MEMORIA, RIMOZIONE, NARRAZIONE – Conversazione con Alessandro Bertante su anni ’70 e letteratura
Fra i libri candidati al premio Strega di quest’anno c’è Mordi e fuggi di Alessandro Bertante (Baldini & Castoldi). In questi ultimi anni abbiamo notato un proliferare di romanzi che affrontano, tramite il racconto, le vicende degli anni ’70 e in particolare il tema del rapporto con la memoria di quell’epoca (a chiusa dell’articolo forniamo un elenco di titoli di questo filone).
Ci siamo chiesti perché, e perché ora, si arrivi a questa produzione così cospicua e proprio su un tema sul quale si fatica ad avviare un processo di storicizzazione preferendo lasciarlo, ancora a distanza di mezzo secolo, a quella particolare classe di ricercatori dei fatti storici che non mira alla comprensione dei fatti, ma piuttosto all’accertamento di responsabilità: i magistrati. Ancora dopo decenni vengono istituite commissioni d’inchiesta su Moro, si parla di complotti di ogni ordine e grado includendo nella lista di eminenze grigie un numero di dramatis personae che non sfigurerebbe fronte a quella di un dramma di Shakespeare. Ancora, diverse decine di persone rimangono a tutt’oggi detenute per quelle vicende, e questo per ragioni del tutto irrelate rispetto alla sanguinosità dei delitti ascritti, ma piuttosto legate ad una mancata abiura della propria partecipazione a tali fatti. Le ultime generazioni che possono dire di conservare una memoria personale dell’epoca sono almeno ultrasessantenni (ed erano all’epoca giovanissimi), eppure nei dibattiti mediatici attuali quegli anni vengono spesso trattati con gli strumenti della cronaca, cioè quelli della prima linea della sfera pubblica che serve a creare e mantenere le fazioni.
In definitiva ci pareva che di fronte a questo grande rimosso dell’immaginario un simile proliferare di romanzi rappresentasse una specie di nevrosi narrativa, uno spostamento, una risposta artistica di fronte all’inerzia degli storici e della politica.
Di questo – e altro – abbiamo parlato con Alessandro Bertante per capire come da scrittore vedesse questo recente interesse letterario e il complesso rapporto che pone tra storia e memoria.
Nella nostra rivista trattiamo spesso degli anni ’70, della loro memoria e, molto più spesso, del processo di rimozione selettiva che subiscono. Un avvenimento che ci colpì molto fu la vicenda del sequestro dell’archivio Persichetti, vicenda simbolicamente significativa dal punto di vista della mancata storicizzazione di quei tempi. È forse per questo che siamo stati attenti a quello che pare essere un proliferare di romanzi storici ambientati all’epoca. Quasi da farci venire in mente un’iperbole; sembra un po’ come la fantascienza in Unione Sovietica, qualcosa che fai perché non puoi parlare del tempo presente.
Volevamo appunto chiederti di parlarci del processo che ti ha condotto a questo libro, insomma, come mai hai deciso di approcciarti al tema in forma narrativa; è perché manca una compiuta storicizzazione di quei tempi? Nel tuo romanzo alla fine hai cercato di ricostruire l’atmosfera di quegli anni, dichiarando esplicitamente di voler ricostruire il contesto in cui sono maturate le scelte che hanno portato molte persone a credere e praticare la lotta armata, quindi, in qualche modo hai dovuto indossare i panni dello storico.
Non vedrei come inusuale il fatto che un processo di storicizzazione parta dalla narrativa. Di lavori storici sugli anni di piombo ne sono usciti moltissimi, quasi sempre concentrati sulla loro fase crepuscolare. Il caso Moro, ad esempio è una delle vicende più storicizzate – spesso in maniera impropria con un eccesso di complottismo – però io credo che adesso ci troviamo già in una fase, a quasi 50 anni da quei tempi, dove il terreno per una compiuta storicizzazione sia fondamentalmente pronto. C’è stato e c’è bisogno di superare ancora degli ostacoli ovviamente, non ultimo un certo pudore da parte degli storici a dire le cose come stanno, anche quelle più banali, che sono poi quelle più complicate da dire. Recentemente mi è capitato tra le mani un libro dello storico Davide Conti che inizia in maniera molto diretta dicendo: “Piazza Fontana fu un attentato fatto nel centro della città più importante del Nord-Italia organizzato da componenti di Ordine Nuovo con l’appoggio logistico dei servizi segreti e il sostanziale beneplacito della Confindustria”. Questa cosa è stata storicizzata, nel senso che c’è un consenso da parte di chi fa ricerca su quello che è successo, adesso si tratta di raccontarla. A me interessavano poco gli anni ’70 fino a come sono stati raccontati ad oggi, anche perché – e per forza di cose – quel racconto ha vissuto molto di memorialismo. Dagli anni ’80 in poi abbiamo letto centinaia di libri di ex sessantottini che ci hanno raccontato della loro giovinezza, spesso con grosse venature di sensi di colpa. E, peraltro, partendo quasi tutti da un’appartenenza borghese. Cosa particolarmente vera per quelli legati a Lotta Continua e Potere Operaio. Da lì la mia esigenza di scrivere Contro il ’68 (edito per Agenzia X nel 2007).
Io pensavo che ci fosse un po’ un buco dal punto di vista della narrazione degli anni ’70, ovvero il rifiuto -postumo- da parte dei sessantottini della violenza. Credo che questo abbia creato una divaricazione innaturale fra il ’68 e la lotta armata che invece, secondo me, sono figli della stessa esperienza degli anni ’70. So che è una frase che potrebbe essere strumentalizzata dalla destra, ma in realtà è da rivendicare. Non si possono capire quegli anni senza avere in mente la violenza di cui erano intrisi e che oggi fatichiamo a comprendere, mentre erano cose ben chiare nell’immaginario di allora.
Gli anni ’60 sono un decennio di grandi illusione e grandi speranza e grandi ideali, ma molti dei suoi grandi protagonisti mitopoietici vengono ammazzati: Che Guevara, Martin Luther King, Malcom X, i due Kennedy, che non erano rivoluzionari ma facevano parte del mito. Tutti i protagonisti collettivi: Pantere nere, Tupamaros, Vietcong sono tutti militanti comunisti armati. E quindi questo uso della violenza politica non era estraneo agli anni ’60. D’altronde nessuna rivoluzione, tranne pochissime, sono pacifiche. La rivoluzione è violenta per sua stessa natura, ed è armata, altrimenti non è. Quindi il concetto di violenza rivoluzionaria era già ben presente. Poi la narrazione postuma che nasce all’inizio degli anni ’80 distingue un ’68 borghese, buono e idealista, dai cattivi della lotta armata che hanno infranto il sogno.
Secondo me la situazione era più complessa e volevo dare il mio contributo parlando proprio del periodo aurorale delle brigate rosse, che poi era quello di molte organizzazioni armate di quel tempo; un gruppo di ventenni che decide di prendere le armi dopo piazza Fontana e Pinelli. Sbagliando, dal mio punto di vista, perché non c’erano i presupposti di una lotta armata rivoluzionaria in Italia, sbagliando anche il soggetto politico, cioè la classe operaia, che già allora stava perdendo la sua centralità. Però partiva tutto da lì, e lì ho voluto ricondurre il racconto. Io volevo iniziare a indagare l’humus naturale e politico da dove nacque la lotta armata in Italia e forse il medium narrativo era il più efficace.
Tu fai già delle valutazioni ed è inevitabile, specie se si parla di eventi così potenti, ma dici di voler raccontare per poter capire, è un atteggiamento che dovrebbe essere bagaglio di ogni lavoro storico e che pone all’interno delle scelte dei protagonisti, che è invece un buon punto di partenza per i romanzieri. Vedi quindi come positivo questo proliferare di romanzi sul periodo degli ultimi tempi?
Per prima cosa direi che è giusto che la narrazione stia anche a chi non ha vissuto quel periodo altrimenti ricadiamo nel solito problema del memorialismo di cui parlavamo prima. Poi che ci siano degli storici che scrivano del periodo e facciano ricerca è importante perché lo storico valuta le fonti e riesci a stabilire la veridicità o meno dei fatti. Ma è anche opportuno che ci sia qualcuno – che da un punto di vista artistico- cerchi di interpretare quegli anni, la genesi della lotta armata e l’inizio della strategia della tensione. Ci tengo a fare queste precisazioni sulla memorialistica perché bisogna avere uno sguardo lucido, anche distaccato, quando si raccontano le cose non puoi ricordare la tua gioventù. Anche i lavori dei brigatisti, tutti interessanti, e su tutti quello di Moretti grazie anche alla Rossanda che gli fa da interlocutore, sono tutti prodotti legati al memorialismo -importanti, necessari – ma per forza limitati dal punto di vista storico. Sono fonti importanti, io nel romanzo ho messo parole in bocca ai brigatisti solo prendendole dai memoriali delle B.R., non avrei potuto fare altrimenti.
Poi, sai, il termine narrazione ormai si trova da qualunque parte. Questo è un conformismo spettacolare dei nostri tempi. Un situazionista ti direbbe che sarebbe stato inevitabile, quindi, partire proprio dalla narrativa. Poi bisogna dire che finché racconti una storia ci sono meno problemi, se lo fai politicamente è più difficile. Ciò detto, le narrazioni sono comunque esplosive, perché plasmano la concezione che hai degli avvenimenti e come poi recepisci i fatti storici ad essi legati. Io ho visto giovani molto interessati alle presentazioni, non tanto i miei coetanei che vedevo più negli altri libri. Sono semplicemente giovani che non hanno vissuto quegli anni, che li sentono lontani, ma vogliono sapere la storia delle br perché in qualche modo gli è arrivata. Questo è importante.

Nel processo di ricerca che hai fatto per questo romanzo ti sei fatto un’idea di quali siano gli elementi, che più di altri, impediscano una compiuta narrazione?
A mio avviso ci sono resistenze più forti ad affrontare questo processo più a sinistra che a destra. A sinistra ci sono ancora delle forti rimozioni, spesso dovute all’imbarazzo, al mancato riconoscimento. Guarda ad esempio Feltrinelli; tu vai alla loro fondazione e se guardi a quello che rimane del suo lascito sembra semplicemente l’editore che ha scoperto Pasternak e Garcìa Marquez, del fatto che fosse un combattente rivoluzionario e che sia morto come tale non c’è traccia. Ed è stato il finanziatore principale di tutti i gruppi dell’estrema sinistra che volevano passare alla lotta armata. Non certo un attore minore in quella faccenda. La struttura di lavoro illegale di Potere Operaio era completamente pagata da lui. Le B.R. rifiutarono il suo appoggio, però fu comunque il punto di riferimento più importante di come vivere in clandestinità e come organizzarsi in quanto gruppo militare. Alla sua morte ci sono dei racconti di come molti brigatisti si sentirono quasi orfani Questa figura è stata completamente rimossa. Il famoso “album di famiglia” della Rossanda è la cosa più vera che è stata detta sulle relazioni interne alla sinistra in quegli anni.
Insomma, le B.R. nascono nei CUB di fabbrica. A parte Curcio e la Cagol, che arrivavano dall’università negativa, gli altri nascevano dai CUB. Moretti veniva dalla componente di colletti bianchi di quei comitati. Gli altri era dei fuoriusciti del partito comunista di Reggio Emilia, quindi classe operaia e partito comunista, più famiglia di così…
Capisco che le rimozioni da parte di certa sinistra siano ancora forti, ma bisogna dire che non ci sarebbero mai state le Brigate Rosse in Italia se non ci fosse stato il un partito comunista al 30%. E questo si vede anche facendo il paragone con altre organizzazioni armate d’Europa, a parte la RAF che è una cosa diversa perché c’era la Germania divisa in due, non c’è confronto possibile con nessun altro fenomeno armato. Né per durata nel tempo, per potenza di fuoco o numero di militanti. Senza quel P.C.I. così potente non sarebbe stato possibile. E nemmeno sarebbe stata tale la reazione da parte dello Stato con la strategia della tensione. Ogni forma di repressione eccezionale che fu effettuata in quegli anni deriva sempre da quel fattore. Questo è un dato storico incontrovertibile. Che poi fossero tutti a sinistra del P.C.I. e gli dessero addosso in ogni momento è altrettanto vero ma il punto di riferimento era quello in fabbrica.
La svolta narrativa di qualunque storia è il pane quotidiano delle scuole di scrittura, quello che cambia qui nel tuo romanzo è che hai scelto di dare un ritmo che lo fa sembrare un saggio.
Questa è una scelta letteraria precisa, di fruibilità del testo che volevo immediato. Lo volevo in prima persona e corto, volevo che fosse qualcosa di fruibile a tutti. La prima persona funziona, se lo avessi fatto con una terza persona onnisciente sarebbe stato molto più retorico. Ti impone una valutazione morale la terza persona, se sei in prima persona sei tu dentro la storia.
Come mai, secondo te, tutta la letteratura recente si concentra solo sulle B.R. quando nella galassia di allora c’erano moltissimi gruppi e gruppetti…
Proprio perché le B.R. sono i più memorabili e se fai la storia di un gruppo di estrema sinistra, a livello di immaginario, puoi solo parlare delle B.R:, poi hai ragione, la galassia era sterminata, ma diciamoci la verità, i primi tre anni dell’esperienza brigatista sono una storia romantica che fornisce grandi risorse letterarie ad un romanziere.
Sono degli idealisti romantici che fanno i Robin Hood a Milano. Una città che peraltro non conoscono perché, a parte quelli del Giambellino, nessuno ci è nato. E questo a me, lo dico da scrittore, sembrava un ordigno narrativo straordinario. Non era nemmeno uno dei gruppi più violenti del periodo o della città, però rivendicavano tutto, si facevano vedere sempre, avevano un nome formidabile, un simbolo formidabile e facevano gesti eclatanti di grande portata simbolica. Fare esplodere la macchina del capo dei crumiri, il sequestro Macchiarini sono gesti potentissimi che ti fanno considerare un eroe in fabbrica. Si parla ancora oggi di questo cartello attaccato.

il concetto stesso di “Mordi e fuggi” è clamoroso, loro non lo sapevano ma antelitteram erano dei comunicatori, guarda solo quando inventano il nome Brigate Rosse, una crasi fra Brigate Garibaldi e Volante Rossa. A livello di immaginario hanno avuto un impatto tremendo.
Prima dicevi di questo sentimento di massa, di partecipazione che c’era negli anni ’70 rispetto al ’68. Secondo te non è anche questo uno degli elementi più importanti dell’opera di rimozione che viene messa in pratica adesso e negli ultimi 20-30 anni. Questo è uno spettro da esorcizzare per il potere. C’erano delle cose che si sentiva l’urgenza di cambiare e si era in tanti a sentirla questa urgenza.
L’urgenza si sentiva sicuramente dopo piazza Fontana, secondo me però noi paghiamo lo scotto di una narrazione borghese di quegli anni. Il soggetto rivoluzionario che faceva parte del proletariato giovanile o delle prime B.R., cioè consapevole in sé, non esiste più da anni, le periferie sono devastate e perlopiù in mano alla destra. Non essendoci più quel soggetto chi si dovrebbe far carico di quella narrazione? Il ceto medio riflessivo, cioè la borghesia di sinistra che non ha intenzione di parlare veramente di quegli anni se non chiamandoli di piombo. Bisogna quindi cancellare la narrazione postsessanttotina, che è ingannevole, e tornare al racconto originario e alla sua urgenza, come dicevi. Quest’urgenza è stata rimossa.

Poi, se ci pensate, l’errore politico da parte loro è evidente. Il loro soggetto di riferimento è operaio e nell’83 siamo già alla pubblicità della Ramazzotti con la Milano da bere.
Vuol dire che in 10 anni, da quando iniziano a formarsi i primi gruppi armati, era già cambiato tutto e quel soggetto non esisteva più. I tempi erano troppo veloci, la trasformazione postmoderna degli anni ’80 annichilì quel soggetto, che c’era, ma assolutamente insufficiente in quel momento per una svolta rivoluzionaria in Italia. Probabilmente non lo è mai stato. D’altra parte, se fossimo stati veramente vicini a qualcosa di vagamente simile a una rivoluzione avremmo sicuramente avuto un qualche tipo di colpo di Stato come in Grecia o in Cile. I golpe finti che ci sono stati, Borghese, De Lorenzo, ecc.. erano messaggi alla DC che servivano a non farli avvicinare troppo a sinistra. Insomma, la Nato c’era per ricordare che dopo la Seconda guerra mondiale le squadre erano state fatte e noi dovevamo stare da questa parte dell’Atlantico.
Qui un parziale elenco dei romanzi usciti negli ultimi anni sul tema anni ’70/ lotta armata:
- Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Minimum Fax, 2008
- Antonio Iovane, Il brigatista, Minimum Fax, 2019
- Antonio Iovane, La seduta spiritica, Minimum Fax, 2021
- Giuseppe Culicchia, Il tempo di vivere con te, Mondadori, 2021
- Domenico de Geo, A piedi nudi non camminò, Ortica, 2021
- Raffaella Battaglini, Mentre passiamo bruciando, Castelvecchi, 2021
- Carlo Frattini, Alla fine dell’estate, Redstar press, 2021
- Alessandro Bertante, Mordi e Fuggi!, Baldini e Castoldi, 2022