assumere che la stima di Rufo è fuori di un fattore 10, la CHAZ avrebbe ancora il doppio del tasso di omicidi più alto del mondo (un record attualmente detenuto da El Salvador, con 61 omicidi per 100.000 nel 2017).
[91] Camden, a cui alcuni hanno guardato come la soluzione per tutti gli Stati Uniti, ha semplicemente sostituito la “città” con un dipartimento di polizia di “contea” (principalmente per eliminare i sindacati di polizia), ha riassunto tutti i poliziotti e ne ha assunti molti nuovi (ora hanno una delle più grandi forze di polizia pro capite della nazione), Joseph Goldstein e Kevin Armstrong, “Could This City Hold the Key to the Future of Policing in America?”, New York Times, 12 luglio 2020. Minneapolis ha recentemente creato l’“ufficio per la prevenzione della violenza”, che almeno indica una strategia di ridenominazione più creativa.
[92] Alcuni miliziani neri avevano apparentemente collaborato in precedenza con i membri dei Boogaloo Boyz (cfr. sul tema https://illwill.com/life-war-politics e https://illwill.com/prelude-to-a-new-civil-war NdT) nella difesa delle proprietà locali – un esempio di ciò che abbiamo indicato sopra come “un Querfront degno dell’era di QAnon”. Nevada, “Nemici immaginari: Myth and Abolition in the Minneapolis Rebellion”, Ill Will, 17 novembre 2020. (Querfront: “fronte incrociato”, era la cooperazione tra i rivoluzionari conservatori in Germania con l’estrema sinistra durante la Repubblica di Weimar degli anni venti. Il termine è usato anche oggi per l’entrismo reciproco o la cooperazione tra gruppi di sinistra e di destra, NdT).
[93] Dauve and Nesic, “Jailbreak” in An A to Z of Communisation, Troploin, 2015.
[94] Nevada, “Imaginary Enemies”.
[95] Questo disordine divide la popolazione lungo le linee fascismo/antifascismo e solleva lo spettro della lotta armata. Come hanno scritto recentemente alcuni compagni, “nel momento attuale le forze reazionarie vogliono trascinarci in una guerra culturale e in scontri armati – un tipo di lotta in cui la classe operaia può solo perdere”. Angry Workers of the World, “La necessità di un programma rivoluzionario della classe operaia in tempi di golpe e scenari di guerra civile”, Let’s Get Rooted Oct 2020.
[96] Giorgio Agamben, “Per una teoria del potere destituente” (conferenza tenuta ad Atene nel 2013). Agamben citava Pasolini che a sua volta parafrasava Sade.
[97] Il discorso di Piñera si trova su Youtube.
[98] Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda.
[99] Si vedano le nostre LA Tesi [Le Tesi di Los Angeles, NdT] (2016), specialmente il punto cinque: “Allo stesso tempo, il declino dell’identità operaia rivelava una molteplicità di altre identità, che si organizzavano in relazione a delle lotte che fino ad allora erano state più o meno represse. I “nuovi movimenti sociali” che ne risultavano mostravano chiaramente, in retrospettiva, fino a che punto l’omogenea classe operaia fosse attualmente diversificata nel suo carattere. Essi stabilivano anche che la rivoluzione deve implicare assai più della riorganizzazione dell’economia: richiede l’abolizione delle distinzioni di genere, di razza e nazionali, e così via. Ma nel marasma delle identità emergenti, ciascuna con i suoi interessi settoriali, non è affatto chiaro che cosa esattamente debba essere la rivoluzione. Per noi, la popolazione in eccedenza non è un nuovo soggetto rivoluzionario. Piuttosto, denota una situazione strutturale in cui nessuna frazione di classe può presentarsi come il soggetto rivoluzionario [cfr. https://endnotes.org.uk/other_texts/en/endnotes-la-theses, NdT].
[100] Eric Hobsbawm, “Identity Politics and the Left”, New Left Review, maggio/giugno 1996. La dipendenza del movimento operaio ufficiale dalla crescita interna spiega perché il suo universalismo sia andato raramente al di là della figura cittadino e dei due apparati che lo hanno modellato: la fabbrica e lo stato. La politica dell’identità rappresenta la crisi di quel mondo.
[101] Si vedano le sezioni 122-124 di Apocalisse e Rivoluzione e il commento dei traduttori in Endnotes 5, p. 299. È interessante che Cesarano metta operai e impiegati accanto agli altri “movimenti di liberazione controrivoluzionari”.
[102] Basket of deplorables: un’espressione particolarmente sprezzante, utilizzata da Hilary Clinton durante la campagna elettorale del 2016, per designare “la metà dell’elettorato di Trump”, che è “razzista, sessista, omofoba, xenofoba e islamofoba” [NdT].
[103] Bart Bonikowski e Daniel Ziblatt, “Mainstream conservative parties paved the way for far-right nationalism”, Monkey Cage Symposium, The Washington Post, 2 Dicembre, 2019.
[104] Shemon and Arturo, “Theses on the George Floyd Rebellion”, Ill Will, 24 Giugno 2020.
[105] I bianchi non erano la maggior parte in città a maggioranza nera come Atlanta e Detroit, ma erano sovra-rappresentati nelle strade rispetto alla loro quota di popolazione in quelle città. Si noti che il significato di “bianchezza” è di per sé mutevole. Meno immigrati, e meno figli di coppie di razza mista, scelgono oggi di identificarsi come “bianchi”. Se, seguendo Ignatiev, pensiamo all’essenza della bianchezza come al presunto privilegio di “diventare bianchi”, allora è un privilegio che sembra che molti americani stiano ora rifiutando. Si veda Paul Gilroy, “Whiteness Just Ain’t Worth What it Used to Be”, The Nation, 28 ottobre 2020.
[106] Per i sondaggi dell’opinione pubblica sulla partecipazione alla protesta si veda Larry Buchanan et al. “Black Lives Matter May Be the Largest Movement in US History” e i successivi rapporti di Pew e Civis Analytics. Dana Fischer e i suoi colleghi hanno condotto indagini sulla folla e ne riferiscono qui e qui. Riassunti dei primi dati sugli arresti sono riportati dal Washington Post e dal Marshall Project. Infine, si veda il rapporto di una società tecnologica (da allora ritirato a causa di pressioni politiche) sui dati demografici degli utenti di telefoni cellulari geolocalizzati all’interno delle aree e degli orari della rivolta. Tutti questi rapporti suggeriscono che i bianchi erano sia in maggioranza che sovra-rappresentati nelle proteste rispetto alla loro quota di popolazione nella città. Questo è stato a sua volta al centro delle critiche dei neri e di altri politici locali democratici minacciati dalle proteste.
[107] La conclusione del nostro articolo Brown contro Ferguson qui è rilevante: “Se la razza può presentarsi come la soluzione di un enigma compositivo, evocando una nuova unità attraverso modulazioni discendenti, quell’unità stessa si risolve in un’altra impasse compositiva quando un’ulteriore discesa minaccia di annullarla. Ora che il ghetto ha riscoperto la sua capacità di ribellarsi, e di forzare il cambiamento facendolo, le altre, più grandi componenti dei poveri d’America – bianchi e latini – staranno a guardare?
[108] Il Kente è un tessuto tradizionale ghaniano [NdT].
[109] Si veda We Still Outside Collective, “On the Black Leadership and Other White Myths” Ill Will, 4 Giugno 2020 e Idris Robinson, “How It Might Should be Done ,” Ill Will, 20 Luglio 2020.
[110] Person of Color, cioè ogni persona che non è considerata bianca [NdT].
[111] Naturalmente, molto di questo aveva anche le sue dimensioni performative, ma era una performance che serviva un fine collettivo pratico (combattere la polizia brutale e razzista) piuttosto che un tentativo degli individui di ottenere rango, riconoscimento o redenzione.
[112] Anche se le cause della confusione certamente preesistevano e sopravviveranno alle lotte stesse.
[113] Il senso di isolamento sociale sembra essere in crescita in molti paesi sviluppati e può essere un altro fattore che ha scatenato l’esplosione di rivolta negli ultimi anni. Vedi Bianca DiJulio et al, Loneliness and Social Isolation in the United States, the United Kingdom, and Japan (Kaiser Family Foundation 2018).
[114] I 10 miliardi di dollari stimati che sono stati donati quest’anno a una varietà di organizzazioni in lizza per il ruolo di autentica rappresentanza razziale non “recupereranno” nulla, ma permetteranno una nuova generazione di gangsters, alcuni dei quali avranno senza dubbio un ruolo pacificatore, mentre altri potranno sostenere un’escalation.
[115] Robinson, “How It Might Should be Done”.
[116] Angry Workers descrive la necessità di “un’organizzazione che sia radicata tra i lavoratori della tecnologia senza assecondare la loro altezzosità intellettuale. Tra i lavoratori produttivi di massa senza finire per favorire il loro settorialismo sindacale. Tra i poveri senza alimentare le loro illusioni insurrezionali e tendenze populiste”, “La necessità di un programma rivoluzionario della classe operaia in tempi di golpe e scenari di guerra civile”.