INVITO – di Benedetta Fusaia
In questo racconto c’è una cena, delle cose rotte e pensieri sul colore dei giorni.
Mi piacerebbe tanto invitarti a cena da me, stasera. Ho un vino strepitoso e sono molto bravo in cucina, mia nonna a suo tempo è stata una grande insegnante. Non conto le volte che mi ha urlato o frustato coi canovacci, però ora sono un fenomeno con la pasta e coi dolci e so che ci vuole disciplina anche nel dare amore. Quando ho pensato di invitarti ti ho immaginata col vestito a fiori, quello che avevi in ufficio quando ti hanno promossa caporeparto, però non voglio influenzarti. Se accettassi potresti mettere quello che preferisci, non serve dirlo, anche se con quel vestito e con le scarpe che indossavi giovedì scorso – forse era mercoledì? quelle azzurre – saresti perfetta, e impazzirei se ti tirassi indietro i capelli e ti lasciassi guardare il viso. Io metterei la cravatta rossa, quella per cui mi hai detto “bella cravatta, Lorenzi” due mesi e mezzo fa, quando sei passata a chiedermi le rendicontazioni, e la giacca di tweed, che non mi hai mai detto niente di male a riguardo, anzi, una volta ce l’avevo addosso e mi hai sorriso.
Ho pulito tutta casa e l’ho profumata, se accettassi chiamerei subito il pescivendolo per prenotare quello che ha di più fresco e passerei a ritirarlo appena uscito dall’ufficio. Andrei anche dal panettiere e dal fioraio e ti direi di venire per le nove: corso Colombo 73, citofono Lorenzi, terzo piano a sinistra; così avrei tempo di fare la doccia e cominciare a cucinare. Ti guarderei entrare dalla porta trattenendo il respiro, tenendo le dita incrociate perché tu possa arrivare al di qua senza perderti nei giorni, e se ci riuscissi non sono certo che le gambe mi reggerebbero, credo che dovrei sedermi un attimo e riprendere fiato. Ti direi che ho avuto un capogiro per via del caldo e sarei felice se non ci dessi peso, se invece sorridessi del profumo di pane caldo e ti accorgessi dei gladioli e delle camelie che ho sistemato sotto le finestre e lungo il corridoio; pregherei che non facessi caso alla foto di mia moglie nascosta dietro al vaso sulla consolle dell’ingresso, non posso pensare di metterla in un cassetto.
Preparerei un antipasto leggero, che non ti tolga l’appetito, e poi le linguine col sugo di triglie, che mi riescono bene. Di secondo quello che preferisci tu, basta che chiedi, il mio pescivendolo ha sempre tutto. Ma se non ti piace il pesce me lo dici e cambiamo, facciamo carne. Le tagliatelle col ragù e poi vediamo. Ti sposterei la sedia per farti accomodare e sono curioso di sapere se sei una di quelle che mettono i gomiti sul tavolo oppure se stai dritta, se ti pulisci la bocca prima di bere e se il tovagliolo lo tieni disteso sulle cosce oppure lo stropicci e ce lo incastri in mezzo, come me. Ti verserei l’acqua e il vino e mentre mangiamo ti chiederei della tua infanzia, della tua famiglia, dei tuoi studi. Ascolterei con attenzione qualsiasi cosa tu abbia voglia di raccontarmi, e poi se me lo chiedessi ti racconterei di me.
I miei non mi volevano, sono spariti quand’ero piccolo ma non è una storia triste, sai, mi hanno cresciuto i nonni, avevano una panetteria e anch’io ci ho lavorato tanto. Ti direi di certo che l’amore per me ha l’odore del pane e i colori della frutta su un tortino di pasta frolla. Se poi vedessi che ti interessano le mie chiacchiere, berrei il mio vino d’un fiato e andrei avanti. Ti direi che il primo bacio l’ho dato a una ragazza con la bocca molto sottile e il naso a punta, le avevo preparato una torta di mele. Dopo otto anni l’ho sposata e ci siamo amati senza tregua per i ventinove successivi; quand’era in ospedale ho continuato a sfornarle torte e dolcetti, avrei dato qualsiasi cosa per farla guarire. Poi l’ho persa e qualcosa si è rotto, comincio a credere che c’entri con la porta di casa mia. Sono sicuro che dicendoti così strapperei piano piano il tovagliolo e ne farei tante piccole palline, le allineerei sul tavolo. Dopo averle contate alzerei lo sguardo e vedendo il tuo splendido viso incupito, mi accorgerei di averti messa in difficoltà; allora arrossirei e mi alzerei per non doverti guardare, andrei a mettere un po’ di musica, qualcosa di Sinatra, Somethin’ Stupid. Accennerei qualche passo di danza per farti ridere, poi ti porgerei la mano per farti alzare a ballare con me. Sentendo il tuo respiro sul collo e il vestito frusciarmi sotto le dita non proverei a baciarti, ti direi all’orecchio che mi dispiace tanto, purtroppo devi sapere che qualche volta mi succede di esagerare, non ho molte occasioni di fare conversazione e non bevo quasi mai. Poi starei in silenzio, aspirerei a pieni polmoni l’odore dei tuoi capelli e forse proverei a toccarli, a spostare una ciocca o ad arricciarla tra le dita, è tanto che non tocco i capelli di una donna. Alla fine ti farei fare una giravolta, ti sistemerei la sedia di nuovo e infornerei il soufflé al cioccolato, l’impasto è già in freezer a riposare; uno solo, da dividere, non serve che dici che sei a dieta. Ci verserei sopra il coulis di lamponi, e se lo volessi ti preparerei anche il caffè. In casa puoi fumare, io non fumo ma non mi dà fastidio, apriamo le finestre tanto col caldo che fa non è un problema, anzi fanno corrente.
Sarebbe bello se finita la cena chiacchierassimo ancora un po’, se mi raccontassi dei tuoi figli, del divorzio se vuoi, e se hai già dei progetti per la pensione. Sarebbe ancora più bello se mi permettessi di avvicinarmi per farmi provare a contare le tue lentiggini. Ti giuro che non sarebbe la scusa per provare a rubarti un bacio, piuttosto per guardare da vicino i tuoi occhi, li vedo sempre da lontano. Forse proverei a prenderti la mano, questo sì, accarezzarla, ma un bacio no perché mi piacerebbe poterti riaccompagnare fin sotto il portone di casa tua e poi tornare a piedi da me canticchiando, e pensarci tutta la notte.
C’è una cosa però che prima d’invitarti sono costretto a dirti, anche se ormai, ne sono certo, avrai capito da sola che c’è un problema – per la cena intendo -, e allora…: mi si è rotta la porta d’ingresso, ti giuro non c’è verso di metterla a posto. Hanno provato i portinai, il fabbro, l’ho fatta cambiare tre volte ma nessuno è stato in grado di risolvere il problema. “Funziona a meraviglia” dicono tutti, e lo vedo come mi guardano, le smorfie e le pacche che si scambiano quando credono che guardi altrove. Non so dirti quanto mi fanno sentire solo; ma ci ho riflettuto a lungo e forse anch’io al posto loro non mi crederei. Ti prego però: almeno tu, se puoi… a me quella porta dà un sacco di guai – lascia passare solo chi viene ieri o dopodomani e quindi, anche se trovassi il coraggio di invitarti, sono mortificato ma mi troverei costretto ad averti già invitata o a invitarti tra due giorni.
Sai, ieri ti ho aspettata, ho passato tutta la sera seduto sotto al citofono perché ho pensato che forse due giorni fa avevo già trovato il coraggio di invitarti, e ti ho aspettata anche l’altro ieri, magari ti eri sbagliata coi giorni o magari invece ti ci eri persa. A me succede di continuo per cui stai tranquilla, non mi costa niente aspettare; di sicuro anche dopodomani ti sto aspettando. È un incubo vivere con questa porta, sai, certe volte esco e mi trovo a dover ripetere ieri o a dover vivere dopodomani. Appena mi accorgo che qualcosa non va torno a casa, controllo il calendario, mi cambio i vestiti ed esco di nuovo. Ci sono giorni che devo ripetere quest’operazione tre, quattro volte prima di riuscire a vivere oggi, e mi stufo, sai? mi si riempiono gli occhi di lacrime e la mano mi trema tanto che fatico a stringere la maniglia. Quando glielo racconto, tutti i martedì e venerdì da quando mia moglie è morta, il mio psicologo annuisce e mi dice: “questo è interessante, mi dica di più signor Lorenzi” e non so se mi fa sentire più stupido o più fuori di testa ma subito mi tornano in mente i portinai, il fabbro… mi si alza la pressione, sento il viso bruciare; allora balzo in piedi e cerco di urlargli che è la verità, che lo pago perché mi creda, almeno lui, ma mi si strozza la voce e comincio a tossire, a lacrimare – mi dice secco: “Beva un bicchier d’acqua, signor Lorenzi”, intanto indica la sedia, e io umiliato torno a sedermi, faccio lunghi respiri, bevo.
Grazie al cielo però, questo sì te lo devo dire, ci sono anche giorni come oggi, che ti guardo dalla mia scrivania e so che è la prima volta, non che ti guardo da qui, ma che vivo questa giornata senza soffrire per trovarmici in mezzo, e ho la sensazione che sarà l’unica volta che ti vedrò così come sei in questo istante. Ieri e dopodomani mi hanno concesso una tregua ed è il momento perfetto per venire a proporti la cena.
Ma, e questa è l’ultima cosa che devo dirti, i giorni che mi sembrano loro stessi sono così rari ormai che mi commuovono fino alle lacrime: allora mi alzo e corro in bagno a soffiarmi il naso e sciacquarmi la faccia, prima che tu passando mi veda conciato così, e rifiuti di certo il mio invito.