BANALITÀ DI GUERRA

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Quattro appunti ingenui e cinque citazioni sugli eventi in corso.

I

Si ripresenta qui in piena luce la natura contemplativa del comportamento del soggetto nel capitalismo.

Tuttavia questo “dannoso spazio”, secondo le parole di Bloch, viene alla luce in tutta la sua chiarezza nella storia stessa, non appena essa viene orientata sul presente – e questo è inevitabile, dal momento che in ultima analisi siamo interessati alla storia proprio per comprendere realmente il presente. L’incapacità di comprendere la storia da parte dell’atteggiamento contemplativo borghese si polarizza nei due estremi dei “grandi individui” come sovrani creatori della storia e delle “leggi di natura” dell’ambiente storico, ed appare chiaro che entrambi questi estremi sono ugualmente impotenti, sia presi separatamente che insieme, di fronte all’essenza – che richiede una donazione di senso (Sinngebung) – di ciò che è radicalmente nuovo, del presente.

Gyorgy Luckacs, La reificazione e la coscienza del proletariato.

Guerra e pandemia: gli anni ’20 mostrano le unghie. Di fronte a tale sconvolgimento l’occidentale colto constata, forse con un brivido macabro, che la Storia non può certo dirsi finita. Lo studente annoiato rivolge all’insegnante durante la lezione una domanda di vaga curiosità: Quindi un giorno si studierà anche quest’epoca? Nello stupore generale a volte si perde di vista che il tempo vissuto resta un oggetto esterno. Sottratto alla presa, nel futuro tanto quanto adesso nel nostro presente.

Sì, la storia continua, con ogni probabilità non si era mai fermata, ma questo non dovrebbe essere consolante. Già solo il fatto che a sancire la manifestazione prepotente del suo accadere debba essere un certo quantitativo di morte e distruzione potrebbe fare riflettere sulla qualità di questo concetto di storia – che è anche materialmente l’aspetto dell’esistenza che conduciamo. 

L’accelerazione dell’ultimo mese mostra nella sua plasticità una sistema che domina, organizza e sovrasta la vita degli esseri viventi senza farsi minimamente toccare. Restando nelle sue grinfie ognuno è agito e al contempo prigioniero del ruolo in ogni caso, sempre, di spettatore. Mai comunque al riparo dalla sofferenza concreta, mai qualcosa di più che inerme, l’uomo che vive nella storia osserva la scena, paralizzato. La storia è fatta su di lui. Paga col sangue il prezzo per assistere allo spettacolo del proprio massacro.

Regnano sovrane impotenza e estraneità. Perché fanno la guerra? è la domanda di un bambino, probabilmente l’unica che ha senso. Di fronte trova un’entità mostruosa e incomprensibile, in cui gli eventi sembrano agire di vita propria, come cose indemoniate. La storia che continua e non è finita, è tutta sempre incomprensibile. 

Forse proprio per questo, allora, fioccano le analisi e gli approfondimenti. E riecheggia un ritornello: comunque vada, muteranno i paradigmi fondamentali del potere. Ma di certo non il potere: la geopolitica ha in sé molto dell’apologia. La vocazione imperiale si incarnerà sempre in qualche nazione. Per gli spiriti più curiosi invece i giornali forniscono ricostruzioni biografico-psicologiche dei protagonisti, il profilo degli attori, atti di eroismo spicciolo, tutti snack più facilmente consumabili. Il raddoppiamento delle parole non fa che sottolineare l’assenza di contatto con ciò avviene – salvo il fatto di poterne morire. 

Il complesso di appetiti economico-politici, da qualunque lato, presenta il rischio della distruzione come una necessità di sistema. Di fronte a tale situazione (quale che sia), non poteva che esserci guerra: è la conseguenza naturale di leggi politiche, militari, finanziarie. È la scelta destinale di uomini forti che si assumono questa responsabilità di fronte al mondo. È una questione di vita o di morte. 

Ogni spiegazione, oltre che giustificare gli atti di ognuna delle parti in causa, non fa che ribadire in fondo che è la guerra e la storia sono entità che non devono certo rispondere agli esseri viventi. Oltre a se stesso, giustifica di fatto l’apparato dal quale discende anche il proprio nemico. 

L’impianto dei doveri e delle decisioni si para di fronte, è così vicino e violento da restare inafferrabile. Segue soltanto le sue proprie logiche, anche e soprattutto davanti all’effettività del disastro. Uomini e donne possono solo spalancare gli occhi su una totalità che è loro sottratta. Del resto, accade lo stesso in tempo di pace. 

II

Il presidio era l’estremo rifugio di chi non voleva assolutamente andare alla guerra. Io ho conosciuto un professore supplente che prestava servizio nella sua qualità di matematico, e che nell’armata di artiglieria rubò l’orologio a un tenente per poter stare al sicuro nel carcere presidiario. Egli aveva agito così dopo matura riflessione, perché la guerra non lo attirava né lo entusiasmava. Sparare sui nemici e uccidere, dall’altra parte, a forza di spolette e granate, dei supplenti di matematica altrettanto disgraziati di lui, gli sembrava una bella sciocchezza. “Io non voglio farmi odiare per la mia brutalità”, s’era detto.

L’apparato giuridico era veramente magnifico, quale non può esistere altro che in uno stato alla vigilia della sua decadenza totale, politica, economica ed etica. Lo splendore della potenza e della gloria trascorse veniva conservato a forza di tribunali, polizia, gendarmi e d’una banda prezzolata di delatori.

Jaroslav Hasek, Il buon soldato Sc’veik

Il buon soldato Sc’veik è un romanzo umoristico di Jaroslav Hasek, ambientato durante la Prima guerra mondiale. Josef Sc’veik è un’idiota notorio, un uomo meno che semplice, scaraventato al fronte dalla demenza dell’apparato militare e burocratico austro-ungarico. Le sue vicissitudini in un mondo delirante sono comiche per contrasto: Sc’veik, l’idiota, è l’unico a riuscire ad adattarsi alla follia della guerra. Benjamin vedeva una affinità profonda tra Josef K. e Sc’veik.: entrambi vivono in un sistema crudele e senza spiegazione, ma «uno si stupisce di tutto, l’altro di niente».

Forse ancora più significativo delle disavventure del buon soldato è il coro di personaggi che egli di volta in volta incontra. Stupidi, cattivi, alcolizzati, vigliacchi, smarriti: nessuno di loro ha il benché minimo interesse nella guerra in corso – tranne le guardie dei carceri per disertori o i superiori militari, che possono arricchirsi o sfogare il loro sadismo. Ma anche per loro non c’è alcun rapporto vivo con la retorica patriottica di cui si riempiono la bocca. La guerra, insomma, non è in nessuno di loro, ma sta sopra tutti. C’è nei manifesti, nelle canzonette o nei proclami. Sotto la sua egida si muove il caos brulicante di esseri umani meschini che tentano in ogni modo di salvarsi. Solo scompiglio e sola confusione, nessun motivo reale si rivela agli occhi di quelle creature che si scontrano nella carneficina e appaiono, inutile negarlo, infinitamente ridicole.

La guerra non buca gli scenari privati, li fa semplicemente proseguire in altro modo, con altri mezzi. Soprattutto per chi osserva nelle giornate bianche, di lavoro senza storia, quello che accade un po’ più lontano e scruta il cielo per capire che cosa stia arrivando. Ma dalla finestra di un condominio di Milano, Parigi, Francoforte è difficile scorgere i combattimenti. Per questo si scorre la cronologia ansiogena di un quotidiano, come fosse la diretta di una partita di calcio. 

Nel frattempo arrivano gli allarmi sugli effetti economici a breve e lungo termine. La ricaduta quotidiana, le conseguenze tangibili per chi non muore sotto una bomba. Rialzo del prezzo della pasta, della benzina e del gas. Stagflazione, che cos’è e che cosa potrebbe succedere? – l’approfondimento. Per ognuno cominciano, doverosi, i piccoli conti e la paura: la povertà è stata dichiarata insieme alla guerra. E il susseguirsi delle notizie mostra la divaricazione tra i destini individuali e la storia in essere. Meglio ancora, quelli sono parte di questa ma senza toccarla, senza contatto: la vita (quella che conosciamo) continua nello spettro della guerra.

III

La dinamica dell’inimicizia conduce inevitabilmente all’estinzione della specie. Un esempio probante: una misura che avrebbe un effetto positivo e abbastanza rapido sul riscaldamento climatico e la distruzione della natura (essendo essi assolutamente legati) sarebbe abolire gli eserciti e cessare di produrre armi, il tutto senza sopprimere i salari di coloro che lavorano negli eserciti e nell’industria degli armamenti. Invece di essere pagati per distruggere, essi lo sarebbero per non fare niente, il che permetterebbe loro di poter prospettare altrimenti il fenomeno vita. Una tale proposta sarebbe respinta come utopica, irrealistica, ecc. e l’argomento addotto è per lo più: bisogna potersi difendere. Così anche una persona non bellicista, anzi nemmeno bellicosa, pensa di poter essere aggredita e di doversi proteggere, il che implica che l’altro è potenzialmente un nemico o una nemica.

Jacques Camatte, Inimicizia ed estinzione

L’utilizzo massiccio di retorica bellica è stata cosa ancora più frequente del solito dal marzo 2020 in poi. Coraggio, sacrificio, eroismo e una vasta gamma di sentimenti dolci e dignitosi che fanno sempre breccia nei cuori degli individui. Forse è una banalità, ma se occorreva ricordarla all’epoca della campagna che mirava alla costruzione di un’unità menzognera di fronte al virus “nemico invisibile”, vale a maggior ragione quando gli stessi artifici linguistici ed emotivi preludono all’avvento di un nemico in carne e ossa che porta con sé, inevitabile, la tetra necessità di uccidere. E allora: nel tempo del capitale, ogni comunità è una comunità fittizia. Il “popolo” chiamato a raccolta non è mai nulla più di uno strumento o un ingranaggio. 

La macchina produttrice di apparenze che strutturano un civile certo di sé e in salute per lavorare sa riconvertire rapidamente i suoi impianti sfornando mitologie del guerriero ardimentoso per combattere. 

Perdita del mondo significa anche arrivare a morire per qualcosa che sta al di fuori di noi e che non siamo noi. La morte lo rende più profondo, ma non fa sparire il vuoto di senso che prima c’era. È inquietante respirare il ritorno della necessità politica dello schieramento o il fascino romantico della scelta (esaltati e giustificati, tra l’altro, da una distanza rassicurante). Tutto questo, perlomeno, è pienamente giustificato per gli amministratori di stato, bizzarro per chi si vorrebbe “antagonista” ad un sistema che chiama, all’interno delle sue parti, a serrare i ranghi: ubbidire è scegliere un campo.

«I libri di Storia e le biografie non bastano più: mostrateci i libri paga». Gli aggiornamenti dal fronte vanno di pari passo con un susseguirsi di cifre, pallottolieri e grafici di fluttuazione dei prezzi, dei costi, dei titoli. La guerra segna sempre un più da qualche parte in un registro di contabilità. Questo flusso indifferente a tutto e spinto all’eterna perpetuazione di sé stesso è il vero tessuto di qualsiasi bandiera. Abitiamo un luogo sempre falso che pretende volta a volta orgoglio patriottico, revanscismo, difesa della democrazia.

Non c’è bisogno di scomodare l’angelo della storia e le sue macerie, basta uno sguardo a quelle sulle quali siamo seduti e che ci viene chiesto di difendere. Di fronte alle comunità fittizie dell’emergenza dovrebbe valere la condivisione concreta della fragilità, o un dolore materiale che affratella.  “Disertore” resta una bella parola, chiedersi a chi giovi un nemico la domanda più importante.

IV

Il momento dell’abbandonarsi senza compenso al vissuto del finire costituisce innegabilmente una disposizione elettiva della nostra epoca

Ernesto De Martino, La fine del mondo

La guerra atomica o l’incidente nucleare, le notizie sullo stato delle centrali e gli avvertimenti minacciosi dei capi di stato. Nei tempi in cui l’apocalisse è un ritornello alla moda rispunta l’evento per sua natura senza ritorno. Ciò che non offre possibilità di scampo, il conato oltre il quale si danno solo fantasie letterarie.

La bomba atomica è letteralmente inimmaginabile, è il trionfo dell’incommensurabilità impotente tra gli esseri umani e la distruzione fattasi reale. La fine enorme che coincide con tutto l’orizzonte, e non in termini di metafora.

Di tale nulla si può dare solo rappresentazione. Nelle ultime settimane è tornata d’attualità una simulazione, elaborata nel 2019 dal programma Science and global security dell’università di Princeton. Raffigura su una mappa la possibile deriva di guerra nucleare di un conflitto convenzionale tra Russia e Nato, con circa 90 milioni di morti in poche ore. Vale la pena di soffermarsi sull’ultimo quadro, che sarebbe il momento della definitiva deflagrazione del conflitto atomico in Europa: i punti delle esplosioni e le traiettorie dei lanci delle bombe sono talmente tanti da confondersi, disegnando in maniera perfetta un caos demente, la vocazione alla catastrofe. Letteralmente: non si capisce più niente.

Al di là dell’attendibilità della ricostruzione, quel cielo nero sta sospeso sulle nostre teste ogni giorno. I segni dell’attacco e del contrattacco che non risparmia nessuno sembrano il riflesso enorme dei percorsi isolati, delle esistenze minime che si arrabattano, configgendo nella sopravvivenza e pregando perché sia rinviata la distruzione. Il capitale possiede un enorme, unico esercito di popolo che può impiegare nella retroguardia intellettuale o all’avanguardia concreta, all’assalto con il coltello tra i denti. E nel delirio convive, in ogni momento del quotidiano, con la presenza della Fine.

questo sterminato

questo invincibile

sterminato invincibile

sterco minato in vinco bile

in vincoli micidiale

vincolato omicidio dio di omi

vincibile sterminio

diodo stermicida vinci nato 

Giorgio Cesarano, Il sicario, l’entomologo