CONTATTO o dell’introduzione all’anti-Narciso
Che la fine del mondo stia arrivando, e che non ci possa essere salvezza dentro questo sistema capitalistico sono notizie ormai vecchie. Molto vecchie. Talmente vecchie che ormai forse la fine del mondo è già qui. Allora diventa urgente cominciare a pensare in maniera diversa sia la fine che il mondo. Qualche spunto in questo pezzo, in cui tra l’altro ci sono anche salamandre giganti che scrutano sprezzanti l’abisso dell’estinzione.
Fermiamo il discorso
Se ne parla molto. Non da poco se ne discute. Ormai è sulla bocca di tutti, un chiacchiericcio ai limiti del sopportabile. Dai papers accademici ultimati in qualche biblioteca con l’aria condizionata; ai vertici ed i masterplans governativi redatti dagli ultimi piani di edifici vetrati, da cui non si può essere visti, ma dai quali tutto si può osservare, e tanto miseramente nulla risolvere. Dalle strade, tutto a un tratto vivaci, animate dal passaggio di giovani studenti, la cui voce del venerdì, ricercando l’unisono, chiede attenzione e urla indignata della sorte infausta del pianeta; agli ambienti letterari dove la questione non fa che emergere più o meno consciamente nelle pagine delle più recenti pubblicazioni. E poi dagli accattivanti programmi e documentari televisivi, dai titoli giornalistici che circolano sul web, che per come proposti, hanno il merito tanto di allarmare quanto di posizionare lo spettatore in una distanza rassicurante sollevandolo da certe responsabilità; al simmetrico chiacchiericcio della palude, di chi commenta, altezzoso, distante, senza turbare in alcun modo il proprio incedere.
Il cambiamento climatico, o come altri preferiscono, il surriscaldamento globale, si impone senza riserve al nostro presente. Si impone nella forma del presente stesso, in qualche modo deformandolo e schiacciandolo nella monotonia di chi è incaricato di controllare un termometro non potendo fare altro che registrare dati senza capirli. Una gestualità ripetitiva, eppure un’ancora di fronte alla deriva della psiche umana. Un’ancora per rimanere attraccati ai porti della razionalità e continuare a potersi illudere di avere un certo dominio su quanto accade, piuttosto che ammettere l’inconsistenza ermeneutica che sottende la gran parte dei discorsi sul tema.

Si parlò inizialmente di allarme, poi di pericolo, ora di catastrofe, e tutti hanno paura. È un’emergenza, ovvero un evento da schivare a qualsiasi costo. Se ne discute senza sosta, eppure i termini del discorso rimangono sempre legati al paradigma neo-liberista, espressione di una liturgia del sacrificio su richiesta dei maggiori azionisti del disastro. E allora sono molte le contromisure proposte per la risoluzione del problema e trasportare le immagini di questo presente nelle teche di un museo inneggianti la vittoria dell’uomo. Soluzioni che si alternano, che vestono momentaneamente l’abito della funzionalità, che sgomitano tra le altre vendendosi come le migliori sul mercato dei mondi possibili. La decrescita felice, la decivilizzazione radicale, l’accelerazione del disastro per far esplodere le contraddizioni che l’hanno generato, la negazione del disastro stesso, la colonizzazione di Marte per fuggire dal problema, la robotizzazione della vita sulla Terra per potersene emancipare. Ma di questo se ne parla già abbastanza, e non è interesse di chi scrive approfondire la veridicità o meno di tali affermazioni, già ben motivate in altri testi. Interessa qui provare a ripensare la domanda che guida e sottende le riflessioni e le pratiche, più o meno sovversive, più o meno conservatrici, in qualsiasi modo confuse, riguardanti il presente (la catastrofe), tutte ancorate allo stesso campo di battaglia in cui ultimamente lo scontrarsi di arcioni rende più viva che mai la platea, quello relativo al che cosa fare.
La costrizione del mondo – o le immagini del Narciso
Che cosa? Non è una domanda neutra. Che cosa? Implica un modello, porta sempre il riferimento di una struttura concettuale. Un modello astratto a cui riferire ogni ente esistente, attraverso cui categorizzare e semplificare il mondo. Che cosa? Manifesta e fonda un’ontologia verticale partecipando alla creazione di una gerarchia artificiale del mondo che pretende di trovare a tutto un nome positivo, una classe di appartenenza, un termine unico radioso e particolare con il quale indicarlo, per poterlo poi domare ed infine dominare. Non più di un mondo, ma un regno. Un regno autoproclamato, di cui basta non domandarsi la genesi per sentircisi comodi ed a proprio agio, padroni di se stessi, soggetti individuali e proprietari al sicuro sul proprio trono, barricati per difendere l’unico senso, la sola razionalità da cui ingenuamente ci si è fatti cingere il capo (perché si sa, quando un re perde la corona perde anche la testa).
Ora il mondo è nostro, a portata di mano. Ciò che non si può predare perde senso di esistere, o meglio non ha alcuna possibilità ontologica di emergere dal caos e di essere dunque una cosa. Che cosa? È la domanda che realizza definitivamente il mondo antropocentrico, è la domanda che chiude definitivamente la questione. Che cosa? Significa essere tutti proiettati nel futuro, con la pretesa di impiantarvi una tradizione e incastrarci il Mondo, tutto ciò che resta fuori si perde, non esiste, non è mai esistito. Domandarsi che cosa fare significa aver già scelto per gli altri, aver dimenticato la loro alterità, essersi fatti guardiani del regno dell’Uguale, per continuare a nascondere tutto il resto. Significa essere succubi di un’idea di progresso secondo la quale il dopo sarà sempre meglio, e soprattutto sempre possibile. Ammettere il contrario significherebbe dover rinunciare alla propria corona, o banalmente alla propria vita così come la conosciamo, significherebbe ammettere la propria incapacità di risolvere alcunché. Che cosa? È un processo violento, batte a colpi di cannone sullo straripamento delle cose per mantenere integre le forme ed in definitiva nulli i contenuti. È la realizzazione di un desiderio mortifero, il regno di una scienza morale, della colpa e della responsabilità.
Che cosa fare? È dunque la domanda che acceca ogni diversa prospettiva, che obbliga a vedere un unico mondo, e in nome del suo ordine e della sua pacifica conservazione, ne disinnesca la violenza frattale, la sua potenza, ogni possibile profezia di mondi a venire. Dichiarando l’emergenza, si scioglie ogni contatto, si crea una distanza tra l’uomo e il mondo. Che cosa? È la domanda che nasconde il problema, portando in primo piano il soggetto legislatore, demandando ad ogni misero individuo la responsabilità di fare i conti con l’emergenza (e non è un caso se un 58enne olandese, un uomo di questo tempo, sia finito per chiudere con violenza la propria famiglia nella cantina di una fattoria per nove anni, per evitare la catastrofe, per attendere la Fine, decretandosi, coraggiosamente, salvatore). L’emergenza è uno di quei sostantivi che se ripetuti ad alta voce dopo un po’ smette di convincere, si svuota, eppure è l’unico appiglio per non scontrarsi con la durezza del reale, e mantenere cinta la corona di rifiuti che solo all’occhio moderno può apparire scintillante.
In definitiva, chiedersi cosa fare non può che portare alla violenta illusione di salvare un mondo ormai sull’orlo del precipizio, e cominciare a crederci davvero. Così il soggetto torna sul palco a parlare noiosamente ancora una volta di se stesso, ovvero di come ha visto il mondo finire guardandosi allo specchio, e di fronte al traballare delle fondamenta della propria razionalità non sia che riuscito a ripetere, evitare la catastrofe, evitare la catastrofe, evitare la catastrofe.
La necessità di una fine si trasforma nello spettro della Fine; la necessità di un adattamento (e la rinuncia alla propria corona), nelle pazzie vanagloriose dell’ipseità. Altro mondo non esiste per il Narciso, altro mondo non esisterà per noi se non riusciamo a sbarazzarci di questa maschera.
L’attesa del futuro implica grandi sacrifici, e chissà se questi ultimi verranno ripagati, al momento la storia non può ergersi a giudice benevolo. Quando si investe nel futuro ci sono troppe persone nel presente che soffrono e vengono gradualmente escluse dal poter godere dei miglioramenti (si pensi agli sfrattati di Boca Chica, un piccolo villaggio del Texas, dove SpaceX ha ben pensato di installare la base di lancio per i futuri viaggi su Marte, una piccola speranza per la vita dell’uomo, a scapito di una cinquantina di persone, la cui vita tutto a un tratto si è svelata di poca importanza) perché si guarda al futuro chiedendosi che cosa, e non lo si costruisce nel presente, domandandosi come. Di fronte alla catastrofe si dice che così non può andare, la si fugge proiettando ogni sforzo, speranzosi in una virata improvvisa. Eppure questo è il nostro presente, e ancor prima che domandarsi che cosa fare per riportare ordine e sicurezza, dovremmo chiederci come vivere, ora più che mai, nella catastrofe.

L’accoglienza del politico – o dell’anti-Narciso
La sfida che ci appare, sembra dunque quella di rinunciare a vincere la sfida. Rinunciare a vincere, che non significa perdere, ma abbattere ogni possibile classifica, ogni possibile ontologia di vittoria e di giustificazione, ogni possibilità di superare l’emergenza. Come? Significa vivere nella catastrofe, accettarla, ambientarsi in un macrocosmo, nell’intreccio di società e comunità (rigorosamente non solo umane), trovare posizione in una fragile e agitata cosmopoliteia senza alcun indice universale di riferimento. Significa vivere sì in un mondo di emergenze, ma senza maiuscola, inteso come ciò che emerge. Chiedersi Come? Significa destinarsi ad una potenza frattale, abbandonare ogni progetto di costruzione di un mondo in un futuro più o meno lontano, cominciare a vedere oggi ciò che c’è ma non viene nominato e cosalizzato. Dunque vedere in un altro modo, ognuno dal suo misero e angusto, ma d’altra parte straripante, angolo di mondo.
Vivere nella catastrofe non è la ricerca di un nuovo ordine, ma è l’assenza di quest’ultimo. È accettare la Laguna che sommerge il mondo. Chi impara a vivere nella catastrofe diventa repellente all’autorità ordinatrice, all’universalismo del senso. Ecco Kerans, così ritratto da Ballard, repellente sia alla vecchia autorità che richiama tutti a rimanere ai posti di lavoro per evitare il collasso, sia alla nuova che sulle macerie cerca di reclamare come proprio il potere del disordine, nuova forza di attrazione, organizzatrice della socialità umana. Kerans ama la Laguna ed il suo silenzio, l’impossibilità di governarla e di sentirsene padroni.
Come? Significa dunque rinunciare ad una gerarchia di senso e di potere, ammettere l’equivoco come fondamento di ogni comunicazione, e la cautela come spinta per ogni azione. È la scienza morale del giudizio che cede il passo ad un’etica della potenza, intesa come l’attuazione di un’ontologia pratica, i cui contenuti si ridefiniscono ogni volta che due occhi si incrociano. Un certo dizionario del dominio, dello sfruttamento e della verità si sgretola tra le fronde della foresta, ritornando sabbia, utile a qualche piccolo essere per saziare il proprio appetito. L’alterità, finora rappresentata secondo i canoni dell’emergenza da annullare, diventa lo specchio nel quale riconoscersi, l’unico possibile appiglio ad un mondo che continua a sfuggire di mano. È tutta una questione di prospettive e di corpi, dove ciò che si intreccia spesso non ci coinvolge. E’ una questione di mondi plurali, che fioriscono e si inabissano, non più la questione di un mondo e della sua Fine. Ed è tutta una questione di conflitto, o meglio di corpi straripanti che non possono che turbare ogni ordinamento, rendere vana ogni violenza teleologica, l’arma moderna per tenere quiete le emergenze.
Chiedersi come vivere nella catastrofe significa anche farsi carico del segreto dell’Andrias davidianus, oggi meglio conosciuta come salamandra gigante del Giappone; viveva ai tempi dei dinosauri eppure oggi passeggia ancora tra gli acquitrini limacciosi dell’Impero del Sole. Solo liberandosi del proprio ruolo da dinosauro può continuare ad esprimere potenza: è il segreto dell’estinzione, mai paragonabile alla morte. O ci si estingue o si muore, questa sembra la sfida lanciata dagli occhi vitrei della bestia. E se il Che Cosa? Cela come uniche possibilità o la salvezza o la morte, ora il mistero dell’estinzione sembra spianarci un’altra possibilità, ovvero quella di rinunciare allo status di Umanità e tornare a guardare al proprio corpo nell’intreccio di relazioni in cui è inserito ed ambientato. Non più dall’alto della sua spiritualità ma nel basso dalla banalità della sua composizione. Una questione di contatto.

Il Come? Non richiede di sapere il Che Cosa? Ma richiede una fiducia nella ricerca del contatto. Liberarsi dall’ansia di nominare il grande fuori da lontano, di catalogare l’altro e la diversità, di separare nettamente la normalità dalle emergenze. Nel contatto si conosce infine Solaris, ovvero l’altro, l’emergenza che ci si para davanti agli occhi, e che ci richiama. Si conosce solo quando ci si perde nell’altro, ed alla fine si conosce se stessi, di cosa il proprio corpo è capace, quali incontri ed ambienti può sostenere, di quali emergenze può farsi carico. Dalla domanda che cos’è un corpo la questione viene repentinamente traslata su cosa può un corpo, come può intrecciarsi con ciò che non è se stesso per continuare ad esprimere potenza, per imparare ad abitare nel mondo piuttosto che avere una casa dove abitare. L’emergenza e l’equivoco diventano pilastri concettuali nella fioritura di mondi altri. La domanda ora non è più risolvibile individualmente, ma diventa una questione di cui ci si può prendere cura come popolo, riconoscendosi parte di questa strana e irrisolvibile intelaiatura, imparando ad accettare la fine, ovvero l’insostituibile insignificanza di ogni mondo. Una pratica politica.
Una politica cosmica che trasformi la fine del sostantivo politica (ormai luogo vuoto di discussione), nell’accoglienza del politico come aggettivo, che accompagni una comunità di popoli al riconoscimento della terra a cui appartiene, più per grazia che per natura. Una filosofia e una politica del Come? Che non è tanto il come classico del rapporto mezzi/scopi, ma un come che ricerca una posizione, un modo di stare all’interno del divenire, all’interno della catastrofe. La domanda non riguarda quindi più i singoli scopi o soluzioni, quanto il problema delle forme-di-vita, cioè di come vogliamo abitare il mondo. È infine arrivato il momento (e se non ora, di fronte alla fine, quando?) di lasciare il Narciso di fronte al suo funesto destino, abbandonare le sue responsabilità, e provare ad immaginare le pratiche della sua nemesi. Altri sguardi, diverse prospettive. Infine, un contatto.