IL 41 BIS È NUDO – Atto I: La commedia

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Una riflessione in due parti sulle figure del comico e del tragico nel teatro giuridico-politico

La questione dello sciopero della fame di Alfredo Cospito come estrema protesta contro il regime detentivo a cui è sottoposto sta occupando un importante spazio all’interno del dibattito pubblico con prese di posizioni di personaggi di alto profilo. La fazione di coloro che sarebbero favorevoli a un’uscita di Alfredo da questo regime raccoglie aree politiche eterogenee e trasversali con argomenti a sostegno che spaziano dalla pietà cristiana a un’incongruenza di fondo tra la detenzione di un anarchico e le finalità del carcere duro (recidere i legami fra vertici e associazioni criminali). Sono senz’altro argomentazioni concrete e ben consapevoli dell’urgenza che la situazione impone.

Ci pare tuttavia che la tragica lotta di Alfredo stia facendo alzare il sipario su un punto piuttosto oscuro della macchina statale, che si è cercato sempre di presentare come utile, vincente e soprattutto ineludibile. L’ineludibile è un modo per presentare delle scelte di natura politica dietro lo schermo del necessario, liberandosi pertanto del peso della responsabilità che le scelte portano necessariamente con sé. Questo senso dell’inevitabile tocca corde profonde dell’animo umano, tanto che la forma primigenia del teatro greco poggia esattamente su questo punto. Il senso del tragico, così come quello del comico, vengono generati proprio dagli atti disperati di persone senza alcun reale controllo sul loro destino. Si dice che Napoleone a colloquio un giorno con Goethe chiaccherando sulla natura della tragedia sosteneva che la tragedia moderna si distinguesse in maniera essenziale dalla tragedia antica. Da un lato, noi moderni non avremmo più un destino, al quale gli uomini soggiacciano; dall’altro, al posto del fato antico, sarebbe subentrata la politica. A servire da moderno destino, per la tragedia, dovrebbe essere perciò la politica, la forza irresistibile delle circostanze, davanti alla quale l’individualità avrebbe solo da piegarsi.

Ci sembra che la forza teatrale (e teatralizzata) del necessario abbia fatto irruzione nella vicenda che si consuma intorno al 41-bis, con entrambe le sue maschere complementari di commedia e tragedia.

Nel dibattito che ne è scaturito in queste settimane, molte ipocrisie si sono mostrate per ciò che erano, mostrando il volto nudo della tragedia, specie dalle prese di posizione di chi difende strenuamente questo regime. Ce ne occuperemo in seguito. Ma vogliamo iniziare con degli aspetti meno noti che rappresentano a nostro modo di vedere il volto risibile di questa faccenda. 

Qui una grossa mano ci viene data dalla burocrazia mandarina che gestisce il sistema della giustizia, e in particolare quello delle carceri, dove non ci sono contrappesi di ordine economico o interessi elettorali che aiutino a snellirne l’inesorabile procedere.

Abbiamo raccolto pertanto una serie di provvedimenti che possono condurci all’interno delle sezioni di 41-bis della penisola entrando dalla porta di servizio, quella delle minuzie del quotidiano. L’intento non è, ovviamente, quello di strappare un sorriso ancorché amaro, ma piuttosto di mostrare a quale livello di sclerotizzazione possa giungere la burocrazia, e di cosa si occupano fattivamente magistrati e avvocati quando la vita viene compressa al punto da lasciare ai corpi reclusi a malapena ciò che occorre a sopravvivere materialmente. Lasciamo poi a chi legge l’ingrato compito di tracciare dei collegamenti fra queste decisioni e la ratio di questo regime che, ricordiamolo, è unicamente quella di recidere i legami fra un individuo e la sua organizzazione criminale.

Prima di addentrarci nelle massime del diritto, è bene chiarire un paio di punti per le persone non esperte in materia, in modo da avere contezza delle dimensioni del fenomeno di cui stiamo parlando. I casi che riportiamo, infatti, sono tutti passati dalla Corte di Cassazione, cioè la Corte suprema e di ultima istanza dell’ordinamento italiano, composta da circa un centinaio di magistrati (quelli che vestono quelle sobrie stole di ermellino all’apertura dell’anno giudiziario, per intenderci).    

Il ricorso per Cassazione ha sempre avuto parametri stringenti per poter essere presentato. Questi parametri si sono ulteriormente ristretti negli ultimi anni. Ciò è avvenuto sia de jure, attraverso riforme che ne hanno limitato o quasi escluso l’utilizzo per alcune forme processuali (è il caso, ad esempio, dell’inammissibilità dei ricorsi personali; così come, salvo poche eccezioni, è del patteggiamento), sia de facto, disincentivando il ricorso tramite un progressivo e inesorabile rialzo della quota che chi perde è tenuto a versare – attualmente varia fra i €3.000 e i €4.000. 

Questo parametro, peraltro, ci dà un’indicazione indiretta di quale sia il costo, anche monetario, di ogni sentenza, e quindi del lavoro dei massimi magistrati dell’ordinamento. I ricorsi poi, devono passare un primo filtro di scrematura istituito nel 2001 – la cosiddetta “settima sezione” –, che si preoccupa di far proseguire unicamente quelli che hanno più probabilità di essere accolti. Attualmente, quasi la metà dei ricorsi non supera questo filtro.

Insomma, i magistrati di Cassazione sono pochi e oberati, farsi anche soltanto ricevere da loro non è semplice; ancora meno che si pronuncino in senso favorevole.

La Corte costituzionale è invece composta da soli quindici giudici che decidono in forma collegiale. Sono tutti selezionati dalle massime istituzioni (Corti supreme della magistratura, Parlamento in seduta comune e Capo dello Stato), e costituiscono il massimo organo di garanzia costituzionale, oltre che l’unico tribunale in grado di giudicare il Presidente della Repubblica. Emette in media meno di 300 decisioni l’anno, fra sentenze e ordinanze, e vi ci si può rivolgere solo nel caso in cui delle leggi o delle sentenze contraddicano i dettami della Costituzione.

Ebbene, questi pesi massimi della giustizia italiana negli ultimi anni si sono riuniti a discutere e a legiferare anche attorno a determinati aspetti del 41-bis (i corsivi sono estratti direttamente dalle sentenze). Eccone alcuni esempi:

  • La Cassazione, giusto qualche settimana fa, è intervenuta su un ricorso del Ministero della Giustizia, avverso alla decisione del Tribunale di Sorveglianza, che aveva permesso a un detenuto di 35 anni di farsi scattare quattro foto all’anno con la figlia minorenne (presumiamo bambina, vista l’età del padre), purché dette foto fossero scattate in “pose composte”. La Cassazione ha dato ragione al Ministero; il diritto all’affettività sembrerebbe garantito con lo scatto di una sola foto all’anno.
  • Sempre sulle foto: proprio ad Alfredo è stata negata la possibilità di tenere in cella quella dei suoi genitori, entrambi defunti, perché mancava il riconoscimento della loro identità da parte del sindaco del loro comune di provenienza.
  • Dal 2011 al 2017, fino a che non intervenne la Corte costituzionale, vi fu un aspro dibattito giurisprudenziale fra Amministrazione Penitenziaria, magistratura di sorveglianza e Cassazione sul diritto o meno di abbonarsi e/o ricevere libri e riviste da parte dei detenuti sottoposti a regime di 41-bis. Per farla breve: al 41-bis non si possono ricevere né per corrispondenza, né tramite pacchi al colloquio. L’unico modo è sottoscrivere abbonamenti tramite l’amministrazione del carcere, o reperire i libri tramite le imprese che si occupano di approvvigionamento. Sembra in superficie una cosa di poco conto, ma chi conosce la realtà carceraria, le sue lentezze e farraginosità, sa bene che una decisione simile, specie per carceri con sezioni di 41-bis che sono spesso collocate in aree isolate, limita di molto l’accesso alla carta stampata. Inoltre, rimane pacifico che non si possono mantenere in cella più di 10 fra libri e riviste, per non ostacolare le operazioni di perquisizione. Ci fu un dibattito anche per capire se le carte processuali rientrassero o meno di questo numero.
  • A corollario dell’ultimo punto, il Tribunale di Sorveglianza nel 2020 concesse a un detenuto l’abbonamento a una rivista pornografica purché censurata delle parole (l’unico caso in cui si censura il testo e non le foto erotiche), richiamandosi al diritto alla sessualità. La Cassazione, accogliendo il ricorso del Ministero della Giustizia, negò però questa possibilità, sostenendo che “l’autoerotismo esula da questo tipo di problematica”.
  • Sempre la Cassazione, nel 2019, accolse il ricorso di un detenuto che lamentava che l’ora di studio in biblioteca gli veniva conteggiata come ora d’aria, e quindi sottratta alle sole due ore a cui si ha diritto in questo regime. Forti di questo pronunciamento, altri detenuti provarono a scorporare del tutto le due ore disponibili per la socialità o per lo studio da quelle d’aria, pensando che la sentenza ritenesse le due ore d’aria diritto incomprimibile quanto lo studio. Persero il ricorso. Se passeggi due ore puoi studiare un’ora, non di più.
  • Nello stesso anno la medesima corte è dovuta intervenire per dirimere una questione pungente. Posto che l’ingresso di beni è fortemente limitato dalla carcerazione in generale, e che il detenuto in 41-bis può avere contatti al massimo con altri tre detenuti, può questi scambiarsi degli oggetti con questi tre? L’amministrazione penitenziaria pensava di no, ma la Cassazione, sollevando dubbi di costituzionalità, sostenne che: “sembra difficile che il perpetuarsi di gerarchie criminali venga attuato tramite scambi di caffè o sapone”. La Corte costituzionale convalidò questa impostazione garantista.
  • Il problema dello scambio di oggetti si era venuto a creare per via di un’altra questione riguardante il cibo, che sempre la Corte costituzionale affrontò nel 2018. L’Amministrazione Penitenziaria riteneva infatti che per le persone detenute in regime di 41-bis non fosse possibile acquistare tutti i cibi normalmente disponibili per i detenuti, ma che si dovessero limitare a quelli consumabili crudi o precotti e surgelati. L’uso del fornello a gas era ammesso quindi solo per fare il caffè, oppure per scaldare cibi precotti. Questo per “evitare al detenuto acquisti di qualità e quantità tali da mostrare o imporre il suo carisma criminale”. L’iniziale ricorso che scalò le gerarchie giuridiche partì da un detenuto che, per corroborarlo, fu costretto a presentare certificato medico per attestare un reflusso gastroesofageo peggiorato dalla sola alimentazione a surgelati. La Corte si pronunciò a favore, sancendo il diritto costituzionale a cucinare la pasta.
  • Ma non finì qui. Infatti, solo tre anni dopo, la Cassazione dovette intervenire perché un carcere, pur recependo la norma costituzionale, permetteva di cucinare solo in determinati orari. Perché? Nessuno lo sa. Ad ogni modo, il Tribunale Supremo decise per l’illegittimità delle restrizioni orarie. Il ragù deve andare per molte ore, a fiamma bassa.
  • Oltre a questi casi, ci sono poi notizie di divieti e regolamenti, spesso specifici di un singolo carcere, che non arrivano a ledere diritti costituzionali. Pertanto, non abbiamo la fortuna di avere sentenze in merito. Se così non fosse, avremmo fini giuristi che si interrogano sul numero adeguato di capi di biancheria, sul divieto di portare i sandali prima del 21 giugno, o di indossare capi “firmati”. In particolare, avremmo voluto leggere la circolare ministeriale, basata su una commissione apposita che si riunisce a cadenza triennale, che sancisce quali sono i vestiti alla moda e quali no.

In ultimo, e passando a cose meno facete ma non meno grottesche, l’anno scorso la Corte costituzionale dovette pronunciarsi sulla legittimità o meno di sottoporre a censura la corrispondenza tra il detenuto in regime speciale e il proprio difensore. La censura postale è la norma al 41-bis, ma evidentemente qualche direzione iniziò a imporla anche a quella con gli avvocati. La comunicazione a mezzo posta sembra ormai il residuo di un’era passata, ma in carcere è ancora la forma principale di comunicazione con l’esterno. La stessa cassazione, nel 2021, rilevava infatti come le telefonate con l’avvocato dal 41-bis, sebbene in teoria illimitate nel numero, siano estremamente disagevoli. Il detenuto al 41-bis, infatti, non può chiamare lo studio dell’avvocato dal telefono di sezione, come gli altri detenuti in regime ordinario. Deve presentare domanda in forma scritta al carcere, il quale contatta il carcere più vicino allo studio dell’avvocato. Quest’ultimo deve poi prendere appuntamento per ricevere la chiamata dai locali del carcere stesso. Occorrono probabilmente tra i 5 e 7 giorni lavorativi per prendere appuntamento, oltre che un avvocato disposto a sacrificare – o farsi pagare – mezza giornata per una telefonata. Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiarava del tutto illegittima la censura della corrispondenza legale.

Per capire un po’ qual è il clima culturale quando si parla di 41-bis, valga ad esempio il titolo con cui si apriva il Fatto Quotidiano il giorno dopo questa sentenza della Corte: “geniale, così i boss potranno ordinare stragi e omicidi per lettera”.

Chi scrive è piuttosto convinto che un apparato così pervasivo, e organizzato a livelli tali da potersi occupare degli orari in cui vengono cucinati i pasti o di destinare delle forze per ritagliare Playboy, abbia tutte le possibilità e le competenze per leggere comunque ogni tipo di corrispondenza anche senza censura formale. Ma non è questo ciò che colpisce. A colpire è l’associazione che viene implicitamente fatta, e cioè che l’avvocato di un criminale non può che essere a sua volta un criminale, o quantomeno una persona contigua all’ambiente. 

La Chiesa Cattolica, nella sua infinita saggezza quale istituzione più longeva d’Europa, ha garantito per mezzo millennio a Satana un rappresentante nei processi di beatificazione, il famigerato avvocato del diavolo. La cultura giustizialista non sembra invece volersi avvalere di alcun contraddittorio dopo l’emissione del mandato di cattura. Una sorta di dogma di infallibilità – oltre che di assoluta probità – dell’inquirente. 

Giova forse ricordare che proprio il processo sulla strage di via d’Amelio, l’attentato in cui fu ucciso Paolo Borsellino e la sua scorta e all’indomani del quale il 41-bis venne stabilizzato nell’ordinamento, fu sostanzialmente una farsa, in cui gli avvocati dei difensori non ebbero alcuna voce in capitolo. La loro presenza serviva per dare regolarità al processo, nulla più. Alcuni di quegli imputati furono tra i primissimi ospiti delle nuove sezioni del regime di carcere duro, e si scoprì dopo oltre 15 anni che con quell’attentato non avevano nulla a che fare.

Quando si creano degli strumenti di potere senza contrappesi di garanzia, si può pur star certi che ne seguiranno degli abusi, a meno di non voler sposare, come sembra fare il Fatto Quotidiano, la linea del buon amico dell’Italia Recep Erdogan, che nel 2015 pensò bene di passare dalle parole ai fatti arrestando un avvocato di alcuni imputati del PKK perché aveva dichiarato a mezzo stampa di non credere che l’organizzazione fosse da ritenersi terroristica.