PRESENTE E PASSATO, RICORDO E STORIA

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Su L’editore di Nanni Balestrini e sul vuoto che ci circonda

Nel 1989 usciva L’Editore di Nanni Balestrini. Un’opera complicata, un labirinto che portava la voce di un passato aperto, rimosso, spettrale. Oggi tutto questo sembra ancora più lontano e ritorna solo in forme mostruose e deformate, e per questo potrebbe essere il momento giusto per provare a rileggere (e ripensare) L’Editore, quel passato ma forse più in generale il nostro rapporto con tutto il passato.

Pochi periodi della storia d’Italia sono così aperti, mal digeriti, pulsanti, rimossi, edulcorati, elisi, storpiati, mistificati e riscritti come quello degli anni ’60 e ’70. Un momento storico ad altissima conflittualità sociale che ha lasciato delle ferite profonde nell’Italia democratica e liberista che usciva da un’accelerazione economica senza precedenti. Una tempesta che ha sconvolto la sensibilità e l’immaginario di migliaia di giovani e adulti e che era ad un passo dal produrre quella rivoluzione antropologica per la quale Tronti identificava la sconfitta del comunismo nel non essere riuscito a produrla fino in fondo. Pochi periodi della storia italiana sono inoltre così spettralizzati, aboliti, rimossi, avvolti dall’immaginario del trauma come questo. Scrivono Primo Moroni e Nanni Balestrini, protagonisti e testimoni importanti di quegli anni:

Per ridimensionare questa grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, c’è voluto (e per la prima volta nella storia del dopoguerra) la grande alleanza di tutto il sistema dei partiti, l’uso di tutti i corpi militari, una modifica radicale dello “stato di diritto”, la trasformazione della magistratura in braccio secolare del potere politico e degli interessi della borghesia industriale.

A supporto del consenso, l’intero arco dei mass media. Tutti protesi a dimostrare che, perché nulla cambiasse, si trattava di “eliminare” una minoranza di esaltati deliranti, separati dalla realtà e manovrati dai poteri occulti […].

Quarantamila denunciati, quindicimila “passati” dalle carceri, seimila condannati, quasi sempre senza nessuna garanzia del diritto alla difesa. Queste le aride cifre finali e contabili della brillante operazione di difesa della “democrazia”. Dietro le cifre, le “carceri speciali”, la tortura, l’isolamento, la parte migliore di due generazioni ricondotta al silenzio, costretta all’esilio, o “restituita” alla società dopo essere stata umiliata nella sua identità.

Insomma, questo periodo storico è stato rimosso dalla memoria collettiva oppure, che è dire lo stesso, spettralizzato, oscurato e reso torbido, disinnescato nella sua carica conflittuale da fantasiose teorie del complotto e ipotesi di manovre nell’ombra di poteri occulti e assoluti tanto improbabili quanto mistificatorie. Nanni Balestrini è forse uno dei pochi scrittori che riesce, partendo da una prospettiva di parte che non costituisce un limite, ma anzi la sua forza, a fissare lo sguardo sugli anni Settanta senza le rimozioni e l’obliquità che sono comuni a buona parte della narrativa contemporanea che sceglie a tema, in un modo o nell’altro, quel periodo. Balestrini è certamente un’eccezione, e lotta per riportare il grande rimosso collettivo alla realtà della sua storia e della sua identità. Tutto ciò dalla prospettiva di uno scrittore che non nega affatto la sua appartenenza e anzi cerca con la letteratura di riaffermare la sua partecipazione a quell’orizzonte politico, esistenziale e d’immaginario che ha subito un’enorme sconfitta storica, ed è stato spazzato via con un colpo di spugna da una reazione congiunta degli apparati mediatici, politici, economici, giuridici e repressivo-polizieschi.

L’editore (2006) parla precisamente di questa sconfitta e della successiva rimozione generale, attraverso la figura di un altro fantasma di quegli anni: il grande editore e combattente rivoluzionario Giangiacomo Feltrinelli. Mentre Aldo Moro e la sua fine sono tutt’ora ricordi scomodi che perturbano la nostra memoria collettiva e la percezione del nostro presente, Giangiacomo Feltrinelli è stato semplicemente rimosso: non se ne parla, non se ne scrive e quando si scomoda pubblicamente il suo ricordo lo si fa sempre con una buona dose di imbarazzo. L’editore Feltrinelli, uomo che con la sua personalità e la sua vita è stato emblema dell’immaginario e delle geografie esistenziali e politiche di quegli anni, è oggi completamente cancellato dalla nostra memoria storica. È di lui che L’editore di Nanni Balestrini parla, di come appunto questa figura e la sua storia siano state altamente connotative di un’epoca, e di come siano state quasi subito espulse dalla nostra memoria insieme all’epoca stessa.

Ciò che scatena la narrazione è l’incontro di un gruppo di amici e compagni che sono stati legati in passato al movimento rivoluzionario in tempi e modi diversi (fra i quali si può riconoscere il libraio milanese Primo Moroni), e che discutono sulla possibilità di scrivere una sceneggiatura cinematografica sui momenti subito successivi alla morte dell’editore Feltrinelli, che non viene mai esplicitamente nominato, come nessuno dei personaggi del libro. Alla narrazione di primo grado, quella in cui i personaggi discutono sul loro passato e su come rappresentarlo nell’ipotetico film, e alla sceneggiatura di questo film, che costituisce una narrazione di secondo grado, sono innestate e giustapposte (cosa che complica ancora di più la struttura aperta, ibrida e caleidoscopica dell’Editore) delle letture di Sotto il vulcano di Malcolm Lowry. Sotto il vulcano è un romanzo in cui, per usare le parole di Aldo Nove, «il paesaggio messicano pare progressivamente deformato dall’effetto dell’alcol sulla psiche del Console (il protagonista), che non combatte solo una disperata lotta contro la gelosia e contro l’alcol, ma vive la disintegrazione di un mondo che si rivela sempre più minaccioso e assurdo: in questa prospettiva Sotto il vulcano è una “profezia, un monito politico, un crittogramma”». Da tutto questo si vede bene come si mescolino insieme elementi di realtà e di finzione, in una struttura narrativa ricca di montaggi, in cui passi di articoli di giornale vengono innestati direttamente nel testo di finzione e giustapposti a citazioni dirette del romanzo di Lowry. Questa commistione ha un ruolo importante nel delineare e costruire il senso, e aiuta ad arricchire di significati l’interpretazione del passato e della Storia.

I protagonisti collettivi del romanzo discutono sull’idea di fare un film sulla morte dell’editore, avvenuta diciassette anni prima, e attraverso il suo ricordo e il ricordo di quel passaggio cruciale si confrontano con un passato che li costringe a fare i conti con la sconfitta storica che li ha lasciati reduci, incapaci di staccarsi da quanto accaduto. Un passato non-passato, che resta presente, aperto e problematico, e che ha contribuito in maniera fondamentale a formare la loro identità di soggetti. L’idea di scrivere una sceneggiatura che renda giustizia alla figura di Feltrinelli, e quindi a tutto il passato rimosso e mistificato in cui si collocava la sua vita, è un tentativo da parte loro di salvare la verità di quanto accaduto da ciò che i vincitori avrebbero voluto fare e hanno fatto di essa. Walter Benjamin, nelle Tesi sul concetto di storia, evocava un pericolo che «sovrasta tanto il patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono. Esso è lo stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla». Anche i personaggi di Balestrini sanno che sono sempre i vincitori, in qualche modo, a narrare le cose, sono sempre i vincitori a parlare, e che «anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere».

La sceneggiatura pensata dai personaggi si apre prima con una focalizzazione stretta sui dettagli macabri e corporei del cadavere di Feltrinelli durante la sua autopsia che marca da subito il carattere perturbante e problematico del morto; poi l’attenzione si sposta sulla coppia di giovani protagonisti che sfoglia i giornali e guarda i telegiornali che filtrano la notizia della morte dell’editore, contestualizzandola nella serie di eventi accaduti in quei giorni. Il primo approccio del lettore ai fatti narrati (e del potenziale spettatore all’ipotetica scena filmica) è mediato da giornali e televisioni. Il protagonista della sceneggiatura legge i quotidiani, i cui articoli vengono giustapposti alla narrazione, e prima di chiuderli nauseato passa in rassegna tutti i topoi più diffusi che la figura dell’editore e le circostanze della sua morte suscitano: teorie del complotto; psicologismi di bassa lega; tentativi di ridurre il tutto a semplice follia individuale di un borghese eccentrico e annoiato, vittima delle troppe letture e del tentativo di imitare i suoi idoli letterari, in cui echeggia l’idea borghesiana della finzione che diviene generatrice di realtà. Il protagonista contempla disgustato la carrellata d’interpretazioni giornalistiche che verranno diffuse e diverranno opinione comune nel giro di pochissimo tempo. I personaggi della sceneggiatura si sentono a un crocevia, nel mezzo di un momento sinergico della Storia che si fa premonitore degli eventi che incalzeranno negli anni successivi e in cui molti nodi verranno al pettine. Dopo che la coppia di protagonisti si sposta in una cascina ospite da un compagno ex partigiano più vecchio, nella quale incontrerà altri compagni rifugiatisi laggiù per paura delle retate poliziesche scatenate dalla morte di Feltrinelli, scoppia una discussione selvaggia su quanto accaduto, in cui è già centrale il problema del senso, e la disputa si sposta dal piano della realtà oggettiva a quello dei significati e delle interpretazioni che vengono date ai fatti.

Ma questa non è una constatazione semplice. Tutto ciò anzi pone il grosso problema, affrontato dagli autori della sceneggiatura, di come poter costruire una contronarrazione che non cada anch’essa in semplificazioni acquietanti e che non riporti il passato ad una presunta verità oggettiva (che di fatto non esiste), nel rischio sempre presente che Nove sintetizza così: «rendere a propria volta le parole un “ordine” (di Stato, di polizia) di linguaggio cui è quasi impossibile sottrarsi». Il pericolo insomma di dare ai fatti un senso altro e opposto ma altrettanto totalizzante e, alla fine, cristallizzato, inoffensivo e relegato in un passato concluso. Per questo Balestrini dà all’andamento della narrazione una struttura altamente corale e aperta, non conclusa, senza facili chiusure ordinatrici e conciliazioni consolatorie: i personaggi, discutendo a proposito della sceneggiatura, si confrontano continuamente sulle possibili maniere di rappresentare il loro passato e quello collettivo e di sottrarlo al «conformismo che è sul punto di soggiogarlo», ma senza mai davvero arrivare a una soluzione condivisa e chiarificatrice. Anzi, tutta la struttura narrativa dell’Editore è basata su questa ricerca di senso, su una metanarrazione in cui il confronto fra gli autori della sceneggiatura (la quale sintomaticamente non verrà mai conclusa), costituisce il movente principale della storia e fa da contrappunto alle furiose discussioni fra i personaggi di secondo grado interni al testo scenico, che per altro sono gli stessi autori più giovani, ad accentuare un approccio al passato non risolto e che si riflette nel presente. Attraverso la costruzione di un’opera di finzione e il confronto su quanto avvenuto, il passato viene insomma interpretato dai vari personaggi, ricordato con trasporto emotivo tutto personale, sviscerato e riportato all’ordine di senso specifico di ognuno, ma non si lascia domare. Non mancano i litigi e i dibattiti serratissimi: due dei personaggi principali della sceneggiatura durante una discussione accesissima vengono addirittura alle mani, aiutati da qualche bicchiere di troppo e subito divisi dal resto dei presenti. Il passato nell’Editore insomma non è docile né rapidamente interpretabile o liquidabile. Ma anzi resta pulsante, sfugge dalle mani di coloro che cercano di appropriarsene e di addomesticarlo. Ed è proprio questo il modo di tenerlo in vita e di utilizzarlo davvero, facendolo parlare nel presente dei protagonisti, problematizzandolo e lasciandolo aperto. Ed è esattamente il contrario di un modo di approcciarsi alla Storia che la vuole finita, chiusa in se stessa, interpretabile senza intoppi e contemplabile nel suo rapporto lineare e non problematico di cause ed effetti, in cui ogni momento è conseguenza logica e naturale di quello precedente e così via.

Nella maggior parte delle opere sugli anni Settanta, la tendenza è quella di anestetizzare il passato attraverso una riscrittura di quanto avvenuto usando delle categorie interpretative tutte contemporanee. Si può dire che Balestrini, con i suoi antiromanzi, lotti per fare l’inverso, e non solo cerchi di riappropriarsi del passato e della Storia, ma appunto tenti di restituirlo alla sua complessa realtà, di renderlo perturbante proprio per il fatto di lasciarlo aperto, di farlo parlare, di riportarlo, per riprendere il linguaggio di Benjamin, «alla sua origine». La sceneggiatura che scatena la discussione metanarrativa, insieme agli innesti di materiale preso dalla cronaca, in questa luce divengono strumenti per riflettere sui meccanismi che costruiscono il senso e l’interpretazione della Storia, del passato e della memoria. Quello che fanno i protagonisti, discutendo a proposito dello sviluppo della sceneggiatura, non è altro che una grande operazione di costruzione e decostruzione di senso.

Balestrini, per tutto questo, si pone in antitesi con molti romanzi sugli anni Settanta, e cerca di riportare la Storia e la realtà con le loro fratture profonde, le loro contraddizioni e i loro chiaroscuri (tutt’altro che facilmente interpretabili e liquidabili con comode formule edulcoranti e assolutorie) al centro del discorso letterario. Lo scrittore, per dirne una, non riduce il conflitto sociale ad uno scontro interno al mondo della borghesia: rivendica invece l’appartenenza della vita dell’editore (e di buona parte della generazione subito successiva) alla storia del movimento operaio e rivoluzionario. E laddove il discorso mediatico e politico ha cominciato, con il riflusso degli anni Ottanta, a cancellare la verità di quel passato e degli individui che ne hanno preso parte, Balestrini cerca di mostrare tutta la loro complessità umana, politica ed esistenziale. Una verità che acquista tutta la sua forza e il suo potenziale critico proprio dall’essere parziale e schierata, e dal non essere, appunto, mai definita e conclusa una volta per tutte, ma sempre aperta e in divenire. Le visioni tanto consolatorie quanto false dei complotti, o quelle che riconducono ogni cosa con un luogo comune diffusissimo e storicamente falso a problemi intestini tutti interni alla borghesia, prendono piede in questo periodo. Il critico letterario Raffaele Donnarumma, ha fatto notare come, per molte interpretazioni diffuse in quegli anni, fosse meglio «cercare la scissione dentro le famiglie del ceto medio, che sospettare una classe operaia sedotta dalle armi e ribelle alla mediazione del partito». Sono, tutte queste, narrazioni che Balestrini rifiuta, lottando fino all’ultimo per restituire la realtà e la Storia alla loro complessità e problematicità irrisolta, e conducendo una battaglia tanto più importante e valorosa quanto più il discorso diffuso dagli apparati mediatici si faceva totalizzante, capillare e apparentemente impossibile da scalfire.

Per combattere la sua battaglia, lo scrittore utilizza degli espedienti narrativi estremi, agli antipodi della letteratura di consumo che si diffondeva in quegli anni come mai prima. Diffidente verso la forma romanzo, L’editore èscritto senza punteggiatura e, a voler categorizzare (e forse non è necessario) rientrerebbe nelle tipologie di “antiromanzi” di stampo neoavanguardistico. Con la scelta estrema dello stile, Balestrini rifiuta un senso delle vicende definito, causale e in se autosufficiente cui molto spesso questa forma si accompagna. La sua è una delle prime generazioni costretta a confrontarsi con gli effetti devastanti che l’immaginario mediatico produceva soprattutto sui giovani. Tutto ciò si riflette nello stile che (tra le altre cose di cui si è parlato) può essere interpretato come un tentativo, sotto il segno della neoavanguardia, di distinguere la letteratura dalla miriade di altri materiali culturali che venivano sfornati in quantità mai viste prima dal sistema mediatico di massa, da poco arrivato all’apice della sua forza storica. Uno dei problemi principali della neoavanguardia è stato appunto quello di interrogarsi sul ruolo che la letteratura avrebbe potuto assumere in un mondo completamente mediatizzato.

Insomma, per concludere, se è vero che, per usare sempre le parole di Donnarumma, «per Balestrini, raccontarne significa contrastare il discorso del potere, dei media, dell’opinione comune benpensante. È il pathos della verità, della demistificazione, dello svelamento» è anche vero che tutto questo non si riduce ad una semplice antitesi, ad una polarizzazione meccanica frutto di reazione istintiva e antinomica. Nel lasciare il passato problematico e aperto Balestrini non contesta solo le mistificazioni del “potere” ma, cosa tanto più importante, mette profondamente in discussione le maniere diffuse di intendere la Storia e di leggere il passato come qualcosa di esaurito in se stesso, sul quale si possono dare interpretazioni univoche, chiare, concluse, inferenziali e priva di zone d’ombra. I suoi personaggi fanno i conti con questo passato aperto, insofferente a facili interpretazioni e ricco di contraddizioni, in un confronto serrato e a tratti drammatico in cui emerge tutta la loro umanità. Il ricordo personale si mischia alla memoria storica; e la condizione dei protagonisti reduci da un tempo cancellato, naufraghi dell’esistenza in un mondo che non gli appartiene più e su cui non hanno più presa, giustifica gli innesti del romanzo di Lowry, in cui il Console vaga senza meta per la Pampa messicana ossessionato da un passato che non passa mai.

Ed ecco che il ricordo personale, più e oltre che la memoria storica, diviene un modo per dare senso alla propria vicenda e a quella collettiva. Il narrare, il farsi cantore di ciò che avvenuto, il raccontare storie resta uno dei pochi attrezzi che i protagonisti hanno in mano per ristabilire la loro verità e la loro identità, e per navigare e colorire di senso un deserto di significati che rende arido tutto ciò che abbraccia. È un’idea passato da intendere in senso benjaminiano, quella che Balestrini difende. Un passato raccontabile, e quindi riusabile per perturbare, perforare e dirigere il presente. E, in fondo, il confronto serrato dei protagonisti coi loro ricordi, con le loro interpretazioni dei fatti e con le distorsioni del loro passato e della loro storia, è un tentativo di ritornare a confrontarsi proprio con la complessità della realtà e della Storia e con i loro possibili esiti e utilizzi. Una realtà, ancora una volta, abolita e resa fiction dalle tante narrazioni edulcoranti e mistificatrici più o meno faziose, forme di discorso purtroppo ben più diffuse e influenti di quelle che Balestrini, nella sua vita, ha rivendicato per sé.

Nei discorsi contro cui Balestrini ha lottato, alla fine il grande rimosso è il conflitto. Ciò che fa davvero paura, è pensare che un periodo storico ad altissima carica conflittuale possa essere ricordato per come è stato realmente. Occorre rimuovere, occultare, eludere: ridurre il tutto a rassicuranti teorie del complotto o a conflitti edipici tra figli e padri tutti interni alle famiglie borghesi. E insomma viene da pensare che questo immaginario “traumatico” legato a quegli anni, non sia altro che il sintomo di un rimosso: il conflitto sociale. E viene da pensare che, in fondo, non sia il trauma a generare impotenza, ma l’impotenza a generare il trauma: è l’incapacità di immaginare la lotta politica, la presenza attiva di un soggetto dotato di senso in un contesto dotato di senso, a far proliferare un immaginario traumatico: trauma non è dove esiste il negativo, ma dove il soggetto esposto al negativo non è in grado di generare una risposta psichica, simbolica, sociale, linguistica. E’ forse anche per questo che nel nostro tempo prolifera un immaginario del disastro spicciolo, intimo, privato, ancor prima che sociale o storico, come perfettamente disegnato ed esemplificato in Sotto il vulcano di Lowry. Ed è nel tentativo di costruire tale risposta che i personaggi dell’Editore lottano drammaticamente con se stessi e con il loro linguaggio. Insomma pare che più che degli anni Settanta e della nostra storia recente, l’antiromanzo di Balestrini parli del nostro presenze, e delle possibili maniere di affrontare il rapporto col passato in un mondo sclerotizzato, in cui la Storia è ridotta ormai a feticcio riscrivibile a piacimento e usabile da ognuno per i suoi privatissimi scopi, e in cui è sempre più difficile trovare un contatto con ciò che è avvenuto prima di noi e di conseguenza con il nostro presente politico, sociale ma anche personale e privato. Presente in cui sempre più individui navigano naufraghi e senza meta in una dimensione vuota di senso su cui non hanno presa, vittime di un passato che non passa o di un presente senza Storia, condizioni speculari dell’ assenza di significato che ci avvolge, figlie di un tempo che non ci appartiene più.

Tutto questo, per fare un balzo nel nostro presente, fa pensare a Vincenzo Vecchi, condannato a dodici anni di carcere per i fatti del G8 di Genova e di cui l’Italia ha chiesto alla Francia l’estradizione (per ora senza successo), in questi giorni in cui se ne è parlato molto: abolizione del conflitto e delle sue cause sociali e storiche profonde, il tutto viene riscritto e ridotto a simulacro di immagini depotenziate e prive di contestualità e significato reale, utili per lo più a sbattere il mostro in prima pagina. Nel polverone mediatico scatenatosi, Vincenzo, un po’ come il Feltrinelli di Balestrini, ha pian piano acquisito i connotati di uno spettro perturbante di un’alterità rimossa, sintomo del conflitto, della Storia e della realtà che sono stati aboliti dai discorsi diffusi dei media e dei giornali. Tutto ciò, come per l’Editore, in un tempo in cui un ordine del mondo cerca di installare un’egemonia fragile grazie all’evidenza di un atto di morte (Vincenzo stesso ha dichiarato di essere consapevole di vivere in un’ Europa in tempo di guerra): il conflitto è morto, questo mondo è l’unico possibile e perfettamente naturale, viva il liberismo, viva il capitale. E chi ci ricorda che l’alterità in fondo si può cancellare solo con la nevrosi (mai quanto oggi una cultura e un immaginario sono stati nevrotici) risulta perturbante. E va cancellato e rimosso. Ma così facendo lo si rende ancora più perturbante, e più lo si scaccia e più ci ossessiona, e ogni sua sempre più piccola apparizione crea crisi isteriche sempre più grandi.

Insomma, se lo scenario generale è ben poco rassicurante, consola però sapere che nessuno è meno forte e sicuro di chi cerca insistentemente di convincere se stesso. E che non si è occupati dagli spettri se non essendo occupati ad esorcizzarli. E l’esorcismo sembra essere una delle attività preferite del nostro mondo. Tocca però a noi lottare per costruire un altro linguaggio, per raccontare nuove storie dotate di senso e verità, per ricostruire un contatto col passato e con i nostri ricordi, riallacciare un filo, e riempire di nuovo di significato ciò che intorno a noi è un deserto di simulacri, in cui un’immensa lingua ipertrofica non dice mai niente ma ingurgita tutto.

Qualche spunto per approfondire:

– Aldo Nove, Introduzione all’edizione DeriveApprodi di L’editore di Nanni Balestrini

– Daniele Giglioli, Senza trauma, scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio

– Gabriele Vitello, L’album di famiglia: gli anni di piombo nella narrativa italiana

– Jaques Derrida, Gli spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova internazionale

– Jean Baudrillard, La Storia: uno scenario retrò, in Simulacri e impustura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti

– Primo Moroni e Nanni Balestrini, L’orda d’oro. 1968-1977: la grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale

– Raffaele Donnarumma, Storia, immaginario, letteratura: il terrorismo nella narrativa italiana http://omero.humnet.unipi.it/matdid/843/Donnarumma.pdf

– Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia