IL 41 BIS È NUDO – Atto II: La tragedia

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Seconda parte del piccolo viaggio in alcune figure del teatro politico-giuridico dei nostri tempi. Quando si parla delle conseguenze catastrofiche di una certa idea della vita, non la si cala quasi mai nella sua quotidianità. Quanto ci sembra distante da noi, ancorché deprecabile, il riferimento teologico di un ministro a consolidamento dell’ergastolo ostativo. Eppure, quell’inferno che “esiste, ma tende a svuotarsi” con il pentimento – come ebbe a dire di recente in un’intervista Carlo Nordio – è qualcosa di anche troppo familiare. Benjamin parlava di un’inferno che non ci attende, perché è già qui. La realtà rugosa del 41 bis e delle notizie di questi giorni è un altro modo per ricordarselo.

Forse non tutti sanno che…

Il regime di 41-bis viene chiamato spesso di “carcere duro” nei media. Cosa che in effetti è, come abbiamo cercato di mostrare nella prima parte. Ma il suo essere “duro” non è, o almeno non dovrebbe essere, il punto di tale particolare regime detentivo. Nell’accesissimo dibattito attorno al caso Cospito, molti commentatori hanno rammentato che il 41-bis non serve a vessare i detenuti, ma a recidere i legami con l’organizzazione di appartenenza. Persino quotidiani solitamente forcaioli o personaggi come Caselli si sono interrogati sul senso di tutte le inutili norme opprimenti che nulla hanno a che fare con il fine del dispositivo (astenendosi, beninteso, dall’esplicitarle), e che anzi ora stanno dando un solido appiglio ai loro critici, facendo tremare la struttura del 41-bis stesso, e forse anche il governo…

Guardando ancor più da vicino le norme che hanno istituito questo regime, abbiamo potuto constatare come nel 41-bis, fin dalla sua nascita, si siano concretizzate tutte le fobie di un potere isterico e che sembra molto istruttivo riprendere e analizzare con calma.

L’articolo 41-bis dell’Ordinamento Penitenziario, infatti, non ha per titolo “carcere duro” o “norme per la rescissione dei legami fra consociati in associazioni a delinquere”, né istituisce alcunché al suo interno. Il titolo dell’articolo è, sorprendentemente, “Situazioni di Emergenza”. Com’è noto, fu approntato come decreto subito dopo la strage di Capaci, e convertito in legge dopo quella di via d’Amelio, cioè al culmine della strategia stragista della mafia corleonese. Quindi in quella che senza dubbio fu una conclamata fase emergenziale. Non è questa la sede per tornare sulle intricate vicende che si portarono via la Prima repubblica insieme a Tangentopoli: limitiamoci a osservare come il regime di detenzione di cui all’articolo 41-bis sia una perfetta cartina tornasole di uno dei più utilizzati arcani imperii che ha a disposizione lo Stato; l’emergenza che si tramuta in normalità, anzi in norma del codice.

Su queste pagine siamo spesso tornati sul meccanismo socio-politico fondamentale dell’emergenza, cioè su come la potenza del quotidiano e delle vite che devono scorrere tenda a mettere in ombra la costruzione stessa della normalità. In altre parole: la somma delle decisioni-già-prese diventa lo schema secondo cui il presente deve adattarsi senza poterle più mettere in discussione. Modificare le decisioni, i modi di fare, di agire e di pensare è infatti una procedura quantomai onerosa per tutti gli aggregati umani, così come per gli individui che li compongono. L’emergenza crea un’accelerazione, in senso securitario, di questa possibilità di modifica. 

Sulla scorta del pericolo, la domanda di sicurezza sale istantaneamente, e le strutture di potere, specie quelle più conservative come il potere giudiziario, si fanno sempre trovare pronte con un’offerta adeguata a gestire la domanda. Sembrerebbe, parlando in termini economici, un mercato perfettamente elastico. Ma non se il prezzo è la diminuzione dei gradi di libertà collettivi e individuali che simili domande ci fanno pagare.

È un meccanismo che tutti gli stati conoscono bene, ma che l’Italia ha praticato forse più di altri. Numerose, infatti, sono le norme approvate con il consenso (o forse il mancato dissenso) della popolazione, che poi il trascorrere inesorabile del quotidiano ha eternato nei codici, facendo dimenticare (o peggio: facendo anche dimenticare di aver dimenticato) il fatto che fossero delle decisioni politiche situazionali. Così, il temporaneo diventa eterno, una somma di decisioni-già-prese, per l’appunto, che si presentano al quotidiano così difficili da mettere in discussione (figuriamoci da cambiare effettivamente) che assumono immancabilmente la figura del necessario e del doveroso; dell’ineludibile emergenza.

Tornando all’articolo 41-bis, “Situazioni di emergenza”, vediamo come esso racchiuda tutto questo in poche frasi. Non ci stupirà a questo punto leggere, al secondo comma, questa frase: Il mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa.

Il legislatore sta indicando come valutare la sussistenza dei legami con l’organizzazione criminale, che ovviamente devono essere attuali per mantenere un detenuto in un simile regime. Ma subito chiarisce che lo scorrere del tempo non ha nulla a che fare con l’attualità dell’emergenza. A nostra memoria, questa frase segna probabilmente il momento di verità più alto dell’esercizio del potere in Italia.

Facendo convolare a nozze l’emergenza con l’eterno, gli apparati di potere stipulano una sorta di polizza sulla vita delle misure più repressive. Ma non solo: escludendo lo scorrere del tempo dalla decisione di un giudice che un domani dovesse decidere sulla concreta pericolosità di una persona, si arriva a un ribaltamento dell’onere della prova. 

Se infatti si riesce a portare una persona al 41-bis (e la storia di Alfredo ci dimostra che non è così difficile), lo si sarà provato una volta e per sempre. Non bisognerà più aggiornare le motivazioni, dato che il tempo risulta inifluente. A questo punto, starà in capo al detenuto dimostrare di non avere legami all’esterno, ovvero dimostrare quello che non c’è. E come si ottiene nel concreto una tale prova? La storia su questo punto parla in maniera piuttosto esplicita; la delazione e l’abiura.

Il legislatore di uno Stato di diritto moderno sa benissimo che tali fini non sono compatibili con la superiorità morale di cui lo stesso Stato si presume essere portatore, e infatti nessun legge “normale” ha mai indicato nero su bianco queste cose. Altra cosa è invece la pratica che gli apparati di Stato non hanno mai cessato di utilizzare a questi fini, pur senza poterlo formulare in termini giuridici. Opera qui il meccanismo del silenzio, della non discussione, al fine di normalizzare l’eccezione come somma di decisioni-già-prese.

Ma questo meccanismo non è sufficiente di fronte a una tale, patente, violazione delle norme liberali che dovrebbero garantire la superiorità morale di cui sopra. Ecco quindi intervenire un altro classico attrezzo del dominio narrativo a mezzo stampa: la mostrificazione. In questo, la mafia corleonese ha eccelso, compiendo un tale numero di crimini, e talmente abbietti, che nessun giornale ha fatto alcuno sforzo a far coincidere la figura del mafioso e quella della belva. Facendo così dimenticare il tessuto socio-economico e politico in cui tale organizzazione ha prosperato, e dando adito all’idea che la pura repressione militare sarebbe valsa a vincere il fenomeno.

Specularmente, abbiamo assistito a una vera e propria corsa, da parte di individui e organizzazioni, all’appellativo di “anti-mafia”, quale etichetta che garantisce una libertà di azione e, quel che più importa, di aprioristica incriticabilità.

In questo modo, l’ambito di utilizzo del 41-bis si è nel tempo espanso, raggiungendo un valore simbolico. Questo è l’unico reale motivo per cui Alfredo si è ritrovato sottoposto a questo regime. In effetti, anche a volerlo credere l’ispiratore di un qualche tipo di internazionale nera, tutti gli scritti presi a pretesto della sua pericolosità sono passati attraverso la posta ordinaria del carcere. L’applicazione della censura, in questo senso, sarebbe stata sufficiente alla repressione. Censura a cui è effettivamente stato sottoposto nei primi tempi successivi al suo arresto, e che è applicabile sia nel circuito dell’alta che in quello della media sicurezza, cioè quello ordinario, a cui è sottoposto oltre il 90% dei detenuti.

Nessuna esigenza di sicurezza di cui all’articolo 41-bis è in alcun modo riconducibile alla sua situazione concreta. Prova diretta ne sono i 10 anni passati in detenzione in alta sicurezza, molti dei quali senza censura, che non sembrano abbiano visto una particolare recrudescenza di azioni o di unità del movimento anarchico, anzi… E, dato che Alfredo non avrebbe nemmeno astrattamente qualcuno di cui fare i nomi, la sola reale esigenza del 41-bis è quella simbolica, cioè la volontà di spegnere un personaggio estremamente tenace nelle sue convinzioni pur essendo gestibilissimo in altre condizioni.

In definitiva, la reale parte tragica di questa vicenda è che l’apparato inquisitorio costruito attorno al 41-bis ha deciso di colpire simbolicamente una persona, svelando i reali fini di una simile pratica carceraria. Nulla di più di una nuova edizione aggiornata dei vecchi ferri incandescenti con cui si estorcevano confessioni e abiure.