QUATTRO BOZZETTI NATURALISTICI DELLA SOCIETÀ POST-INDUSTRIALE

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Un breve sussidiario illustrato – in divenire – di alcune forme di vita del tempo presente

Ritratto di giovane uomo

Giorgio Sparuffi aveva ventiquattro anni, un salvadanaio a forma di porcellino pieno di vecchie lire e un senso di malessere profondo che di tanto in tanto gli appannava i pensieri, in modo simile a come succedeva ai suoi occhiali tondi nei giorni di pioggia.

Si trattava di un sentimento indefinito, di cui diceva di aver sempre avuto memoria, qualcosa che non riusciva a togliersi di dosso, come una forma ostinata di psoriasi. Dopo anni passati a interrogarsi sulla sua origine, era giunto a considerarlo un male congenito e, con un po’ di malevolenza, possiamo dire che costituiva il suo solo tratto distintivo.

Non era particolarmente bello, ma nemmeno particolarmente brutto.

Era di media altezza, dal fisico deboluccio e aveva sempre goduto di una salute tentennante che lo costrinse a tossire per tutta l’infanzia.

Una volta, per la festa di Carnevale organizzata dall’Associazione Genitori Single, la madre lo vestì da Zorro, e quella fu la pena alla quale sarebbe poi stato condannato da adulto: quella di essere tutti i giorni mascherato con lo stesso travestimento di tutti gli altri.

Non era particolarmente intelligente, ma nemmeno stupido, e così, resosi conto della situazione, in adolescenza aveva provato a darsi un tono, leggendo poesie e iniziando a fumare, ma delle poesie non capiva granché e delle sigarette non apprezzava la spesa e l’odore di tabacco che gli rimaneva sulle dita.

E alla fine, semplicemente, si era reso conto che il suo malessere andava attribuito alla cagionevolezza che da sempre accusava: era malato d’anonimato.

Così smise di uscire, abitando le mura di casa senza che mai nulla succedesse.

Quindi, dacché le prime timide pelurie gli avevano forellato le guance, le ossa si erano sformate e i capelli erano sfumati in un pianoro di calvizie, si poteva dire che più che cresciuto, Giorgio Sparuffi fosse invecchiato.

Forse per questo, in una mattina di marzo, sotto a un cielo lattiginoso, vide passare un tram, carico di passeggeri schiacciati come in una conigliera, e provò un’insanabile voglia di uccidersi, così aprì la finestra del salotto, si sporse e, con un’intrepida audacia che mai l’aveva posseduto, si lasciò cadere giù. 

Per uno scherzo del destino, il suo precipitare fu attutito dai fili del bucato del balcone del primo piano e, dopo una capriola, Giorgio Sparuffi si ritrovò in piedi sul marciapiede, illeso. Un piccolo assembramento di curiosi si radunò intorno a lui. A uno dei passanti, che gli chiese come mai desiderasse togliersi la vita, rispose che non lo sapeva, che la lamina sottile del cielo negli ultimi tempi gli fosse apparsa più grigia, metallica, come la portiera di un’auto che non poteva permettersi.

Ho sentito dire, però, che negli ultimi tempi sta meglio.

Attualmente credo ricopra la carica di sottosegretario di un partito populista di cui non ricordo il nome.

Ritratto di giovane donna

Beatrice Alba Maria, figlia femmina unigenita del Cavalier Antonio Galanti, nacque bellissima e ricchissima. Suo padre, Presidente Solo ed Esclusivo della Galanti S.p.A., un colosso dell’industria tessile, aveva costruito un impero delocalizzando l’azienda in Bangladesh e negli anni era stato capace di surclassare la concorrenza grazie allo zelo di una nuova specie di bachi da seta incredibilmente produttiva, coadiuvato a quello della sottopagatissima manodopera locale.

Beatrice rappresentava, insieme all’immensa fortuna accumulata, la più grande gioia del padre -il quale, ndr, era stato recentemente insignito dell’onorificenza di Cavaliere del Lavoro grazie alla fortunata mossa pubblicitaria di assumere dieci bambini affetti da sindrome di Down con l’incarico di pulire i telai, incarico che questi svolgevano con inaspettata efficienza e per la quale il Cavaliere ogni giorno li premiava con sonore pacche virtuali sulle spalle in video chiamata.

Beatrice, che il padre avrebbe portato sul palmo della mano perché mai nulla le accadesse, che avrebbe fermato il giro del sole perché i raggi non ne invecchiassero la pelle, crebbe fino al decimo anno di vita in salute e bellezza.

Tuttavia un giorno di temporale, freddo e ventoso come in una fiaba, Beatrice contrasse gli orecchioni.

Il padre fece giungere i miglior medici del paese, i quali non giudicarono gravemente i sintomi e, dopo una cura di una settimana a base di sciroppo alla fragola, Beatrice guarì.

Nel terrore di perderla, fece costruire una lunga scala a chiocciola che si innalzasse oltre il tetto, laddove le rondini facevano il nido, che conduceva a una porta blindata del quale egli solo aveva le chiavi, che chiudeva il mondo fuori da una piccola stanza, nella quale Beatrice sarebbe potuta vivere per sempre, senza mai uscire.

Beatrice crebbe circondata da libri e giocattoli costosi; riceveva quattro volte alla settimana un maestro precettore che si recava a farle lezione di italiano, matematica, scienze, inglese e latino.

Col trascorrere del tempo iniziò a manifestare la curiosità di scoprire il mondo, che osservava da una piccola finestra nel tetto, che divenne poi desiderio, che crebbe voracemente fino a diventare ossessione.

Osservava stormi volare nel cielo, ma non conosceva il verso di alcun uccello. Osservava il vento scuotere i meli, ma non ne riusciva a immaginare la sensazione sulla pelle.

A tredici anni tentò la fuga per la prima volta. Si sporse oltre la finestra, discese lungo le tegole del tetto e scappò in strada, finché la servitù non la braccò.

Il padre a quel punto fece mettere delle travi alla finestra, privandola del suo punto di osservazione.

Beatrice allora, decise di rifiutarsi di mangiare e di fare lezione e passava le giornate battendo coi pugni contro la porta, per destare l’attenzione paterna.

Finché un giorno, dopo essere riuscita a togliete le viti dalle inferriate, aprì la finestra e fuggì.

Il padre la cercó per giorni, settimane, che divennero mesi e poi anni, ma non trovò mai Beatrice e lei, d’altro canto, non tornò mai a casa.

Crescendo si era fatta bella, ma la solitudine e la prigionia l’avevano resa fragile come un pettirosso di cristallo, per usare una similitudine in voga tra i dipendenti meno qualificati della Galanti S.pA.

Morì nel giorno del suo sedicesimo compleanno per un’overdose di Marlboro rosse.

Ritratto di uomo anziano

Lillo Guarnieri, settantadue anni e una macchia color vinaccia sparsa sulla testa brulla, era un guardone di guardoni. Dacché la moglie Anna, sua compagna per mezzo secolo, era morta per via di alcune complicazioni successive a un’appendicite, il signor Guarnieri si era trovato solo.

Solo a colazione, a pranzo e a cena, si scopriva felice nel notare ogni piccolo malanno che progressivamente si rivelava sul suo corpo stanco. Ogni nuova ruga, ogni dolore reumatico era per il signor Guarnieri un pranzo di Pasqua, un piccolo anticipo di morte che aspettava trepidante. Tutto questo finché un giorno, mentre sonnecchiava annoiato davanti a una trasmissione pomeridiana, scorse per una frazione di secondo una piccola porzione di capezzolo della conduttrice Carolina Meravigli, lasciva regina dei talkshow postprandiali, dovuta probabilmente a una spallina di un pelo troppo larga e all’assenza di reggiseno.

Guarnieri, destatosi improvvisamente, sentì un formicolio nel braccio sinistro, provò ad alzarsi in piedi ma non riuscì, al che allungò la mano verso la cornetta del telefono per chiamare un’ambulanza, convinto dell’infarto imminente. Ma proprio mentre stava per digitare la prima cifra, si rese conto che non era un infarto, ma una sensazione così remota da apparirgli nuova: Lillo Guarnieri, dinanzi alla piccola minnuzza della Meravigli, ebbe un’erezione. Era da una decina d’anni che i corpi cavernosi del Guarnieri non si inturgidivano sotto stimolo libidinale: questo fenomeno rappresentava per lui l’inizio di una seconda adolescenza. Troppo vecchio per sedurre, ricorse a donne di mestiere. Per settimane batté ogni strada provinciale e statale per saggiare l’offerta del mercato. Ragazze giovani, vecchie baldracche, italiane, slave e nigeriane, tutte erano per Lillo Guarnieri epifania d’amore, e la transazione economica non era che una formalità, un piccolo compromesso cui attendere senza troppo pensarci. In breve, però, esaurì le finanze. D’altronde aveva speso la vita facendo il tranviere, e non aveva messo da parte poi troppo. Tuttavia, i suoi turgori non lo abbandonarono con la fine della prosperità. Così prese ad andare ugualmente nei boschetti e nelle aree abbandonate, non più per consumare, ma per guardare chi consumava. Eppure non é facile improvvisarsi guardoni se non lo si è per caratura: qualche residuo di cattolicesimo lo faceva sentire in affanno di fronte a rapporti altrui. Notò però, tra i cespugli e le sterpi, che di guardoni ce n’era in abbondanza e che l’osservarli non gli dava turbamento, ma anzi costituiva uno spasso ben maggiore che osservare un rapporto completo. Munito di binocolo, passava ore appostato a osservare maniaci, aspiranti depravati e semplici pervertiti spargere seme nascosti nell’ombra. Loro non notavano Guarnieri, intenti a guardare come si presuppone da un guardone, troppo concentrati sulla loro stessa necessità fisiologica per accorgersi di un guardone di guardoni. Un giorno, in una piazzola fuori dall’imbocco della tangenziale, mentre studiava un uomo strambo avvolto in uno spolverino color panna che si picchiava freneticamente l’uccello, Guarnieri avvertì un fastidio, un formicolio strano al braccio sinistro. Con la mano destra si tastò i pantaloni, effettivamente il gonfiore era presente come al solito, sicché non si agitò più di tanto. Mentre veniva, schizzando in modo incivile, quell’uomo strambo notò a qualche decina di metri un vecchio che si contorceva per terra, con un binocolo a terra. Quando arrivò l’ambulanza, dissero che Lillo Guarnieri, settantadue anni, era morto d’infarto.

Ritratto di donna anziana

Se come dice qualcuno siamo quello che mangiamo, allora nessuno si stupirà che la signora Leandra Altieri, anni ottantadue, sia stata trovata dai servizi sociali mentre giaceva nel letto, semi mummificata, ricoperta di guano e mangime, molto più simile a un volatile di grosse dimensioni, poniamo un grosso gabbiano, piuttosto alla nobildonna che era, nobildonna in senso stretto, di origini nobili si intende, non a caso la signora Leandra si era dichiarata per decenni -prima d’impazzire, è logico- erede di una gloriosa casata napoletana – lei stessa amava dirsi una genuina rappresentante della decaduta nobiltà meridionale.

Provocherà sconcerto, si capisce, immaginare una signora anziana morta nel letto, soffocata dai miasmi della merda d’uccello, divorata dal muschio. Facoltosa sì, ma non particolarmente avvenente né brillante, nubile fino alla mezza età, scoprendosi invecchiare aveva deciso di cedere alla corte di un uomo di qualche anno più vecchio, un antiquario di nome Rogerio che odorava sempre di candeggina, il quale aveva bottega vicino al centro. Il matrimonio non durò che pochi mesi: una volta che ebbe disponibilità delle ingenti risorse della Altieri, l’uomo evaporò con tutte le sue ricchezze, e fu impossibile rintracciarlo sia per la polizia che per alcuni investigatori privati assunti dalla moglie. La signora Altieri, rimirandosi allo specchio, si trovò non solo sedotta e abbandonata, ma anche e soprattutto povera in canna. Il palazzo sfarzoso in cui dimorava, di proprietà della sua famiglia da quasi un secolo, si affacciava sulla darsena dei due canali, e dalla finestra del salotto la signora Altieri scorgeva ogni giorno gli stormi di piccioni che andavano a elemosinare briciole ai turisti. I piccioni, se ci si pensa un attimo, altro non sono che comuni colombi, non troppo diversi -ne abbiano pazienza gli ornitologi- dal pollo. Così la signora, memore delle tecniche di caccia contadine che mai aveva adoperato ma delle quali aveva avuto una qualche vaga testimonianza in gioventù, quando i contadini asserviti alla famiglia si recavano dal padre portando in dono pennuti e conigli cacciati nelle tenute di famiglia, iniziò a imbevere di vodka i chicchi di mais e a tirarli ai piccioni i quali, ubriachi, cadevano poi facili prede. Non trascorse troppo tempo prima che i vicini di casa e gli avventori della darsena si accorsero di una anziana signora che, munita di un grosso sacco di iuta, ogni giorno scendeva di casa per catturare i volatili. Tali episodi, che si verificavano quotidianamente, attirarono immediatamente le ironie della gente, che si compiaceva nel vedere un’anziana un tempo ricca, ora costretta a catturare i piccioni per aver di che mangiare. La signora, del canto suo, proseguì per diverso tempo, affinando le pratiche di caccia e le tecniche di cottura -si sa, il piccione non è facile da cucinare, e se qualche ardito avesse avuto mai il coraggio di assaggiarne uno preparato dall’Altieri, al forno, ripieno, come si preferisce, avrebbe goduto di un ottimo pasto, ammesso e concesso che si possa definire un ottimo pasto un volatile di città. Ma come dicevamo prima, se siamo quello che mangiamo, forse è per questo che la signora Altieri lentamente, con lo scandire dei giorni iniziò ad assomigliare sempre più a un piccione: dal colorito grigiastro di pelle, sviluppò una sorta di gorgiera violetta intorno al collo, iniziò a tubare per il corso dei canali, mentre i ragazzini le tiravano sassolini dall’alto, mentre lei provava ad adoperarsi al volo. Un politico progressista, Bruno Fiacchetti, vicino ai giovani e dal sorriso irresistibile, si adoperò per una petizione che garantisse qualcosa da mangiare alla signora. “Vergognoso vedere i nostri anziani in queste condizioni!”, tuonava sui social network. Non dalla stessa parte le organizzazioni animaliste, le quali si ritrovarono in un presidio di protesta sotto casa della signora, accusata di mettere a repentaglio l’ecosistema della darsena mangiando tutti i piccioni, che costituivano l’alimento principale delle grosse nutrie pavesi che da qualche tempo a questa parte avevano fatto tana nel passaggio di scolo del canale. Ma Milano, si sa, è una città di sinistra, moderna, fluida, e il rampante politico di centro sinistra riuscì nell’intento. Grazie al contributo di un famoso prete di strada, don Pino Agostei, la signora ottenne in una settimana aiuti alimentari sufficienti a sfamare un quartiere. Latte a lunga conservazione, pacchi di pasta, fagioli in scatola, la casa traboccava di alimenti. Ma la signora, l’abbiamo già detto, mangiava piccioni. Provate voi, a età avanzata, a provare a smettere di mangiare l’unico cibo per il quale si ha gusto, specie se delizioso, come la signora trovava i pennuti cittadini, specie se gratuito. Un giorno, entrando in casa della signora, i volontari dell’associazione “Non lasciamoCi soli!” si fecero il segno della croce, perché sul letto in cui normalmente giaceva trovarono un tappeto di guano e resti di becchime, e la signora ormai tramutata in un colombo di un metro e mezzo, morta di stenti, poiché agli aiuti alimentari di un politico di centro sinistra aveva sempre preferito i piccioni di città.