LE FORME VUOTE DELLA STORIA

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Altre riflessioni in margine alle cose che stanno accadendo o non stanno accadendo

Se a dolerti,

è il tempo che patisce insieme con te

 

È per ognuno cosa comune e quasi domestica la condizione di estraneità e distanza dagli avvenimenti della storia – quantomeno, nella parte di mondo che abitiamo. E allo stesso modo, la vita privata e le sue vicende hanno spesso una strana consistenza, quella di qualcosa che esiste sì, ma al di fuori di noi. Ci si muove in un contesto inospitale, in mezzo a rapporti che spesso hanno forme incomprensibili o spaventose: la quotidianità ha l’aspetto di una potenza esterna alla quale bisogna rispondere e adeguarsi. Ci si osserva agire, quasi costretti o comunque sovrastati da un tempo che è certo il nostro tempo ma non è affatto nostro.

Questo mondo, ovvero la comunità apparente – la stessa che in questo momento di guerra da ogni parte il singolo è chiamato in vari modi a difendere – è una totalità ostile che si sottrae a qualsiasi tentativo di presa e insieme costantemente incombe con durezza ferrea. Insiste ma non è concreta, è un’irrazionalità incommensurabile. Un complesso di eventi ciechi che sembrano rispondere solo a una logica interna, misteriosa, e si impongono con violenza, isolando una piccola persona umana spaesata.

Insomma, la storia è troppo e troppo poco. Troppo perché troppo grande per essere concepita: troppo intricata la sequenza di rimandi, la concatenazione di dipendenze, il sistema che assicura la riproduzione stessa della vita nel capitalismo contemporaneo. Troppo poco perché questo deserto lascia al soggetto raggelato un pugno di polvere che ha nome sopravvivenza. Una miseria economica e affettiva in cui restano briciole – gli scampoli di avvenimenti, parvenze di comunione o i pochi soldi che si ottengono vendendo tempo e sangue, la sicurezza ontologica del lavoro – da raccattare e immagazzinare, per nutrirsene alla bisogna e spargerle lungo il sentiero dei giorni per dare l’illusione di un’identità. 

Gli uomini sembrano espulsi e relegati in una zona di non essere storico sovrapponibile a un luogo di solitudine assoluta (per quanto, nelle grandi metropoli, molto affollata). Ognuno muore solo: muore di fatto al mondo restando a fatica in piedi in un proprio mondo chiuso e circoscritto, più o meno abitabile a seconda delle condizioni materiali che permettono di sussistervi. E adattandosi al confino il soggetto ricrea la propria trama spicciola, un film personale del quale fatica sempre più a ricostruire i nessi dell’azione, popolata di fantasmi e punti ciechi. Nel frattempo, scorrono davanti agli occhi le macrosequenze dell’accadere storico, che non gli appartengono e non sono sue. È un vecchio adagio che la catastrofe sia qui, e insieme a lei giunge l’abitudine a muoversi in un ambiente fondamentalmente privo di senso.

Le cose accadono però, e la storia si compie. Le notizie si affollano in un’allucinazione comunicativa. C’è una guerra che infuria e minaccia di allargarsi, in bilico sulla deflagrazione totale. I governi sono instabili, traballano cadono e si riformano nell’eterna commedia delle crisi. C’è anche un altro rivolo di storia, quello delle stragi anonime, le morti nei lager o i suicidi nelle carceri, le morti sul lavoro, le morti bianche che accompagnano in sottofondo le nostre giornate bianche. L’irrealtà non è certo a livello della carne e del sangue di chi soffre, ma nel movimento di uno stato delle cose che è fatto di forze sottratte a ogni controllo per coloro che ne sarebbero gli attori.

Gli uomini operano assorbiti in quell’unica falsa comunità che è, sempre, l’impianto di produzione di sé stessa, una grande industria ed enorme mercato nel quale tutti sono contemporaneamente operai, materia prima, acquirenti. Le relazioni fra loro stessi e con gli oggetti circostanti si sono cristallizzate per provare a mantenere all’infinito il sistema in cui e di cui vivono, e che li opprime. 

Se la quotidianità storica è la riproduzione di questa vita materiale, è ovvio che lei stessa e le cose che la compongono si ritraggono, non sono più maneggiabili. Infatti a ricostruire un legame per quanto artificioso interviene l’unico elemento possibile — il denaro. 

Gli effetti degli eventi che si susseguono sono prima di tutto calcolati in termini di rialzi e oscillazioni del costo della vita: cosa succederà ai prezzi. Nessuno stupore e nessun piagnisteo se questo è l’unico elemento che connette e vivifica una catena di fatti morti. Non è certo una carenza spirituale ma una delle conseguenze della generale estraneità (e di certo non la meno gravida di imprevisti).

Cifra di questo mondo gigantesco e incomprensibile è la riduzione dei suoi abitanti ad astrazioni. Spettralità che determina un posizionamento rispetto agli eventi fatto di pura finzione, finzione però operante. Astrazione etica: dobbiamo combattere per la democrazia. Astrazione politica: l’esistenza di stati che si contrapporrebbero alle potenze imperialistica. Astrazioni del sangue, del suolo e dell’identità. Astrazione soggettivista che lamenta l’assenza di un’organizzazione formale che sappia proporre una visione in grado di convincere le persone a un antagonismo allo stato di cose. Quest’ultima è ben bizzarra. Mentre è normale che l’apparato economico e politico schieri i suoi vari analisti per costruire una giustificazione della permanenza nelle rovine, lascia perplesso chi invoca un nuovo partito e ignora la condizione comune di separazione dalla vita, credendo che un punto di vista possa generare una realtà concreta – e non il contrario: difficile immaginare meno materialismo.

Poca storia e troppa filosofia. Anche la proliferazione di teorie del complotto e spiegazioni pseudoscientifiche o pseudopolitiche viene dalla percezione di un caos al quale non ci si può rapportare fatto di potenze effettivamente soverchianti. E non è frutto dell’elaborazione di una massa rozza e illetterata che necessita della pietà o del disprezzo di avanguardie e cattedratici, ma di singoli che si scoprono vulnerabili e cercano la ragione delle ferite subite e il volto del nemico invisibile. Si dice che la filosofia abbia origine dallo stupore, ma in questo caso è lo sgomento, e ciò che manca davvero nelle teorie “antisistema” non è attendibilità scientifica ma prospettiva di salvezza comune. È impossibile salvarsi da soli, evadere dalle pareti invisibili del carcere di povertà e degradazione, e ognuno è un pensatore che cercando in astri lontani il segreto del proprio dolore cade sempre più a fondo nel pozzo.

Lo sradicamento mangia via il presente. Il passato è cattivo, giusto il ricordo di un orizzonte di significato di cui adesso rimane solo un desiderio irrisolto, e il futuro è semplicemente un’unica indistinta minaccia. In mezzo si apre uno spazio cieco e il soggetto infelice quando guarda a ciò che accade o è accaduto è capace soltanto di rimuginare. E rimuginare è impotenza, la postura di chi vive in un tempo congelato. Il cuore contemporaneo è pigro, non aspira più a nessun inizio e si accontenta della tristezza della permanenza. La felicità ha un tessuto di esperienza materiale e vive nel punto in cui un singolo vissuto non è più distinto da un movimento comune, e l’individuo espulso patisce una separazione fisica e affettiva, è privo di forze, si annichilisce sovrastato da un movimento demente più grande di lui, più forte di lui, che lo costringe al suo ballo mascherato. 

L’uomo che rimugina è rinchiuso in un palazzo infestato dai fantasmi che chiedono giustizia o vorrebbero pace, ma non sa più parlare la loro lingua. Certo non c’è solo rassegnazione, e in ogni nostalgia abita ancora memoria anche solo di un filo di passione. Percepire in modo istintivo e doloroso la follia del divenire del pianeta e della riproduzione della vita quotidiana è fonte di nevrosi, ma sotto di essa qualcosa sempre si agita o si incrina. Che cosa, però, non è dato saperlo a priori. 

Quando si spezzeranno gli operatori della falsa unificazione, i legami artificiali che danno illusione di appartenenza a questo mondo, sempre più logori e insieme più potenti? La domanda misura anche il rapporto tra l’odio per ciò che c’è e la necessità di una forma di amore per qualcosa che forse esiste ancora, sia pure nascosto calpestato e negletto, oppure deve ancora venire e attende di essere accolto e difeso. La risposta invece andrà cercata tanto nei gesti quanto nei singhiozzi che ci aspettano.