ELEMENTI DI DECIVILIZZAZIONE

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Nel marzo 2019, mentre infuriava l’insurrezione dei gilet gialli, sul sito francese Lundimatin appariva questo testo, la prima di sei parti, che tentava di tracciare i contorni storici e politici della domesticazione degli esseri umani e della loro trasformazione in produttori. Proponiamo qui una traduzione in italiano della prima parte, che ci sembra arrivare al cuore di diverse questioni centrali dell’attualità.

Parte I/ Predazione, la questione storica

Economia, Stato, devastazione del pianeta: è tutta la stessa storia. Quella della produzione: delle domesticazione come predazione.

Il sottomarino giallo sonda le profondità storiche. Il suo fascio di luce cade su una nuova definizione del potere

Il sollevamento dei gilet gialli è storico. Quando si dice che viene dalla classe media, non lo si situa sociologicamente, ma al contrario se ne rileva il carattere qualunque e trasversale. Questa volta non ci sono persone politicizzate che ne convincono altre, ci sono persone che scoprono la politica per mezzo del solo insegnamento della collera. Quando l’ordinario trova le parole, quando la sofferenza ordinaria parla e la si impugna come un arma, tutto questo non riguarda la storia della contestazione, ma semplicemente la storia. “Non è un movimento sociale, Sire, è un sollevamento”.

Quando la storia fa irruzione, il presente trova in sé stesso un accesso agli strati più nascosti. Che succede quando, inciampando su un semplice fatto, si precipita nell’evento? Si ha immediatamente l’occasione, da un luogo preciso, di osservare il mondo. Si è simili a quello che cade in un pozzo in una notte stellata. Nei suoi panni, non si può fare altro che sollevare la testa per inventare il principio del telescopio. L’evento apre alla questione dell’epoca.

Così, il punto di partenza del sollevamento non è un pretesto, ma un’occasione, che è ben diverso. All’origine, c’è già tutto. C’è il carburante, la potenza, ciò che ci ha portato così lontano e ci spinge a continuare. C’è quello che rimane ancora da trovare per incontrare la questione dell’epoca.

La questione dell’epoca è il segreto meno nascosto del mondo e sta nella formula: l’economia è un conto alla rovescia verso l’estinzione. Bisogna dunque scegliere se sacrificarsi per salvare l’economia o sacrificarla sull’altare della rivoluzione. O si traffica con lei fino alla Fine, o la si distrugge per fare spazio a qualcos’altro.

Il governo contravviene ad ogni istante a questa logica severa ma giusta, giungendo a formulare solo delle verità alternative. Una di queste si trova per l’appunto all’origine dei gilet gialli: una tassa sul carburante, concepita in risposta alla fine del mondo. Governare porta a questi capolavori d’aberrazione mistica. Non solo far finta di ignorare come “economia” e “apocalisse” siano due parole per dire una sola e unica cosa. Ma pure investire la prima di una potenza messianica che dovrebbe trionfare sulla seconda1.

In questo provvedimento di merda, se solo lo si esamina con un po’ di attenzione, ci sono almeno tre cose rilevanti.

Primo, la tassa come gesto costitutivo del potere. Il gesto eterno di costruire un recinto intorno a ciò dal quale si vuole estrarre un’eccedenza. Perché per ottenere il diritto di farsi mungere, bisogna portare il collare. Per avere dei contribuenti ci vogliono degli amministrati e dei giustiziabili. Vecchio come il mondo, il legame tra produzione e coercizione è indistruttibile.

Secondo, il carburante come emblema di un modo di vita che coincide con un modo di morte. Il carburante del sistema è anche il combustibile dell’incendio planetario che si propaga.

Terzo, quindi, una procedura governamentale di regolazione della fine del mondo. Stretto nel cerchio infernale della sua logica, il partito della civilizzazione attinge soluzioni dal cuore del problema.

Insomma, si trova all’origine dei gilet gialli il paradigma governamentale, un emblema dell’inferno presente e l’operazione oscena che consiste nel pretendere di salvarci nostro malgrado dall’inferno, e con gli stessi metodi che lo hanno propagato.

Tutto ciò è centrale, ma non toglie nulla al carattere accidentale dell’esplosione di quello che accade. Attenzione a non sbagliarsi: le spiegazioni vengono dopo. La collera non dà mai spiegazioni, al contrario le pretende. Si abbatte tanto e così bene che è in lei stessa che se ne trovano. Scopre ovunque occasioni di deflagrare – più la storia accelera, più gliene fornirà. In una semplice legge, la collera trova lo scandalo di ogni legge. La si crede cieca, invece è molto lucida. Sa leggere ciò che sta arrivando.

Produzione

Così, il sollevamento dà accesso alla questione del potere. Più si politicizza e più va delineandosi la natura del potere, assieme ai mezzi per combatterla. Oggi siamo in grado di definirla come civilizzazione, o detto altrimenti, di rifiutarci di separare ancora il modo di vita generale e la forma generale del potere. Questo rifiuto passa per l’esame approfondito di cosa sia la produzione, che si trova proprio a cavallo tra il sistema di coercizione e il progetto sociale.

Lo abbiamo già detto, non c’è produzione senza coercizione, e lo si constata in ogni epoca. Tuttavia si potrebbe, come i marxisti, non vedere in quest’equazione altro che un affare di circostanze storiche (infelici) e fare appello come sempre ad un cambiamento del modo di produzione. In realtà, c’è una ragione profonda in questa equazione, che ne fa un’invariante. E questa ragione va cercata in ciò che a priori era lì per impedirci di vederla. Ovvero, la questione del modo di vita.

La maggior parte delle persone ci diranno che la produzione, “prima” di essere coercizione, è “semplicemente” un modo di vita. Ora, oggi sappiamo che un modo di vita non ha nulla di innocente, per la buona e semplice ragione che ciò che chiamiamo produzione è sinonimo di completa devastazione. Quando diciamo “nulla di innocente” bisogna intendere “politico”. Bisogna arrivare a scoprire nel modo di vita la politica generale che lo regge, gli infonde energia e vi si afferma. Politica che ha sempre qualcosa di religioso nel momento in cui decide della maniera in cui ogni cosa entra in relazione. La produzione è un certo ordine delle cose, una certa politica delle cose.

Facciamo un passo indietro. Di fatto, siamo ridiventati capaci di conoscere la produzione come un modo di vita solo nel momento in cui il peso dei suoi effetti tossici era così forte da aprire crepe nel tetto di “naturalità” sotto cui ha potuto ripararsi per diecimila anni. Ciononostante, l’argomento che vede nella produzione una necessità naturale è ancora egemonico. È ciò che viene sottinteso, per esempio, quando si dice che il problema è solamente il capitalismo.

Se tuttavia si è d’accordo nel considerare che la produzione è un modo di vita, bisogna allo stesso tempo ammettere che sia nefasto. Strada facendo, abbiamo dunque trovato come completare l’equazione.

Produzione= modo di vita + coercizione = devastazione. Se saremo in grado di dimostrare la validità di questa equazione, allora saremo in grado di dire: “Economia, Stato, devastazione del pianeta: è tutta la stessa storia”: E avremo costruito il ponte tra gilet gialli e “questione ecologica”.

Si ha l’intuizione che la produzione è la chiave di volta della civilizzazione, che stringe in un solo blocco progetto sociale, sistema coercitivo e linee di morte. Ma si può comprendere il ruolo di perno che ha la produzione solo facendone l’archeologia.

Domesticazione + cattività

Abbiamo visto nella forma tassa il gesto costitutivo del potere. Non è un caso se abbiamo paragonato la mano d’opera-contribuente-amministrata al bestiame che viene allevato, curato e sorvegliato nel suo recinto. C’è una relazione evidente tra domesticazione e produzione.

Per questo è cruciale mantenere la possibilità di una forma di domesticazione non civilizzata (o domesticazione 1). In realtà, la produzione è solo il modo di domesticazione che ha avuto la meglio, appunto perché ne ha fatto una macchina di potere e un principio di egemonia (domesticazione 2).

Nel progetto civilizzato, c’è un’analogia profonda tra la domesticazione di una piantagione di grano selvatico, quella di una pecora, quella di un lavoratore, quella di una donna, quella di un prigioniero di guerra ridotto in schiavitù. In ogni caso la questione è poter sfruttare una forza produttiva. In ogni caso, la “tariffa” è doppia. Al prezzo dello sfruttamento si aggiunge necessariamente quello della cattività: esistenza di differenti varietà di grano grazie alla mano dell’uomo, sorveglianza delle pecore, condizionamento del bambino, mantenimento dell’ordine sociale e domestico, appunto. Volere la produzione, è volere i mezzi che perpetuino la cattività. Questo presuppone una sorta di incatenamento formale. L’ordine produttivo genera così due specie di rapporti, perfettamente intrecciati. Da un lato, in ognuno dei suoi compartimenti, c’è la divisione gerarchica tra un supervisore-consumatore e un produttore, tra un centro e una periferia. Dall’altro, c’è l’organizzazione unitaria, l’unità organica, dei differenti elementi. L’unità organica è la fonte dell’eterno ricatto civilizzato. “Accetta di sottometterti, perché dipendi da me”. Beninteso, ci si guarda bene dall’aggiungere “Almeno, finché dura l’ordine produttivo“.

È sempre la stessa storia. Il pastore ha bisogno del suo gregge, che resti a disposizione e che lui sfrutta. Lo Stato ha bisogno di una popolazione a disposizione, per estrarle un’eccedenza sotto svariate forme: tasse in denaro e in natura, forza lavoro, risorse intellettuali, energia, carne da cannone. Alla popolazione, si chiede di avere le virtù del gregge. Il popolo è un animale domestico al quale fanno buona guardia dei corpi intermedi, dei cani che sappiano fiutare il lupo nel gregge. Il popolo deve coltivare in sé stesso, e per proprio conto, i sacramenti religiosi (doveri e dettami) che sono il fondamento della potenza materiale e simbolica dello Stato. Il gregge deve amare che si possa estrarre da lui un’eccedenza. Deve amarsi come pecora produttrice, e amare che coloro che lo sorvegliano sappiano bene come mungerlo. Il mantenimento dell’ordine mira sempre al perpetuarsi delle fonti della ricchezza, e l’attività produttrice mira sempre al mantenimento dell’ordine.

Predazione + domesticazione

L’allevamento come rapporto, come forma politica, è al centro del progetto civilizzato. Guardandolo più attentamente, facendo pesare su di lui un sospetto che scava nel passato, abbiamo fatto un passo decisivo nella comprensione della domesticazione 2. Cosa succede quando ci si mette ad allevare un gregge? La preda viene trasformata in bestiame. Si applicano alla stessa cosa due rapporti molto diversi.

La differenza è che non sei più inseguito per essere ucciso e consumato. Vieni acciuffato per essere condannato alla cattività, tu e i tuoi discendenti, e per essere tenuto sempre sottomano in modo da trarne profitto. Senz’altro c’è violenza, ma d’altra parte l’aspetto violento sembra scomparire, poiché in realtà l’allevamento non presume un’aggressività diretta e assunta, ma al contrario sottintende la cura e anche la co-dipendenza.

Eccoci al cuore del problema: dato che la differenza tra caccia e allevamento salta agli occhi, siamo diventati incapaci di cogliere la loro continuità profonda. Questa continuità paradossale sta in una parola: predazione. La domesticazione 2 è una sorta di rivoluzione nella predazione. Di conseguenza – al punto del racconto in cui siamo – la storia dell’uomo distingue due ere: quella della predazione non civilizzata e quella della predazione civilizzata. La prima è compatibile con la domesticazione 1, la seconda è il passaggio alla domesticazione 2.

La produzione ha, nella sua stessa dinamica, la vocazione a imporre la logica della sussistenza, e a diventare il rapporto dominante al mondo. La domesticazione produttiva ha la vocazione non di coesistere con la caccia, ma di estrometterla. In questo caso, possiamo dire che c’è una sorta di transfer della predazione, dal mondo del cacciatore a quello del produttore. Ecco ciò che dissimula l’opposizione troppo semplice tra predazione/selvatichezza da una parte e domesticazione/civilizzazione dall’altra. La civilizzazione è il proseguimento della predazione con altri mezzi. Verificare quest’ipotesi ci permetterà di rifiutare ogni tentativo di negare l’equivalenza tra civilizzazione produttiva e distruzione sistematica. Potremo smettere di scambiare i sintomi per la malattia, e di confondere gli altoparlanti che diffondono informazioni con chi davvero dà gli ordini: la produzione.

Così, non si tratta di incriminare l’agricoltura e l’allevamento, ritenendoli responsabili della logica produttiva. E’ proprio l’inverso: è la logica produttiva che, diventando autonoma, è responsabile di una mutazione radicale in tutti i campi – agricoltura ed allevamento compresi. Ciò che bisogna capire è che questa mutazione è impensabile senza il monopolio della violenza che essa si è attribuita.

Sedentarietà: quando la domesticazione diviene cattività

Ancora una volta: la produzione non è semplicemente la domesticazione, ma la forma particolare che essa prende nella civilizzazione. La domesticazione 1 precede di molto la civilizzazione. Ne abbiamo l’immagine più chiara con la domesticazione del fuoco, che risale all’Homo Erectus e implica un importante rimodellamento dei viventi che lo circondano – il disboscamento per mezzo del fuoco che provoca una riorganizzazione della fauna e della flora – e una modificazione profonda del regime alimentare e del sistema digestivo umano. Tutto ciò cui si pone mano viene sconvolto e causa sconvolgimento a sua volta.

L’agricoltura, l’allevamento, la raccolta, la caccia, la pesca, non sono “modi di sussistenza” distinti, ma innanzitutto una serie di tecniche conosciute per così dire da sempre, e in cui la diversità stessa forniva un grande vantaggio. Così, quando la domesticazione è separata dalla produzione, quando essa è associata non al modo di sussistenza nomade ma piuttosto a un nomadismo dei modi di sussistenza, essa non ha ancora la forma che conosciamo. Non si dà come irreversibile, non è un viaggio senza ritorno. La domesticazione 1 è un passaggio, una stagione; un soggiorno e non una vocazione. Ciò che, dopo essere stato coltivato, è lasciato libero nella natura, può allegramente riattraversare la soglia domestica nell’altro senso.

Invece, la civilizzazione sguaina il suo “serramanico”. Più avanza e più il dietrofront è costoso, pericoloso, difficile da immaginare. Viene sempre dipinto come un tornare indietro, una regressione. E con ogni sorta di dispositivi di incatenamento (morali, culturali, tecnici, affettivi), la civilizzazione si impone come un viaggio di sola andata verso la domesticazione, che più tardi verrà chiamato la marcia del progresso.

Ricapitoliamo. Chiamiamo produzione la politica della domesticazione che lega il prelevamento alla cattura. La politica in cui si è veramente prigionieri della domesticazione. Ora, tutto questo ha un nome: sedentarietà.

Con “domesticazione”, si fa riferimento alla domus dei Romani, che significa “casa”. In “economia” ed “ecologia” troviamo l’equivalente greco, l’oikos. L’uomo civilizzato ha un’ossessione per la casa e per la proprietà. La produzione, in questo senso, è sempre un'”ecopolitica”.

Già al primo sguardo si nota che c’è manifestamente un problema con la nozione di casa (anche allargata), e con la decisione che ne fa il focolare del politico. Facendo un passo indietro, ci si domanda se la coincidenza tra mondo familiare e cattività non sia un vecchio malinteso tipico delle culture sedentarie. In altri termini, bisognerebbe prima di tutto uscire dall’immaginario sedentario per farsi della vita quotidiana un’idea che non sia carceraria.

Si ha l’abitudine di vedere nel nomade un essere votato all’erranza, una sorta di handicappato dell’abitare. In realtà, il nomade è colui che sa cosa significa abitare, perché non gli è stata ancora inculcata la monomania civilizzata che confonde “abitare” con “avere una casa”. Il nomade non ci insegna il vagabondaggio. Ci ricorda che, se si vuole abitare il mondo, bisogna saper familiarizzare con diversi luoghi e non con uno solo.

Il motto della civilizzazione potrebbe suonare così: “a ciascuno la sua casa”. E ogni cosa al suo posto. La casa: è lì che troviamo una sistemazione, è lì che il mettere in ordine ci tiene occupati. Domestico per eccellenza, il gesto di riordinare, detto altrimenti di rimettere incessantemente ogni cosa al suo posto, (“Everything in its right place”, cantavano i Radiohead), sembra aver colonizzato ogni campo dell’esistenza sedentaria. Si vive sedentari dal momento in cui mettere in ordine diviene, ben più che una mania, un rapporto politico. Perché quest’ossessione per il riordinare? Perché è così che le cose divengono efficaci. Chiunque ve lo dirà. Se si vuole che una cosa funzioni a pieno regime, se si vuole poter aumentare il suo rendimento – se la si vuole valorizzare, bisogna assegnarla al suo compito, svilupparla a parte – in una parola, specializzarla. Il riordinare come rapporto politico, è il processo di specializzazione.

Sovra-specializzazione

L’umano si distingue tra i primati per uno sviluppo stupefacente del cervello. La civilizzazione è il momento in cui il vantaggio comincia a diventare un problema. Dopo essere sceso dagli alberi, l’uomo sembra aver privilegiato una certa politica di adattamento: quella che mirava a compensare o aggirare una mancanza fisica (assenza di artigli, di odorato performante, di carapace) invece che a colmarla. Per l’etnologo Pierre Jouventin, è prevalentemente nella prospettiva di proteggersi dai predatori e di cacciare la grossa selvaggina che l’umano ha sviluppato capacità di coordinazione, di strategia collettiva, astuzie, tecniche e pazienza e quindi di proiezione astratta. Questo si è accompagnato ad un aumento della massa cerebrale.

La civilizzazione, è la soglia a partire dalla quale la potenza cerebrale degenera in ipertrofia e disequilibrio. All’interno di un organismo o di una cultura, l’ipertrofia di una funzione implica sempre una vulnerabilità. Essere sovradattato significa essere sottoadattato al rovesciamento delle circostanze. La sovra-specializzazione è un’ipertrofia del sistema nervoso centrale e allo stesso tempo il regno delle sue categorie, dei suoi modi razionali di cattura, di appropriazione del mondo. Qui l’ipertrofia di una funzione all’interno di un organismo si traduce, nelle cose stesse, in una proliferazione, un’epidemia di funzioni esistenziali e politiche. C’è nella civilizzazione una messa in funzione del reale che niente sembra poter rifiutare. Il mondo contemporaneo ne è l’illustrazione caricaturale. Così, la specializzazione è una messa in funzione del mondo, una realizzazione del razionale, e s’impone a questo titolo come il metodo di cattura per eccellenza. Quanto al modo generale del prelevamento che le è necessariamente associato, esso coincide con il processo di valorizzazione.

Violenza

Veniamo alla tesi centrale, ovvero che, nella sua forma civilizzata, la domesticazione sia una forma di predazione. La predazione, in effetti, non svanisce all’ingresso delle case, delle prigioni, dei palazzi, delle botteghe, delle camere da letto, della scuola, né alla soglia di un qualsiasi posto o istanza civilizzata. La produzione è una macchina autonoma che sottomette l’insieme delle cose alla sua dinamica di cattura/prelevamento, di specializzazione/valorizzazione.

“La predazione” non è stata sostituita dalla “domesticazione”. La domesticazione 2 è un mutamento della predazione. Un mutamento considerevole, che fa sì che spesso si tenda a prenderla per la pace. Un po’ come è difficile riconoscere nel mais selvatico un parente

del mais coltivato, tanto sono diversi. La domesticazione 2 non è la pace, è l’impresa generale di pacificazione, nell’accezione coloniale del termine. Quando la pace regna. Questo regno è una guerra condotta incessantemente da mille anni. Una guerra contro il mondo.

Che cos’è il mondo? Di certo è dal momento in cui si corre il rischio, ad ogni istante, di perderlo di vista che si diventa capaci di parlarne. Il mondo è una preda sempre sfuggente, una preda che è inevitabile che tutti inseguano. Una preda che non esiste che per le impronte che lascia, ovvero le cose.

Il mondo è potenza ed orizzonte. E’ una realtà fantasmatica: non lo si può identificare, oggettivare, non si lascia ridurre a nessuna singola cosa. E’ una realtà fantasmatica: un potere che agisce in ogni cosa, che non si può ridurre a nulla, una voce che non si può far tacere, un riso inestinguibile che non è mai stato proprio dell’uomo. Questo è il mondo. L’Occidente, che coltiva il pensiero solo in forma di cose, manca il mondo: sia ignorandolo (credendo che non sia nulla – visto che questa preda non si lascia prendere), sia conoscendolo (credendo la sua cattura possibile).

Il mondo è un tormento congenito, per ogni cosa – e non solo per gli umani. Che puerilità: gli umani inventano la Ragione, e si credono inventori del mondo, credono di avere un accesso riservato ad esso – la civilizzazione sta in questo. E invece gli umani sono specialisti della perdita del mondo, perché si sono messi in testa di produrne le chiavi – come se il mondo fosse a forma di serratura! E tutto è diventato chiave e serratura. L’universo risuona come l’interno di una prigione. Ogni cosa diventa una camera stagna protetta da un codice, che dà acceso ad un’altra camera, ugualmente “protetta”, e così via. L’apriti sesamo suona così: sottomissione. Malgrado tutti i ritornelli sull’accesso illimitato a questo o a quello, è sempre la stessa cosa. Si ha sempre e solo accesso ad un altro intermediario. Certo, giungere ad un cosa è potervi entrare. Ma conoscerne la codificazione oggettiva è tutto il contrario! Assicura solamente di rimanere esteriori a tutto, “blindati”, qualsiasi cosa succeda. Come fare altrimenti? Proviamo a immaginare. Se una cosa fosse una casa, la condizione per entrarci sarebbe andare a guardare il mondo alla finestra. Chi vuole entrare dev’essere capace di guardare al di fuori. E viceversa: chi vuole guardare al di fuori dev’essere capace di entrare.

Violenza civilizzata: violenza seconda

Riprendiamo. La civilizzazione produttiva è in guerra contro il mondo. Che senso dare a questo? Se è corretto dire che la produzione esercita una violenza, come caratterizzarla? E’ Il suo carattere di domesticazione che ci mette sulla strada giusta, e le idee limitrofe di addestramento e sottomissione. La violenza della civilizzazione ha sempre a che vedere con il ritorno alla calma, con l’assoggettamento di ciò che non sa resistere né restare al suo posto. In realtà, si tratta di una contro-violenza, di una violenza di secondo grado (violenza 2). Esiste necessariamente, per quanto ancora da definire, una violenza 1, primordiale, che la civilizzazione contrasta sistematicamente proprio con le forme evocate qui: cattura e prelevamento. Per avere qualcosa da catturare, bisogna che ci sia ancora da qualche parte una realtà ribelle.

Se ci si pensa, la produzione è il più subdolo dei dispositivi di potere. Cattura e prelevamento sono perfettamente intrecciati. Non si preleva che ciò che è sottomano. Ciò che viene prelevato ha già più o meno una forma, perché prelevare è spingere a produrre, e produrre è agire nelle forme. Per farla breve, si potrebbe parlare di captazione, parola che lega l’appropriazione (cattura) alla vampirizzazione (prelevamento).

Non bisogna dunque mai dimenticare la dimensione di provocazione. Se il lupo non urla, non gli si può “insegnare” ad abbaiare. Bisogna sempre suscitare in un senso lo straripamento, l’eccedenza, incoraggiare l’eccesso per insegnargli a parlare nelle forme, e poter così aprire un nuovo “mercato formale”. La produzione è una violenza formale, una violenza nelle forme stesse. Si tratta di contenere, di condurre ciò che si contiene ad esprimersi, per poter dispiegare ancora il mercato della captazione. Più il sistema si confronta con l’eterogeneo, più perfeziona la sua capacità di cattura, la sua rapacità.

Violenza e forma

Arrivati a questo punto, non si vede via d’uscita. Tuttavia la crepa è lì, nella dimensione secondaria, parassitaria, della violenza civilizzata. Perché esiste una violenza primordiale, che oppone alle forme civilizzate, oggettive, le sue proprie forme, irriducibili. La violenza 1 è metafisica. Non ha fondamento – come, ad esempio, un non-si-sa-quale radicamento biologico. Poiché sta dal lato dell’irriducibile, essa è assolutamente refrattaria ad ogni riduzione e spiegazione. Non è mai una questione di midi-clorian nel sangue. La violenza è essere prigionieri dentro ciò che si è. Tutto ciò che esiste deve incontrare il suo limite, provare la reclusione in ciò che lui stesso è, mettere le sue sbarre alla prova. Per questo tutto ciò che esiste è violenza.

La forma di ogni cosa non è il suo contenitore, ma il suo principio di straripamento! La forma di ogni cosa è l’incontro col suo proprio limite, lo scontro con ciò che la limita, ovvero con la sua propria potenza. Chiamiamo violenza 1 la forma come tensione e potenza. Per dirla in modo indiretto, tutto ciò che esiste vive al disopra dei propri mezzi. L’esistenza è in eccesso, e allo stesso tempo in difetto. Tutti abbiamo qualcosa in noi che eccede ciò che siamo, che è un richiamo per tutto ciò che ci manca. Così, il destino non è una risposta, una destinazione finale. Il destino è piuttosto andare incontro alla questione che è propria a ciascuno. Al destino oggettivo, finito, della civilizzazione, opponiamo il destino come carattere irriducibile di ogni cosa.

Ognuno deve sentire la sua esistenza come ciò che è troppo grande per questo piccolo corpo. Questo significa che non bisogna mai accontentarsi di una concezione unicamente positiva delle cose. Le cose hanno un rovescio, che chiamiamo mondo. Se quando ti guardo voglio scorgere qualcosa, devo trovare l’ingresso al tuo mondo. Non c’è uso delle cose che inseguendo il mondo. Perché quando si insegue il mondo, allora si fa uso delle cose. Ed è a condizione di amare, di fare, di praticare delle cose che si va incontro al mondo. Il mondo deve sempre sfuggirci, ma non si può smettere, in tutto ciò che facciamo, di inseguirlo. Solo ciò che contraddice e supera il rapporto strumentale, utilitario, riduttore merita di essere chiamato uso. La posta in gioco dei nostri tempi è di dare a questa visione “fuori produzione” una formulazione politica. Quella di un nuovo regime delle cose e di conseguenza di un nuovo regime della violenza.

E’ imperativo rifiutare la separazione tra forma e violenza. Non bisogna mai cedere al ricatto che consiste nel dover scegliere una contro l’altra. La lotta è non lasciarsi imporre, e quindi confiscare, la forma della lotta. Si tratta di non arrivare mai al grido di impotenza: “non era questa la mia guerra”. E presuppone anche di essere in grado di vederla arrivare.

La violenza è essere prigionieri in ciò che si è. Essa è allo stesso tempo un’emozione e un gesto, quello di spezzare la reclusione, di fare entrare il Fuori. Il Fuori è ciò che non trova né cerca il suo posto nell’universo produttivo – piuttosto si fa spazio.

Quell’universo è organizzato come un insieme di condizioni oggettive. Nel quale ogni cosa è presa nella morsa di qualche altra cosa. Nel quale ciascuno è ad un tempo ciò che deve servire a qualcosa (bisogno, funzione), una moneta (intermediario per un altra cosa), e innanzitutto ciò che deve essere ridotto a sé stesso, ristretto agli arresti domiciliari. L’oggetto è, in ogni cosa, l’ingranaggio del bisogno, della mediazione e del controllo.

Noi diciamo che le cose sono, nel loro principio, straripamento. Le cose sono animate. Non c’è distinzione tra il loro carattere violento e il loro carattere animato. Su questa rappresentazione bisogna rifondare l’etica e la politica. In questo modo assumiamo e riabilitiamo la loro parte violenta. Ogni attacco dei dispositivi della predazione civilizzata deve appoggiarsi sulla violenza 1, e farla crescere. Farla crescere qui non significa scatenarla, ma vederla alzarsi. Cerchiamo un modo di fare che sia un modo di leggere un destino nelle cose.

Il grande errore civilizzato è di avere messo in piedi il progetto di un contenimento generale della violenza. Da un lato, questo progetto, contrariamente alle sue pretese, inventa una nuova forma di violenza, aggiunge violenza alla violenza. La violenza 2 è quella che presiede alla devastazione planetaria. Nella sua furia di assoluta conformità, essa schiaccia il reale. Volendo ad ogni costo poter incollare la mappa sul territorio, essa è un principio di impoverimento. D’altra parte, la guerra civilizzata è completamente vana, poiché essa non giungerà mai alla riduzione integrale, alla resa senza condizioni, della violenza etica (essere prigionieri in ciò che si è, e resistervi). Cieca all’irriducibile, la civilizzazione si prodiga dappertutto a raffinare la reclusione, e quindi, in una certa maniera, a raddoppiare la violenza 1. Più si cerca di contenerla, più la sua potenza di deflagrazione è grande – che la si voglia o no, che la si viva o no.

La questione storica è che la violenza etica, ovunque ostacolata, è ovunque diffusa. E’ allo stesso tempo onnipresente e sistematicamente privata della sua propria potenza, che è di intrecciare in maniera indistruttibile un’emozione e un gesto – un tempo si parlava di una “emozione popolare”. La violenza è sentirsi prigionieri nel luogo in cui si è, in modo tale che questo sentimento è da subito la ventata d’aria, l’attivazione di una resistenza, l’invito al Fuori. Quando l’esiliato non si crogiola nella nostalgia, ma la converte in forza: potenza dell’incontro, preparazione alla battaglia.

Il nostro ruolo è recuperare la violenza 1, e riallacciarla con la sua propria coerenza. Bisognerà quindi immaginare, altrove, le rappresentazioni formali che lo permettono. Si può già dirlo, questo presuppone di assumere la violenza politica in un modo inedito. Chiamiamo violenza politica la legittimità di ogni attacco ai dispositivi di predazione produttiva. Dove la civilizzazione è una contro-violenza, la violenza politica è una contro-predazione. Traendo profitto da una certa tolleranza sociale nei confronti della violenza, si tratta di spingere sempre, incalzare le forze avverse, fare arretrare tra noi l’intolleranza alla violenza, e oltrepassare i limiti.

La violenza politica non può divenire autonoma, astrarsi dalla situazione storica, ovvero da una certa configurazione del rapporto di forza, delimitando un campo da gioco con le sue proprie regole. Partendo da qui, è necessario sempre cercare i limiti. Questo significa che non ci si accontenta mai semplicemente di giocare – d’altronde, la repressione si è auto-invitata nelle nostre vite. Ma questo non significa in nessun caso ignorare i limiti. È il lavoro dello Stato, quello di dipingere i rivoltosi con i colori degli assassini. Ancora una volta, violenza non significa disprezzo delle forme, ma al contrario innamorarsi di certe forme, che impongono di attaccarne altre.

Così, si spinge tanto a lungo da giungere a suscitare forme troppo grandi per i gusci sociali. Dunque non si può concepire la violenza politica separandola dal versante affermativo delle forme che si dispiegano. In seno ad un’avventura collettiva, essa è sempre un modo di abbassare l’immancabile pressione che si accumula. Innanzitutto, per mezzo di una san(t)a battaglia – è sempre buona cosa affrontare le tecniche e le procedure della predazione produttiva. E, in seguito, per mezzo della conflittualità interna. Perché continuiamo a porci le domande più logoranti, e perché non si smette di evacuare la domesticazione predatrice che si insinua, si installa, ci imprigiona e ci distrugge. La merda esiste, e bisogna evacuarla. Una forma si dispiega e cresce, poiché essa è generosa ed esigente in ciò che ha di più ambizioso, e prende a calci ognuna delle sue debolezze. In fondo, l’intollerabile è il punto critico sempre possibile tra il conflitto interno e la semplice lotta.

Il fuori

La civilizzazione è la violenza come cattura dell’anima delle cose. Veniamo spossessati dell’etica, della nostra anima violenta, per mezzo di un soffocamento e una pressurizzazione. E’ la famosa “violenza sociale”, diffusa, atmosferica, e le realtà più solide che la garantiscono, esplicitamente o meno. Siamo cresciuti in quest’atmosfera. Tutto è fatto perché ci si possa adattare. Se c’è una cosa che diciamo, è che bisogna rifiutare la tesi di un nostro possibile adattamento a tutto questo.

Insomma, la civilizzazione è un modo di predazione contorto, una violenza fondata sul contenimento della violenza. Il contenimento è semplicemente la produzione di contenitori per la vita. L’organizzazione della vita si dispiega in condizioni oggettive, che ci vengono spacciate per il reale. Invece, il reale è l’irriducibilità delle cose. L’irruzione del Fuori. Se il Fuori non è mai molto lontano, è perché, come ogni cosa, è un piano di lavoro, un concentrato di storia universale. Oggi lo sappiamo: l’umano ha qualcosa della stella, del minerale, della pianta, dell’animale, del fungo e del batterio. Non c’è più bisogno di Dio, perché abbiamo largamente di che sentirci partecipi di qualcosa di infinitamente più grande di noi stessi – a condizione di difendersi da ogni amor proprio fuori posto.

La storia della riduzione della violenza, quella della contro-violenza, è la storia del suo insuccesso. Il regno delle condizioni oggettive si accompagna sempre al mito che proclama che si può tenere lontano il Fuori, e testimonia che si deve farlo. Vengono celebrate le prodezze di coloro che hanno saputo trionfare sul Fuori. La paura che esso fa sorgere è una fonte infinita di rappresentazioni, che rivelano allo stesso tempo la sua presenza irriducibile. Senza dubbio è con i film dell’orrore che comprendiamo meglio che cosa sia una porta. Per riprendere i termini un po’ vaghi dei biologisti, la strategia adattiva della civilizzazione è aberrante, perché fondata sulla paura, e poi sulla sua rimozione. Si vive nel rifiuto dello straniero, dell’intruso, dell’imprevisto, o per dirla altrimenti, di tutto ciò che potrebbe stimolare le nostre competenze adattive – farci crescere. Fino al più piccolo dei nostri movimenti tutto è fatto per ridurre lo scarto, per sciogliere l’eterogeneo. Piuttosto che rapportarsi al Fuori, piuttosto che attingere alla fonte di ciò che ci anima, viene prodotto il “milieu“, il prefabbricato adattivo.

Il milieu è una cupola posta sul mondo, neutralizzazione generale, open-space della produzione. Il milieu, è la vita meno il rischio. L’epoca in cui si può – in cui si crede di potere – non prestare attenzione a ciò che ci circonda. Mutilazione.

Eccolo, il grande fallimento. Con l’idea di deviare il suo corso, di costringere tra argini imponenti “la violenza selvaggia” – la violenza senza forma, che non esiste – si è fondata la strategia adattiva su una rimozione massiva, industriale del fuoco etico – l’esistenza stessa. Il risultato è l’invenzione della brutalità. Il risultato è l’estinzione. Le nostre condizioni di esistenza sono attaccate. Ma l’estinzione nasce come soffocamento del fuoco etico. Questo fuoco o questo riso è inestinguibile. Il processo che mira a spegnerlo può arrivare a distruggere un’infinità di pianeti prima di riuscirci. Il milieu è prodotto, e come tutti i prodotti, deperibile. “L’ambiente”, è tutto ciò che si è potuto produrre per non avere a che fare con l’infinito.

Da lì in poi, la posta in gioco non è contenere la violenza. E’ impossibile e dannoso. La posta in gioco è proporre una nuova cultura della violenza. Per fare questo, bisogna abbandonare il modello agropastorale. È nel mondo infinito del cacciatore collettivo che andremo a cercare gli elementi di un nuovo regime della violenza – di una nuova politica delle cose.

1 Quando ci si riflette, questo assomiglia ad una sorta di predica al contrario, e diventa sempre più complicato dare torto a quegli immancabili stupidi che vedono in Macron un discepolo di Satana.