ARIA NELLA TESTA
Dopo tutto quello che è successo, che senso ha continuare a parlare dei sogni della memoria? E poi, Cortazar era davvero così bello? Cosa centra De Andrè con l’appennino? Non avendo risposte, ci interroghiamo sulle domande.
Tra le infinite cose di cui si potrebbe parlare, o dire, o fare, questa è una delle meno importanti. Tuttavia alcuni pensieri ciclicamente mi ritornano in mente e non ho modo di controllare quella funzione del sistema nervoso che si occupa di smaltire gli avvenimenti più problematici, ovvero sprovvisti di una connotazione emotiva ben riconoscibile, più complessi da scomporre. In questo momento storico ho molto tempo da perdere, quindi in generale mi capita spesso di pensare e in particolare riaffiorano dalla memoria alcuni episodi legati all’Aprile dell’anno scorso. Quindi il mio cervello, che poi sono io (ma che senso ha parlare di io?), ogni tanto produce come delle impercettibili scariche di elettricità, che assumono la forma di piccole emissioni d’aria dall’esofago. Devono essere le sinapsi che sfregano tra di loro, che fanno stretching, respirano, fanno scrocchiare le ossa delle mani e si concentrano sulla circolazione. Il linguaggio è qui impreciso e metaforico: accordare il campo semantico del sistema nervoso centrale con quello dell’apparato digerente presenta delle difficoltà abbastanza evidenti, che se fossi un buono scrittore riuscirei a dribblare. A proposito di quest’ultima tesi, oltre che mancarmi gli strumenti tecnici sono anche poco originale, dato che la paternità dell’immagine non è mia, ma è di Cortazar, che era anche piuttosto bello, magari non al livello di Hemingway o Artaud, ma sicuramente era un uomo affascinante.

Nuovamente, per districarsi tra gli innumerevoli argomenti, molti dei quali attingono al profondissimo pozzo degli argomenti del nulla (altra espressione di Cortazar), occorre impostare uno schema che consenta di discernere ciò che è rilevante: come dicevano Kundera e mia nonna, separare il grano dalla pula. Nell’Aprile del 2019 sono successe molte cose che non hanno importanza, altre che hanno un’importanza relativa, altre che invece hanno un’importanza definitiva e inappellabile, ma questo per lo più riguarda me e non ha nessun tipo di dignità letteraria. Climaticamente, non fu il più crudele tra gli Aprili. Leggevo con un certo divertimento l’aggettivazione dei siti delle previsioni del tempo, che parlavano messianicamente di un anticiclone ingordo, di una primavera sub-sahariana e di altre iperboli che ora mi sfuggono. Dire qualcosa sul mio stato emotivo non arricchirebbe la narrazione: ero disperato. Senza scomodare l’etimologia o gli scrittori del mediterraneo (Montale, Biamonti, Valery, Camus) trovo che non sia un problema mio, ma un’evidenza dell’epoca e del mondo in cui vivo, quindi, come ora, non me ne preoccupavo. In funzione di una serie di fortunate contingenze culturali e socio-economiche, mi ritrovavo con qualche giorno da perdere e con la consapevolezza che andarsene è piacevole. Per dirne tre che mi vengono in mente, Laborit ha scritto “Elogio della fuga”; Cacucci ha scritto Puerto Escondido e Salvatores all’inizio degli anni ’90 ha girato la Tetralogia. Senza arrivare fino al Marocco o al Messico, me ne sono andato in giro per quattro giorni tra l’appennino e il mare, insieme ad altri due.
Per la terza volta, non serve parlare degli altri, e non serve parlare di me. Descriverli svierebbe l’andamento della narrazione, appesantendola con particolari inutili; così come entrare negli equilibri del loro rapporto, o nell’inestricabile dinamica dei gruppi di tre persone: non aggiungerebbe niente. È rilevante un elemento, uno solo, che ha a che fare con i bagagli che avevamo sulle spalle. Oltre agli zaini avevamo infatti una piccola chitarra a quattro corde che emetteva un suono debole ma bello. Quando non camminavamo uno di noi prendeva in mano l’ukulele e si metteva a canticchiare. Il repertorio era scarno ed eseguito senza particolare abilità. Avevo in testa un paio di canzoni, una che diceva di aborti e promesse non mantenute, ed un’altra a proposito di alcune donne e di un cappello di volpe. Ognuno aveva poi altre risorse e le condividevamo. Non ha importanza dire di che canzoni si tratta realmente: il fatto è che le cantavamo con la nostra piena presenza, emotivamente partecipi. Non so niente di Heidegger, ma potrebbe aver detto qualcosa su questo tema.

Nel frattempo sono passati sei mesi, e alcuni elementi sono mutati, altri sono rimasti stabili: questo per l’ennesima volta, non ha importanza. Le persone che ho intorno rimangono disperate, ed io con loro. La città continua ad espandersi verso la periferia, i creativi gentrificano, i piccioni sono sempre diarroici e obesi. La metropoli opera un placido e perenne omicidio, garantito dalla pace sociale, nei confronti di qualsiasi forma di entusiasmo. I topi prosperano nelle fogne e l’Appennino non accenna a volersi muovere, almeno fino a che non torni Maometto dal mare. Il lavoro intellettuale rende tutti più nevrotici e David Foster Wallace è morto da più di dieci anni. Settimana scorsa ho caricato sull’iPod un album di De André.
Le trame che operano nei sotterranei del sistema nervoso sono tendenzialmente inestricabili: se non fosse così, immagino che un’ora di analisi non costerebbe 80 euro. Però, provando a individuare qualche regolarità, mi sembra che alcune azioni avvengano senza una sincera intenzionalità e solo dopo qualche tempo, sedimentandosi, vi sia la possibilità di svelarne le motivazioni. Svelare è in realtà un termine troppo forte, tuttalpiù si producono ipotesi per spiegare quanto accaduto. Conglomerandosi, le ipotesi danno poi forma a narrazioni, più o meno convincenti. Ma perché questa premessa così barocca? Ciò mi è utile per poter parlare dell’album di De André che ho caricato sul lettore mp3. È avvenuto in un modo sostanzialmente casuale, potrei aver sentito un pezzo in Radio o qualcosa del genere. In ogni caso non ha importanza, l’unica cosa che conta è che è avvenuto senza una causa immediatamente riconoscibile. Poi, l’altra mattina ho ascoltato il disco e le canzoni erano esattamente le stesse che suonavamo in viaggio. Non avevo mai tematizzato che appartenessero allo stesso lavoro. Erano tutte lì, una in fila all’altra: è stato come pucciare una madeleine in una tazza di tè.

Le canzoni di quell’album sono state trasfigurate dal ricordo, hanno viaggiato sottoterra per sei mesi e ora riemergono: alcune frasi in particolare sembrano far combaciare perfettamente tra i due lembi dello iato temporale. Si tratta di sensazioni particolari, piacevoli ma definitivamente tristi, a proposito, per esempio, del tempo perduto, di chi se n’è andato, della solitudine. Si tratta di provare a chiamare i ricordi con il loro nome, di assecondare le fogne delle sinapsi, seguire l’odore di zolfo e vedere cosa emerge. Il risultato non è entusiasmante: non ci può essere nulla di entusiasmante nell’ascoltare un disco di De André e trovare delle analogie sentimentali sotto forma di aria nella testa. Eppure è un modo di accedere con grazia a qualcosa con cui è difficile relazionarsi; qualcosa che riguarda la propria memoria emotiva e il proprio vissuto. Può aiutare a collocare la propria esperienza all’interno di una narrazione di sé, a provare a immaginarsi distinti da ciò che non si è, da ciò che non si vuole essere. Non so cosa renda una vita degna di essere vissuta, e se anche lo sapessi probabilmente non lo scriverei qui. Ciò che mi suggerisce tutta questa fenomenologia è solamente la volontà di conferire un’attenzione e una cura particolari nei confronti di quello che riemerge dai luoghi della psiche, a cui è doveroso rapportarsi con delicatezza; ma questo, in realtà, non ha importanza.