AI BLOCCHI DI PARTENZA

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La critica ad un’istituzione, qualunque essa sia, non può che partire dalla sua storia. Quali sono i meccanismi e i procedimenti che l’hanno portata a presentarsi come imperativa, a mistificarsi come necessaria, a mostrarsi come l’unico sviluppo possibile di una storia lineare? Alcuni appunti per affrontare il carattere costruito delle realtà che si presentano come eterne, in attesa di avere l’occasione per smontarle pezzo a pezzo.

Tutto ciò che c’è c’è già,

allora nei miei pezzi che si fa?

Renderò possibile l’impossibile

fino a rendere possibile la realtà.

Tempi difficili

È innegabile che oggi chi abbia a cuore la causa dell’emancipazione sociale non si trovi attualmente in una posizione di forza nella società. Gli sparuti gruppi rivoluzionari si trovano sovrastati dalla logica ineluttabile del realismo capitalista da una parte e dalle istanze identitarie e reazionarie dall’altra. La prima logica è l’espressione culturale dell’asservimento totale della politica ai flussi dell’economia capitalista, il cui massimo progetto si sostanzia nella modificazione di territori, relazioni produttive e sociali, istruzione, cultura e tempo in una forma che renda tutti gli aspetti della vita umana più funzionali al loro inserimento nei flussi dell’economia globalizzata. Il non detto di queste politiche, che si presentano nel dibattito pubblico tanto di destra come di sinistra o di centro, risiede nella segreta speranza di riuscire a stare dalla parte “giusta” dei flussi, di essere sufficientemente presentabili per essere ammessi dai buttafuori del neoliberismo all’esclusiva ed escludente festa dell’abbondanza materiale (un party in fin dei conti abbastanza triste, ma comunque giudicato preferibile alla miseria che lo circonda). –Solo chi è ricco si può permettere il biglietto-.

La seconda istanza vorrebbe in realtà partecipare al medesimo party, ma vorrebbe sostituire gli eleganti e palestrati buttafuori con poliziotti in divisa a guardia dei confini nazionali della festa. –Solo chi è come noi si può permettere di essere ricco-.

I sostenitori della prima logica sono intrisi di un’etica lavorista, propria dell’animo protestante dello spirito del capitalismo, che li porta a fare sermoni sul duro lavoro e sull’inevitabilità di correre per non perdere il treno del progresso.

I sostenitori della seconda non si sognano di mettere in discussione l’utilità di questa corsa, ma piuttosto vorrebbero che le posizioni di vantaggio ai blocchi di partenza siano assegnate per diritto di sangue. In questo modo i “nostri” sfruttati potrebbero finalmente far valere l’unico reale vantaggio competitivo a loro intrinseco: essere bianchi. Certo, all’interno di questa logica coesistono posizionamenti distinti. Coloro che si sentono più a sinistra parlano meno del candore della pelle e insistono piuttosto sull’integrazione linguistica e culturale. Chi invece si posiziona in termini assai più reazionari oltre alla specifica di bianco gradirebbe aggiungere anche quella di etero e/o di maschio e/o di abile (sia nel fisico che nella psiche) e via discorrendo a seconda del grado e della specie di devianza dalla norma che si è disposti a (non) tollerare.

Fra le fila di chi si ostina ancora nel sogno della sovversione del presente vige una certa confusione di fronte ad una situazione politica che sembra premiare unicamente narrazioni autoritarie, escludenti e populiste. Le lacerazioni politiche e umane che abbiamo vissuto negli ultimi tempi hanno indebolito la nostra azione nel presente e non hanno nemmeno portato in dono (almeno come effetto secondario) una presunta chiarezza sull’identità, sui soggetti e sui metodi che dovrebbero orientare le pratiche di lotta.1 È di più. Sembra che le analisi proposte dal milieu militante fatichino tremendamente nel necessario e basilare compito di fornire una chiara lettura del presente e delle sue dinamiche storiche e sociali.

Intenzioni

Non si pensa certo qui di dar risposta ai problemi appena elencati, non a questo serve la critica, non a questo serve il lavoro intellettuale, ormai dovrebbe essere chiaro. I testi che con arroganza proponevano soluzioni nitide e semplici da applicare a qualunque contesto e abbastanza cool da poter essere citati ad ogni piè sospinto hanno rapidamente esaurito la loro capacità di accendere gli animi e il loro linguaggio barocco e tagliente ha spesso impedito la dialettica sia con altri orientamenti, sia (cosa ben più grave) con la dura e impietosa realtà dei fatti. Ciò che si vuole proporre è piuttosto un tentativo di risalire il fiume della politica prima che esso si scomponga in mille rivoli metodologici, ideali e pratici. Attenzione, chi scrive non è un sostenitore dei fronti popolari, delle grandi coalizioni e delle grosse ammucchiate. Non si tratta qui di proporre una Grande Teoria dal sapore novecentesco capace di far serrare i ranghi di fronte al nemico sorvolando su qualsivoglia differenza d’approccio. Si cerca, piuttosto, di ricercare una visione minima, e non totalizzante, della realtà sociale e trarne un paio di indicazioni etiche e pratiche.

Per chiarire ulteriormente le intenzioni di questo scritto si potrebbe dire che la sensazione che ha portato alla sua stesura è quella data dal fatto che le molte etichettature politiche e identitarie con cui gruppi e persone tentano di definirsi siano, in fin dei conti, risultate poco utili a suggerirci con chi dovremmo allearci e con chi no. Le categorie politiche, basate spesso sull’identificazione con una particolare teorizzazione, non hanno conseguito il risultato sperato: il ritrovarsi identici ad altre persone che dicono di sé essere appartenenti alla medesima categoria. Spesso anzi, ma la sensazione rimane ad un livello personale, ci si è ritrovati identici o comunque più affini ad altri che utilizzavano categorie diverse. Le fratture politiche, sempre più atomiche, a cui si è assistito sembrano confermare questo minore potere definitorio delle categorie identitarie della politica.

È necessario ribadire che non si pensa di aver trovato una nuova teoria unificante o una nuova teoria identificante, speculare alla prima. L’esercizio teorico che segue è di natura diversa e nemmeno si pone sul piano della politica. Se proprio volessimo etichettare la natura di questo testo, e il livello a cui si pone, sarebbe più opportuno classificarlo come epistemologico o di una visione della realtà sociale che sottintende i diversi approcci teorici e politici che cercano poi di modificarla. Esplicitando la posizione epistemologica che, più o meno consciamente, assumiamo e qui proponiamo ci ritroveremo, una volta ridiscesi nel politico, a guardare le identità con altro occhio. Forse metteremo in discussione delle alleanze, forse ne ricercheremo delle altre. In ogni caso se la lettrice o il lettore avranno la pazienza di arrivare in fondo a questo scritto e si interrogheranno sulla propria identità e sui modi in cui essa viene definita, allora il testo avrà ottenuto il suo obbiettivo: la costruzione di una visione della realtà sociale e, dunque, una maggior chiarezza del nostro ruolo al suo interno e di quello degli altri.

Non ci proponiamo di distruggere ogni tipo di discorso intorno alle identità, che rimane comunque il principale motore di mobilitazione sociale tanto singola come di gruppo. Ci proponiamo piuttosto di ridefinirlo a partire da considerazioni sulla visione della realtà sociale che precedono il formarsi delle identità e della proposte politiche ad esse collegate.

Costruzioni

1. Da dove deriva la necessità del costruire cultura?

Non sappiamo con esattezza né dove, né quando né tanto meno perché, ma ad un certo punto della sua storia l’essere umano ha cominciato a produrre una tecnica molto peculiare per garantirsi la sopravvivenza che abbiamo chiamato cultura. A differenza infatti di tutti gli altri mammiferi complessi, l’essere umano si è insediato stabilmente in quasi tutte le terre emerse (ad eccezione dell’Antartide), e la sua relazione con l’ambiente non è spiegabile unicamente tramite le sue caratteristiche biologiche. La nostra specie non possiede rilevanti strati di grasso o spesse pellicce per difenderci dal freddo, non abbiamo zanne o artigli particolarmente acuminati, né siamo particolarmente veloci in terra o in acqua. In sostanza possiamo ben dire che in una competizione di sopravvivenza, e dotati unicamente del nostro corpo, non saremmo degni avversari di nessuno dei mammiferi terrestri.

L’umano, così duramente esposto alla nuda vita, ha dovuto trovare altre strategie2 per dare stabilità alla sua esistenza. La cultura, intesa come il complesso di idee e artefatti costruiti dall’essere umano, è il mezzo con cui questa particolare specie si è garantita la sopravvivenza ed essa rappresenta anche lo strumento con cui si interfaccia alla realtà naturale. La relazione fra singolo e ambiente negli altri mammiferi è mediata unicamente dal corpo, per l’umano è principalmente la cultura ad essere il medium di questa relazione.

2. Come costruiamo la cultura?

L’accesso alle risorse necessarie alla sopravvivenza è dipeso assai più dalla tecniche di caccia e raccolta prima, e da quelle di agricoltura poi, che dalla velocità del nostro corpo o dalla forza del nostro morso. Per quanto esistano delle differenze biologiche fra gruppi etnici, e quindi sussista una base biologica determinante per il nostro agire sul mondo, l’immensa variabilità culturale dei gruppi umani sembra suggerire che sia questo lo strumento dirimente per il nostro vivere. Se è vero che esiste una natura umana (in senso strettamente biologico) pare assai più interessante e pregno di rilevanza dire che l’umano ha costruito la propria natura tramite la cultura. In termini più immediati: le popolazioni del circolo polare artico hanno imparato a fabbricarsi pellicce tramite tecniche di caccia e di sartoria, non hanno sviluppato una pelliccia sul loro stesso corpo. La cultura, tuttavia, presenta delle peculiarità rispetto agli altri metodi di sopravvivenza, peculiarità che cercheremo di sintetizzare per sommi capi.

Se diciamo che l’ordine sociale non è dato, cioè non è derivante in unica misura dalle caratteristiche biologiche, allora ci dobbiamo chiedere come esso sia venuto creandosi nello scorrere dei secoli. Con l’andare del tempo la cultura viene oggettivata per via dell’intrinseca abitudinarietà dell’azione umana. Ogni azione che viene compiuta frequentemente finisce infatti per cristallizzarsi secondo uno schema fisso che tendiamo a seguire per ragioni di economia di sforzo. Il ricondurre un’operazione ad uno schema fisso porta con sé l’indubbio vantaggio di ridurre le scelte possibili e di poter sperare in un determinato risultato. Per intendersi: di fronte al problema –come si fa la massa per la pizza- chi non l’abbia mai preparata ricercherà delle ricette a cui attenersi, cioè si farà condurre dall’esperienza altrui cristallizzata per l’appunto in un preciso oggetto culturale, la ricetta. In via teorica le modalità per la preparazione di una massa lievitata sono moltissimi; si potrebbero sperimentare vari tipi di lievito, di farina, di liquidi con cui amalgamare e si potrebbero anche sperimentare vari luoghi, tempi e temperature di lievitazione e combinarli fra loro in un ventaglio di centinaia o migliaia di ricette diverse. Per quanto tutto questo sia effettivamente possibile non è molto pratico. A meno di non essere un pizzaiolo devoto alla sua professione che ricerca il lustro della terza stella Michelin da apporre al suo ristorante, l’immensa quantità di esperimenti falliti dovuta a masse poco lievitate, pesanti, troppo salate, troppo poco salate, di brutto colore, spiacevoli al gusto, ecc… risulta troppo onerosa in termini di risorse per chi volesse semplicemente cucinare una pizza. Per questo motivo di risparmio delle risorse cognitive, temporali ed economiche noi ci lasciamo guidare (nel campo della preparazione della pizza come in moltissimi altri) dalla sommatoria di decisioni-già-prese da qualcun altro in qualche altro luogo (o meglio da altri in altri luoghi). Queste decisioni-già-prese o cristallizzazioni di azioni ci permettono di avere uno sfondo stabile per la nostra condotta, sollevandoci dall’impossibile compito di dover mettere tutto in discussione ogni volta che abbiamo a che fare con un oggetto culturale; a prescindere dal fatto che esso sia la preparazione di un cibo, la redazione di un contratto di locazione, la contrazione di un matrimonio, lo svolgimento di un rito o l’esistenza del diritto di proprietà che mi assicura il possesso di un oggetto. L’abitualizzazione elimina la necessità di dover definire ogni volta da zero la situazione in cui mi trovo ad operare. Conoscendo ciò-che-è-già-stato io posso anticipare, con un buon margine di probabilità, quello che accadrà e valutare quindi anche le alternative di condotta e/o liberare le risorse per delle decisioni che io debba trovarmi a prendere in situazioni specifiche.

3. Istituzioni

Le cristallizzazioni dell’agire, se sono sufficientemente condivise da una comunità, si trasformano in istituzioni. Da questo punto di vista possiamo definire le istituzioni culturali come cristalli di decisioni-già-prese che prescrivono una determinata condotta da tenere da parte di una determinata persona in una determinata situazione; esercitano cioè un controllo sui comportamenti delle persone all’interno di una comunità. Ad esempio, se una comunità, dopo svariati tentativi ed insuccessi, trova un modo efficace per coltivare l’uva da vino nel suo territorio, allora quel metodo -così faticosamente scovato- verrà ripetuto e tramandato. Se è un buon metodo3 troverà diffusione e accettazione ed è probabile che altri metodi alternativi vengano abbandonati. Le modalità di coltivazione saranno trascritte per essere apprese, tramandate e conservate più agevolmente e in maniera duratura. Da lì in poi chi vorrà vinificare in quella regione consulterà le pagine che contengono le istruzioni di quel metodo o se lo farà raccontare da qualcuno che lo abbia già appreso. Le decisioni-già-prese acquisiranno così un potere prescrittivo sulla condotta individuale, scoraggiando gli esperimenti e uniformando le condotte alla propria regola. In epoca moderna, volendo rimanere sul nostro esempio, la somma delle condotte da tenere per produrre quel vino di quella zona sono state persino inserite in regolamenti piuttosto precisi e dettagliati che impongono tutta una serie di condotte per far sì che il nostro prodotto sia conforme all’antica regola, potendosi fregiare così del titolo (e della maggiore vendibilità) che il marchio D.O.C. garantisce.

Attraverso la ritualizzazione dei comportamenti noi semplifichiamo il susseguirsi caotico dell’esperienza, e possiamo procedere alleggeriti dalla necessità di valutare volta per volta, caso per caso, l’adeguatezza dei nostri comportamenti. Le istituzioni (il modo di vinificare un certo vino, il matrimonio, l’abilitazione ad una professione, un modo di vestire) hanno dunque una storia di cui sono il prodotto. Dietro ogni regola e regolamento c’è una storia, più o meno lunga, di esperimenti, di conflitti, di mediazioni, di interpretazioni e routine che ha portato quell’istituzione, quella regola ad essere ciò che è oggi. Non esistono istituzioni senza storia, così come non esistono oggetti senza prima un processo di fabbricazione.

Ma questa Storia non è direttamente visibile. La necessità dell’istituzione è proprio quella di delimitare l’insicuro, di fornirci una guida nel caoticità della vita. Le istituzioni si presentano a noi come durature nel tempo e imperative nel modo che ci prescrivono di comportarci. Se non credessimo che fossero durature la persona singola non avrebbe un orizzonte sicuro per potervi inscrivere la proprio biografia. Chi mai sottoscriverebbe un contratto se non credesse nella durabilità dell’istituzione che si fa garante degli adempimenti ed obblighi in esso contenuti (cioè lo Stato)? E chi mai prenderebbe sul serio le distinzioni e le classificazioni che propone un istituzione, poniamo quella giuridica, se le categorie di reato/vittima/colpevole/innocente/fattispecie fossero costantemente messe in dubbio da un’altra classificazione ad essa alternativa?

La forza delle istituzioni sta nel presentarsi a noi come dati di fatto senza storia e senza ambiguità di sorta, un porto sicuro, un faro da poter seguire sempre nella nostra burrascosa, fragile e breve traversata dell’infinito mare dell’essere. Per questo, per salvaguardare cioè l’imperatività e l’illusione della durabilità, le istituzioni non possono che presentarsi come naturali e necessarie, perché la coscienza che esse non siano che il prodotto di un processo di costruzione ne svelerebbe la natura artificiale e convenzionale. Ciò che è doveroso e necessario non può essere messo in dubbio ed esporsi alla critica, pena la sua inefficacia. Se cerco delle guide per il mio comportamento mi affiderò a ciò che è ovvio, naturale ed autoevidente, e lo è in quanto già stato, in quanto intere generazioni di miei simili hanno fatto quella cosa così. È perciò attraverso la routinizzazione, l’abitudinarietà, la ritualità e per il principio di economia pulsionale del soggetto che la storia della formazione di questi cristalli di decisioni-già-prese viene dimenticata, allontanata dalla coscienza. Non solo. Per essere davvero efficace questo processo di rimozione non deve solo cancellare il percorso che ha portato alla costruzione di un oggetto culturale, ma anche cancellare la rimozione stessa. Un oblio dell’oblio, un dimenticare di aver dimenticato; così come un fuggiasco che si trovi a correre in un campo innevato si premura, non solo di cancellare le sue orme lasciando così i segni della cancellatura, ma anche di far apparire quel campo intonso, come se nessuno mai ci avesse cancellato qualcosa, meno che mai delle orme.

Diventa piuttosto evidente, giunti a questo punto, come la critica ad un’istituzione non possa partire che dalla sua Storia, cioè dal percorso che l’ha portata ad essere quello che è così com’è. In primo luogo ci si potrebbe chiedere: quali conflitti, nascondimenti, mediazioni, convenienze e convenzioni hanno fatto sì che essa si presentasse a noi in tutta la sua (apparente) imperatività e durabilità? In secondo luogo: qual’è la funzione svolta da essa? Quali interessi serve? In terzo luogo: come potrebbe essere andata altrimenti? Potrebbe essere diverso da com’è oggi

4. Linguaggio e Discorso

Una delle forme più arcaiche di istituzione, probabilmente la prima ad essere sufficientemente stabilizzata attraverso la ritualità, fu quella del mito. I nuclei più stabili di questi racconti si sono tramandati per innumerevoli generazioni (routinizzati) descrivendo forme primordiali di comportamento, gli archetipi, che mantengono ancora oggi la propria valenza euristica. Il mito è quindi un costrutto umano che fa da filtro fra gli stimoli della natura e la necessità di operare in essa, fornendoci degli strumenti cognitivi ed esperienziali necessari. In questo non è dissimile da tutti gli altri costrutti sociali, presenta infatti il medesimo funzionamento e le medesime funzioni. È però interessante notare come esso sia uno dei primissimi oggetti culturali costruiti dall’attività sociale degli umani, e che si sia formato in un tempo assai precedente all’invenzione della scrittura (almeno per i suoi nuclei più antichi). Questo è uno dei molti indizi che ci rileva quale ruolo fondamentale svolga il linguaggio nel processo di costruzione degli oggetti culturali. Qui troviamo il nucleo fondamentale dell’incessante produzione, riproduzione e modificazione dell’ordine sociale. Nulla è infatti più quotidiano del parlare, del raccontare ad altri la realtà intorno a sé e di riferirsi ad essa. Quando parlo io nomino degli oggetti (concreti o astratti che essi siano) e in questo modo produco un continuo, incessante flusso di parole che (altrettanto incessantemente) conferma l’orizzonte logico che condivido con il mio interlocutore. Infatti, senza un accordo precedente, per quanto tacito e di massima, sul cosa si intenda quando si nomina una determinata cosa la comunicazione risulterebbe impossibile. Enunciando la parola “libro” io ho la ragionevole certezza di credere che il mio interlocutore intenda un parallelepipedo di carta formato da fogli incollati con delle parole impresse. Anche se nella mia testa sto pensando ad un libro, e lei o lui ad un altro, riusciamo ad intenderci sull’oggetto della discussione. È così che attraverso il linguaggio noi creiamo e riproduciamo il nostro mondo, tramite cioè l’interminabile attività di nominare le cose.

Se questo appare scontato e ovvio per la parola libro, lo è assai meno per altri oggetti culturali come, a titolo d’esempio, i concetti di giustizia o libertà. Il linguaggio infatti non è mera etichettatura, ma piuttosto il principale cantiere dal quale vengono varati i concetti di una cultura. Se le parole fossero mere etichette, non ci sarebbe alcun bisogno di traduttori, interpreti e facoltà di linguistica. Noi potremmo apporre l’etichetta italiana di quella cosa, all’etichetta francese e tedesca ed avere così una perfetta traduzione. Ma lingue diverse corrispondono a culture diverse, e culture diverse interpretano il mondo in modi diversi. I campi semantici, cioè gli spazi dove risiedono i significati che diamo ad una parola, variano da cultura a cultura, da epoca ad epoca, da gruppo a gruppo e – in maniera minore – anche da persona a persona.

Ancora più importanti dei nomi che diamo alle cose, sono le relazioni con cui poniamo le cose fra loro. Ecco la funzione fondamentale del linguaggio per l’ordine sociale; l’attribuzione di ordini simbolici agli oggetti culturali tramite un’incessante attività di attribuzione di senso e relazione. Se infatti io mi riferisco alla guerra civile avvenuta in Italia fra il 1943 e il 1945 come “resistenza” sto dando un certo valore simbolico agli atti di guerra compresi in quel periodo. Se io chiamo quegli stessi atti “tradimenti” o “lutto nazionale” è evidente come stia attribuendo tutt’altro significato a quei medesimi atti. Stesso cosa vale per le associazioni fra immigrazione e delinquenza, fra tecnologia e utilità, fra razionale e progresso, fra fascismo e fogne, ecc…

Noi costruiamo la realtà sociale interagendo simbolicamente fra noi. Questa interazione costruisce sistemi di significato che filtrano la nostra percezione dei fatti in quanto tali e li dispongono secondo un determinato ordine, concorde coi nostri valori, conoscenze, capacità cognitive e comunicative. Lo scontro sociale ha nel linguaggio uno dei campi di battaglia principali. È in questo campo che l’ordine sociale si crea e si riproduce, ed è in questo stesso campo che si modifica. Il tutto tramite un’infinita attività di attribuzione di nomi alle cose, e di associazione di cose fra loro.

Conclusioni

Dopo questa trattazione dei meccanismi che sottostanno alla costruzione sociale della realtà possiamo riagganciarci alle intenzioni primarie di questo articolo per dare conto dell’utilità pratica e quotidiana di queste teorizzazioni. Per essere il più chiari possibile: se si è voluto insistere ed approfondire una tale tematica lo si è fatto non per amore dell’accademia, ma per intima e profonda convinzione che da differenti concezioni della società scaturiscano differenti posizioni etiche verso e contro di essa. La teoria dunque, ben lontana da essere cosa separata dalla realtà quotidiana, ci aiuta a chiarire e dare corpo alle nostre concezioni e ad orientarci nelle nostre scelte individuali e collettive così come quelle politiche ed organizzative. Vediamo prima di tutto le differenze fra queste concezioni ed altre esistenti nell’ambito delle posizioni politiche che vogliono e cercano una rottura con il presente.

Singolo o struttura?

Agli estremi teorici del campo politico anticapitalista si trovano due concezioni assai distinte fra loro per quel che riguarda la visione della società e del ruolo dell’individuo. Al di là delle molte sfumature esistenti possiamo dire che vi è una posizione di stampo individualista, particolarmente forte nell’ambito anarchico, ed una che pone l’accento sulla struttura discendente dal marxismo4. Per chi scrive entrambe presentano punti assai problematici che si manifestano nel momento in cui cercano di descrivere la società e i suoi mutamenti.

La concezione individualista, non riconoscendo l’enorme peso delle costrizioni strutturali, afferma che l’individuo abbia un’infinita gamma di possibili scelte d’azione a sua disposizione. Il fatto che ne faccio uso o meno dipende, in ultima istanza, unicamente dalla sua volontà. Le premesse di questa posizione sembrano suggerire che il mondo sia creato ex novo da ogni singolo individuo che ha in sé tutte le possibilità per agire in e (soprattutto) contro di esso. Come si è cercato di spiegare in precedenza la vita sociale non è creata dal nulla. Le persone devono attingere dalle strutture esistenti (morali, linguistiche, economiche, ecc…) per agire nel mondo, non esistendo alcuna tabula rasa nella società. Se è vero, come si è cercato di dimostrare, che le strutture sono precarie e che sarebbero potute essere diverse, ciò non significa che esse non siano esistenti e che per la loro stessa esistenza creino una forma di coercizione rispetto al singolo. Non è possibile abrogare il mondo solo con la propria volontà (né con la propria singola azione) dato che il mondo non è costruito unicamente dalla volontà o dall’azione di un singolo. È di più le volontà dei singoli, e i seguenti piani d’azione, non nascono dal nulla nel cuore e nella mente di una singola persona. La volontà, così come qualunque altra cosa possa venir in mente o fare un singolo sarà pesantemente influenzata da un’infinità di variabili socio-culturali che su esso agiscono. Negare questa evidenza non ci rende più liberi, ma solo più inconsapevoli.

D’altro canto la concezione strutturalista (che, a onor del vero, oggi non gode di ottima salute in campo anticapitalista) dalla quale discendono le posizioni più rigide del marxismo-leninismo non ci offre grandi alternative. Questa visione oggettivista delle dinamiche sociali adotta un’ottica meccanicistica della condotta umana riducendo l’attività del singolo ad una mera assunzione di ruoli e norme negandogli qualunque tipo di consapevolezza e potenzialità. Ignorare la capacità d’azione individuale significa negare il fatto che l’edificio sociale sia costruito con il contributo di singoli mattoni. Se è vero che un edificio è cosa ben diversa da un mattone, è vero anche che il primo non potrebbe esistere senza il contributo dei secondi. Specularmente alla concezione individualista questa visione non riesce a spiegare come sia possibile per le persone adottare scelte che contrastino con l’ambiente sociale di appartenenza e nemmeno come sia possibile che una certa parte della vita sociale sia realizzata da attori consapevoli.

È bene chiarire che le due posizioni prese ad esempio sono state declinate unicamente in campo politico antagonista, ma esistono moltissime altre declinazioni (molto più consistenti e diffuse oggigiorno) che, spesso inconsapevolmente, si basano su una visione strutturalista o individualista della costruzione della realtà sociale. Ricadono infatti nella visione solipsistica della società tutti quegli atteggiamenti e teorizzazioni propri dello sfrenato individualismo capitalista. L’ideologia lavorista dell’ hard work per citarne un esempio estremamente diffuso. L’idea del self-made-man ovvero che in questa società un singolo si possa fare strada basandosi unicamente sulle proprie forze e dedicandosi al 101% alla sua professione è una narrativa degli eventi sociali che vuole farci credere che l’organizzazione capitalista della società consenta anche al più indigente, all’ultimo dei diseredati, di diventare un tycoon, o quanto meno un imprenditore di successo. E questo a prescindere dalla sua provenienza, dalle sue risorse individuali e famigliari, dalle sue reti di conoscenza, dal suo genere, dalle suo orientamento sessuale, dalla sua provenienza etnica, dal suo stato di salute; in buona sostanza a prescindere da tutti i legami strutturali ai quali ognuna ed ognuno è costretto dalla nascita, anzi, per nascita. Questa espansione parossistica della responsabilità individuale ci porta, inevitabilmente, al punto in cui l’unica conclusione che si possa trarre rispetto ad una condizione di oppressione è che tale condizione non sia dovuta alle vergognose sperequazioni nella ridistribuzione delle risorse, ma piuttosto ad una precisa colpa della persona povera/emarginata/oppressa. Dimenticare le pesanti variabili strutturali e il loro peso sulle scelte individuali porta a formulare spiegazioni sulla natura dei rapporti sociali del seguente tenore: i poveri sono poveri perché ignoranti, le donne guadagnano meno perché meno preparate/brave nel loro lavoro, le carceri sono piene di stranieri perché delinquono di più, al sud si produce meno ricchezza, ecc… Tutte le precedenti affermazioni (e molte altre) possono tranquillamente trovare spiegazione all’interno di un discorso che comprenda in sé variabili di tipo storico, culturale e sociale fornendo così anche un ben più plausibile alternativa sulle cause (e quindi sulle responsabilità) di tali fenomeni.

Sul versante strutturalista troviamo delle declinazioni moderne assai variegate che, a detta di chi scrive, trovano una loro proliferazione dopo la caduta del muro e con il conseguente dispiegarsi dei flussi della globalizzazione in ogni angolo del pianeta. Il complottismo è uno degli esempi forse più noti. L’idea che ci sia un complotto di qualche consesso altolocato dietro pressoché ogni dinamica storica e sociale è figlia di una visione fortemente strutturalista della società. Bisogna avere una scarsissima considerazione di se stessi e delle proprie capacità organizzative per definire complotto il semplice atto di organizzarsi in comune accordo per il raggiungimento di un fine. Non aver contezza del fatto che ogni dinamica sociale, per quanto enorme, sia basata in ultima istanza sul contributo del singolo ci porta a valutare come inevitabile qualunque accadimento e ci traghetta, in definitiva, all’idea che siano sempre altri e sempre altrove che si decida sulle sorti dell’umanità. Il fatto che esistano gruppi di potere come il Bilderberg o la Commissione Trilaterale dovrebbe farci pensare a come siano abili, dall’altra parte della barricata, ad organizzare le loro volontà e progetti in gruppi di potere che sappiano poi realizzarli, e non già ad un gruppo di alieni che disegna le sorti dell’umanità in maniera ineluttabile. Purtroppo l’idea di organizzarsi congiuntamente per ottenere più potenza e capacità di dispiegare i propri fini è così negletta che molte persone non riescono nemmeno più a concepirla. È per questo motivo che quando vedono altri farlo interpretano questo organizzarsi come qualcosa di oscuro ed esoterico, ai limiti del paranormale.

Un altro esempio che ci può aiutare a spiegare le varie declinazioni della concezione strutturalista della società è la cosiddetta “Sindrome da Piazza Fontana”. Una malattia di cui sembra particolarmente affetta la sinistra italiana. In molte narrazioni di sinistra degli anni ‘60-’70 ci si scontra con dei nodi irrisolti che sembrano suggerire un certo grado di inevitabilità sul come andarono le cose. A seconda di chi proponga l’analisi ci si trova di fronte a degli accadimenti che sembrano far sparire ogni possibilità di volontà individuale e di agire singolo in autonomia rispetto a quelli che con ossequioso timore vengono chiamati i “Grandi Meccanismi della Storia”. In queste narrazioni il golpe in Chile, Gladio e -soprattutto- la strage di piazza Fontana diventano prove irrefutabili che comunque la rivoluzione non la si sarebbe potuta fare e se qualcuno ci credette un po’ troppo sul serio fu un ingenuo manovrato o, peggio, una consapevole pedina venduta alle forze reazionarie5. Questo modo di pensare ha gettato radici profonde nella sinistra, tant’è che ancora oggi, a distanza di mezzo secolo, ogni volta che un corteo si agita per colpa di qualche intemperante vestito di nero sono parecchi quelli che spiegano tali (e molti altri accadimenti) come effetto di un’opera di infiltrazione da parte delle forze di polizia in chiave provocatoria.

Gli esempi appena riportati sono di natura idealtipica, cioè astratti in purezza ideale rispetto alla realtà pratica e alle situazioni contingenti. Ciò non di meno ci aiutano a chiarire il nostro punto, ovvero quello di designare una visione epistemologica che sappia valutare al suo interno l’apporto del singolo e della sua volontà avendo riguardo però delle costrizioni strutturali a cui è soggetto.

Manca però di trattare un elemento chiave di questa concezione che risulta necessario per la teoria e la prassi che si vuole proporre, quello del potere.

Il potere

Il concetto di potere all’interno dell’antagonismo è spesso terreno di disputa fra posizioni politiche contrapposte fra chi (in estrema sintesi) ne teorizza la sua presa o piuttosto il suo abbattimento. Queste discussioni rappresentano il potere in maniera spesso molto imprecisa, o comunque con un grado di precisione del tutto insufficiente ad una discussione sul metodo che qui si propone.

Nella visione costruzionista della società appena descritta il potere acquisisce un significato peculiare e preciso che lo distingue da altre teorizzazioni. All’interno di questa visione il potere non ha un’accezione puramente oppressiva o negativa, ma anche abilitante. Come si è detto le strutture sociali sono sia precondizione che risultato dell’azione umana. Precondizione perché l’individuo attinge dalla struttura i mezzi per esprimere la sua azione, e risultato perché agendo l’individuo tende a riprodurre quelle stesse strutture. La lingua parlata ci offre un ottimo esempio che può aiutare a chiarire questo concetto. Per poter comunicare le persone attingono a delle regole di linguaggio e parlando quel linguaggio tendono a ricrearlo e confermarlo. Ora, qualunque lingua pone dei limiti strutturali alle capacità espressive della singola persona perché ogni lingua concepisce concetti, idee ed oggetti in un modo peculiare e mai esaustivo della totalità della realtà, quindi potremmo dire che la forma in cui ci esprimiamo ne limita il contenuto. D’altra parte è vero anche che il linguaggio ci permette di esprimerci ed è dunque anche abilitante e non solo costrittivo. L’assenza di linguaggio non crea un’astratta realtà metafisica in cui il contenuto si libera finalmente dall’oppressione della forma, ma solo mancanza di comunicazione e, quindi, anche assenza di contenuto.

Il potere è quindi connaturato ed intrinseco all’agire sociale, esso si definisce come la capacità di un singolo o di un gruppo d’intervenire causalmente negli eventi che producono e riproducono le strutture sociali. Il potere non è quindi un sinonimo di dominio, che indica piuttosto la piena potestà e arbitrio di qualcuno su qualcun altro o qualcos’altro, ma la capacità delle persone di agire nella realtà, cioè la misura del singolo contributo alla costruzione dell’edificio sociale.

È bene chiarire che adottare questa definizione di potere non significa sposare un’idea ingenua sulla sua reale distribuzione all’interno della società. In precedenza (nota 3) si è fatto un esempio in cui una pratica sociale veniva adottata in quanto migliore di altre. Nella realtà dei fatti le cose vanno molte diversamente, ed è così proprio in funzione dell’impari distribuzione delle risorse di potere fra gruppi. Nel mondo ideale descritto dai socialisti del XIX secolo si pensava che l’emancipazione umana ci avrebbe portato al punto in cui il progresso avrebbe cancellato ogni distinzione di classe e di censo (all’epoca genere ed etnia non si trovavano al centro del dibattito) e che le tecnologie e le pratiche sociali sarebbe state adottate o abbandonate con riguardo solo al bene collettivo dell’umanità. Ma l’umanità, per quanto se ne sappia, non ha mai agito pensando a se stessa come specie unitaria, ma sempre per conflitti, mediazioni e trattative fra gruppi d’interessi contrapposti. Il fatto che la lingua franca con più successo sia attualmente quella inglese non è certo per una peculiare facilità d’apprendimento di quest’ultima, o una sua superiorità nel definire con maggior rigore i concetti che utilizziamo nella nostra vita quotidiana. Se nelle scuole di una gran parte del mondo si impara e si insegna l’inglese è per via della supremazia britannica prima, e statunitense poi, che condiziona le relazioni internazionali da oltre un secolo. Dire che il potere attiene a tutte le persone, non significa dimenticare che esistono differenze enormi di potere fra gli attori dovute alle forme organizzative più o meno efficienti e dalle risorse di mobilitazione di cui questi attori dispongono.

Come ripartire?

Per chi ha avuto la pazienza di seguire fin qui il ragionamento proposto è giunto il momento di tirare le somme e capire come le riflessioni appena proposte possano aiutarci nella pratica. Quanto è stato detto, dovrebbe ormai essere chiaro, non ha alcuna velleità teorica, anzi, è completamente orientato alla prassi. Questa rassegna della visione costruzionista della società non è stata proposta con il mero intento di aumentare la consapevolezza di chi legge (fine comunque non disdicevole) ma piuttosto per fornire un orientamento ed alimentare un dibattito sulla prassi. Dibattito oggi più che mai necessario.

Le elaborazione teoriche e metodologiche che abbiamo letto (ed esperito) nelle ultime due decadi sono state – ognuna in modo differente – manchevoli sotto certi aspetti della lettura della società. Chi scrive è fermamente convinto che quando si intende agire all’interno e sui meccanismi che governano la società sia necessario averne una conoscenza, sapere cioè cosa si sta facendo e su quale campo si sta dando battaglia. Non confrontarsi con questi meccanismi, e chiamarsi rivoluzionari, significa ridursi ad un velleitarismo che, nel migliore dei casi, sarà inconcludente. Nel peggiore porterà a delusioni e scoramenti di cui attualmente stiamo pagando il prezzo. L’epistemologia costruzionista non è l’unica disponibile oggi nel panorama teorico della politica e delle scienze sociali. Esistono varie ed altre visioni che sottintendono diversi modi di interpretare il mondo sociale. Se si è proposta questa particolare visione non è perché sembra essere quella che più si accorda con i sentimenti e le sensibilità di chi lotta per l’emancipazione umana, ma perché si ritiene che sia lo strumento migliore per interpretare la società.

Con la presente trattazione non si vogliono proporre nuove prassi o nuove teorie dell’agire politico, ma piuttosto per darsi uno strumento valutativo sulle prassi e sulle teorie presenti e che verranno. Se crediamo nella bontà di questa epistemologia saremo in grado di discutere con un maggior grado di consapevolezza su quello che succede e sulle agende che ci vengono proposte, a seconda del confronto che questo proposte hanno con gli elementi essenziali dei meccanismi sociali che qui si è cercato di far emergere. Riassumendoli in estrema sintesi:

  • Il potere. Come pensa il potere la teoria/prassi che stiamo valutando? Lo concepisce come meramente liberatorio o oppressivo? Si confronta con la sua ineguale distribuzione fra i gruppi? Come pensa di ottenerlo? Come pensa di contenerlo? Come pensa di destituirlo?
  • La Struttura. Il peso dei vincoli sociali di struttura è adeguatamente pesato? Come viene concepita la struttura? E la sua creazione? E la sua modificazione? Quale spazio rimane per la volontà e l’autodeterminazione individuale?
  • Il singolo. Quale ruolo viene assegnato al singolo, alla sua creatività, alla sua volontà? Quale rapporto si ha con i vincoli strutturali? Come si può far in modo che questa volontà sia massimizzata all’interno dei gruppi che combattono per la distribuzione del potere?
  • Il tempo. Con quali modi e tempi si prospettano i cambiamenti auspicati? Si confronta con il tempo quotidiano della vita dell’individuo? Si confronta con il tempo lungo delle strutture? Si fornisce un’indicazione che riesca a tenere insieme entrambe queste dimensioni fondamentali dell’agire sociale?

Una proposta teorica e pratica di mutamento sociale che si ponga ad un minimo grado di ambizione dovrà, per forza di cose, confrontarsi con gli aspetti sopra elencati, quantomeno in via ipotetica. Indipendentemente dalle diverse posizioni politiche che possono essere assunte, il porsi al di fuori dalla società (in qualunque modo) per poi proclamarne il suo cambiamento è un’ingenuità alla quale non si può proprio più credere.

Breve bibliografia ragionata

Per chi volesse approfondire il tema del costruzionismo come epistemologia fondativa, il testo fondamentale è sicuramente La realtà come costruzione sociale di Berger e Luckmann. Nonostante sia passato più di mezzo secolo dalla sua stesura il libro resta un riferimento completo, approfondito e leggibile. L’importanza di questo testo, a livello storico, è data anche dal fatto che fu fra i primi lavori che iniziarono a mettere in crisi il paradigma struttural-funzionalista di Talcott Parson all’epoca egemone in teoria sociale. Le prime enunciazioni compiute del costruzionismo possono essere ricercate invece nei primi lavori del russo Georges Gurvitch che negli anni ’30 scrisse Il controllo sociale. Gurvitch, nonostante il linguaggio un po’ meno accessibile, rimane fra i primi che interrogandosi sulla natura del diritto espresse le prime mosse verso una diversa epistemologia per le scienze sociali. A livello più generale anche i lavori di Focault sul micro-potere possono essere presi come un ulteriore accrescimento di prestigio delle logiche costruzioniste in teoria sociale, anche se spesso questo autore viene più ricordato per il suo contributo filosofico. In anni più recenti si segnala il testo Costruzionismo e scienze sociali curato da Ambrogio Santambrogio. Si tratta di una raccolta di diversi autori provenienti da discipline diverse che si interrogano sull’impatto di questa epistemologia sui diversi ambiti di appartenenza.

1 Nelle occasioni in cui si è cercato di ricomporre le forze, spesso di fronte ad attacchi repressivi sempre più pesanti, ci si è trovati costretti a definizioni in negativo (anti-fascista, anti-capitalista, anti-sessista, ecc…) che per quanto inclusive ed animate anche dalle migliori intenzioni, non sono riuscite ad esprimere nessun tipo di potenza o proposta realmente percorribile. Anzi, spesso la sensazione avuta dopo aver vissuto questi tentativi è quella di una grande impotenza e confusione dovuta all’impossibilità di costruire un discorso efficace, pronunciabile e moltiplicativo. La logica dell’anti rimane, forse, utile per il merchandising di adesivi e magliette, ma assai meno per enunciare una visione del presente e orientare la prassi.

2 Ci sono opinioni discordi circa le cause prime di evoluzione. C’è chi sostiene che il cervello si sia sviluppato e quindi abbiamo avuto il modo di “ragionare” sulla necessità di servirsi di utensili, oppure chi sostiene che elevandoci alla posizione eretta, per necessità ambientali, abbiamo liberato le mani e abbiamo potuto realizzare altre cose oltre ad utilizzarle come sostegno all’andatura. Per quanto interessante questa domanda rimane insoluta, esonda dai fini di questo articolo e, ad ogni modo, quale che sia la causa prima di evoluzione essa non cambia il risultato che qui discutiamo.

3 I metodi adottati o abbandonati di solito prescindono dalla loro bontà. La selezione che se ne fa poggia su altre logiche. Torneremo nelle conclusioni su questo aspetto, per ora lo lasciamo da parte per concentrarci sui meccanismi costitutivi delle istituzioni.

4 È molto importante insistere sul fatto che qui non si sta valutando la validità dei singoli posizionamenti, ma piuttosto le concezioni del singolo e della società che ne propongono, oltre al rapporto fra questi due.

5 Il massimo esempio di questa isteria complottista tende ad aggregarsi sulle vicende relative al sequestro Moro. A prescindere da come la si pensi sulla vicenda, ciò che qui rileva è che per queste narrazioni pensare che delle persone abbiano potuto svolgere quell’operazione in autonomia è pura follia. Ci dev’essere per forza qualcuno che manovrò, che pianificò, che uso per i suoi interessi quell’operazione.