L’AMBIENTE MILITANTE E IL SUO LINGUAGGIO

Pubblicato da admin il

Ovvero Autorità e uso della lingua è ridondante

Dopo questi giorni cambierà tutto – si dice. Però molte cose sono dure a morire, e tra queste c’è sicuramente un certo uso tossico della lingua tipico degli ambienti militanti. Dunque, quale momento migliore per provare a riflettere un attimo sulle incrostazioni e i meccanismi automatici che affliggono e spesso soffocano quello che si vuole dire. Non ci sentiamo esenti dal problema, quindi inviateci ulteriori annotazioni, critiche ed insulti, e saranno sempre ben accetti.

Un’influenza nefasta
Ovvero autorità e uso della lingua

Se questo Cyberg sublime insinuasse il futuro come soggetto post-fordista, i suoi luoghi palpabilmente masochistici come agenti estatici del superstato sublime devono essere decodificati come il “Dna ora quasi illeggibile di una Detroit in fase di rapida industrializzazione”, così come la sua strategia da Robocop di negoziazione carceraria e controllo delle strade rimane quella instancabilmente americana di infliggere rigenerazione tramite violenza alle varie zone selvagge razzialmente eteroglosse nei meandri della città.


Questo passo astruso e contorto ai limiti dell’illeggibile, è citato da David Foster Wallace nel suo saggio Autorità e uso della lingua come esempio di “cancro verbale ormai in metastasi che affligge tanto la scrittura accademica quanto la prosa di ampia divulgazione”, una “grottesca abiezione dell’Iss (inglese scritto standard)” utilizzato correntemente nella scrittura accademica e nella divulgazione specialistica.
Orwell prima di lui aveva definito questo linguaggio una “mistura di vaghezza e pura incompetenza in cui è normale incappare in lunghi brani quasi del tutto privi di significato”.
Wallace spiega così questa maniera di scrivere e di esprimersi:

L’oscurità e la pretenziosità dell’Inglese accademico si possono attribuire in parte a uno sconvolgimento nel delicato equilibrio retorico fra la lingua come vettore di significato e la lingua come vettore del curriculim vitae dello scrittore stesso. In altre parole, quando la vanità/ insicurezza portano lo studioso a scrivere principalmente per comunicare e rafforzare il suo status di Intellettuale il suo inglese viene deformato dal pleonasmo e da uno stile pretenzioso (la cui funzione è mettere in luce l’erudizione dello scrittore) e da opache astrazioni (la cui funzione è impedire che qualcuno possa attribuire allo scrittore un’affermazione precisa passibile di confutazione o ludibrio). Quest’ultima caratteristica, un livello di oscurità che spesso rende impossibile capire cosa stia effettivamente dicendo la frase in Ia [Inglese accademico], assomiglia talmente tanto ai discorsi fumosi politici e aziendali che si è tentati di pensare che il vero scopo dell’Ia sia l’occultamento, e la sua motivazione la paura.

Questa descrizione può essere applicata molto bene ad un altro genere di linguaggio, quello dei movimenti sociali “anticapitalisti”. Wallace non lo dice, ma lo aggiungo io: c’è solo una cosa peggiore di ciò che è brutto e macchinoso, ovvero la sua imitazione grossolana e acritica. Questa osservazione riguarda soprattutto una tendenza ad esprimersi in un certo modo che in alcuni casi assume i connotati di un vero e proprio stereotipo, e non è certo generalizzabile. Ma resta comunque il fatto che a leggere testi e comunicati di diversa origine e provenienza prodotti dal variegato mondo “antagonista”, di cui tutti noi facciamo parte, ci si imbatte di continuo in un linguaggio semplicemente improponibile. E visto che il problema della difficoltà a comunicare all’esterno è uno dei più sentiti e discussi, vale la pena rifletterci su. È l’obbiettivo che mi propongo con questo lavoro.
Prima di iniziare tengo a precisare che la critica che verrà fatta è anche un’autocritica, e va interpretata come un tentativo di riflettere su un modo di esprimersi dal quale noi di Teatro di Oklahoma non ci sentiamo esenti e non abbiamo intenzione di chiamarci fuori.

Chi di noi, girando qua è là nel nostro ambiente, non è mai incappato in un linguaggio astruso, fumoso, inutilmente complesso e pleonastico, pieno di termini specialistici e accademici usati male, a tratti incomprensibile?

Per dirne una, l’ispirazione per questo articolo mi venne da un incontro a Bologna, città in cui ho vissuto per alcuni anni, durante il quale una ragazza di un collettivo anarchico tenne un intervento sulla situazione urbanistica e politica di una grande città italiana. Se il discorso in sé aveva dei contenuti (per quanto se ne capiva) tutt’altro che disprezzabili o superficiali, quello che mi colpì in negativo fu il linguaggio, che aveva tutte le caratteristiche elencate sopra. Eppure l’intervento fu accolto con grande apprezzamento dai presenti, e questa cosa mi stupì ancor di più. A sentir loro, la ragazza avrebbe tenuto un discorso perfetto: “Contenuti condivisibilissimi, espressi in maniera impeccabile” fu uno dei commenti. Sui contenuti nulla da dire. Ma che fossero “espressi in maniera impeccabile”…

Qui si tratta di svelare una grossa e fuorviante incomprensione di fondo su cosa voglia dire, per delle giovani generazioni bianche altamente scolarizzate, esprimere qualcosa in maniera impeccabile. Senza alcuno snobismo o accusa al modello di istruzione vigente, è doveroso e doloroso ammettere la superficialità e il pressapochismo di molti giovani, “militanti” e non, che si dovrebbero reputare secondo i canoni ufficiali “istruiti”. Chi ha formato il nostro gusto? E perché ci piace un certo stile? Che tipo di caratteristiche rendono un modo di parlare e di scrivere autorevole e degno di essere ascoltato?
Uno dei maggiori modelli che abbiamo di “stile autorevole”, che ha un’influenza, forte anche se inconsapevole, sulla lingua e lo stile di parte dei “movimenti anticapitalisti” (e non solo su di loro), è appunto il linguaggio accademico criticato dal genio linguistico di Wallace. Lo stesso linguaggio, ad esempio, imitato dalla ragazza a Bologna e considerato dall’uditorio degno di stima e considerazione. Il punto è che si tratta di una percezione condizionata, di un modello talmente introiettato nella nostra educazione culturale da formare in modo implicito il nostro gusto e le nostre valutazioni.
Un’autorità e un potere che agisce nel campo del linguaggio: l’autorevolezza dello stile accademico.

Il paradosso dell’essere antiautoritari e usare uno stile che subisce profondamente l’influenza del mondo accademico e del potere culturale è sottile, perché di stile non parla più nessuno. Nessuno se ne occupa, spesso non viene percepito se non in modo empirico e immediato. Viene invece usato per lo più in modo irriflesso e inconsapevole. Ma nonostante questo è fondamentale, uno dei più importanti vettori di comunicazione.

Comunità
Ovvero dimmi come ti esprimi e ti dirò chi sei

Riprendendo Wallace, quando dico o scrivo qualcosa in realtà sto comunicando molte cose diverse, e il contenuto enunciativo (cioè le informazioni verbali che sto cercando di trasmettere) è solo una parte del messaggio. Un’altra parte riguarda me, il comunicatore. È quella che Roman Jakobson, linguista e semiologo russo del secolo scorso, ha definito la funzione poetica della lingua: quella particolare funzione del linguaggio che riguarda la forma del messaggio, il modo in cui viene espresso. Lo stile appunto. Alla base sta l’idea che ci siano tantissimi modi diversi di dire la stessa cosa, tutti potenzialmente corretti: “Un tipo mi ha dato uno schiaffo in strada”; “Quel marrano ha osato attentare alla mia persona sulla via con un manrovescio”; “Aò, m’ha dato na pizza in faccia per strada ‘sta merda”; “Attenzione! Attenzione! Uomo aggredito per strada a schiaffi!”. Considerando in più il fatto che anche molte frasi grammaticalmente inaccettabili possono trasmettere il contenuto dell’enunciato, dovrebbe essere chiaro il punto: “Schiaffo su strada dato a Tonto, Tonto tanta paura”. Insomma il fatto è che il come si dice qualcosa comunica di te a volte anche di più del che cosa si dice.

Riflettiamo allora sulle informazioni veicolate dallo stile comunicativo di parte dello sfaccettato mondo dei “movimenti”, che senza dubbio è una comunità linguistica. Una comunità linguistica è una collettività umana accomunata da un uso della lingua riconoscibile e particolare, che aiuta a formare identità e senso di appartenenza. Si tratta di un gergo, un dialetto, una koinè o uno slang condiviso che definisce gli appartenenti alla comunità in relazione a chi sta fuori. Naturalmente la lingua usata dice tantissimo della comunità stessa, e più questa è chiusa in se stessa e omogenea, più il suo gergo risulterà ermetico e incomprensibile a un non iniziato.

Quali cause si celano quindi dietro la nostra difficoltà ad essere compresi?

Ovviamente non ho la pretesa di risolvere il problema. Ma una delle risposte può essere scovata dietro un’altra domanda, o meglio in una variante di quella precedente, ovvero:

Che cosa comunichiamo di noi col linguaggio che utilizziamo?

Come già detto, leggendo i nostri testi ci si imbatte spesso in “lunghi brani quasi del tutto privi di significato”, con una sintassi labirintica e una serie di termini pseudoaccademici usati in modo insensato. La paura di avere poco da dire e il sentimento di una debolezza teorica e argomentativa porta spesso chi scrive ad ammantarsi di un’aura intellettuale che gli fornisca autorità. E per farlo imita il gergo e lo stile della comunità accademica per il suo prestigio sociale. Così la lingua viene “deformata dal pleonasmo e da uno stile pretenzioso (la cui funzione è mettere in luce l’erudizione dello scrittore) e da opache astrazioni (la cui funzione sembra essere quella di impedire che qualcuno possa attribuire allo scrittore un’affermazione precisa passibile di confutazione o ludibrio)”. Di conseguenza il “messaggio” che arriva al lettore è di pretenziosità e vanagloria. I brani, con le loro formule pompose ma in realtà retoriche e stereotipate, danno la sensazione che non si abbia in fondo nulla da dire, e chi scrive non riesce a farsi ascoltare per davvero. Inoltre, i termini gergali del “militantese” sono incomprensibili ai più, e danno l’idea di chiusura e debolezza, e che siano volutamente oscuri per difendere una comunità, a sua volta chiusa e debole, da minacce esterne. Molto spesso lo scopo principale di chi usa tale linguaggio non è comunicare qualcosa, ma il riconoscimento, ovvero l’essere riconosciuto dagli altri membri come appartenente alla comunità attraverso lo stile e la forma dell’espressione. Il risultato finale è che il contenuto enunciativo non passa e il messaggio non arriva. Se non quello veicolato dallo stile, che riguarda il comunicatore, e non è un messaggio positivo: un linguaggio grossolano, pieno di stereotipi e meccanico, trasmette l’idea che chi lo utilizza abbia una visione del mondo grossolana, piena di stereotipi e meccanica.

Esercizi di stile
Ovvero qualunque cosa che può essere detta, può essere detta in modo chiaro (e magari un po’ più vivo)

Facciamo un paio di esempi, per capire cosa intendo. Si tratta di due passaggi di diversa provenienza e autorialità trovati online. Ecco il primo:

La frontiera si è costruita a partire da relazioni di scambio, di contaminazione e come spazio di approdo: che fosse geografica, culturale, politica, sociale o economica, era vista come un luogo limite, di sperimentazione e di connessione. Lo stato attuale delle cose ci ricorda invece come ogni concezione sia soggetta a relazioni di potere e a risignificazione constante. La retorica securitaria ed emergenziale hanno trasformato la frontiera nel confine invalicabile del razzismo istituzionale, del sovranismo populista e della ghettizzazione sociale. Un processo simbolico che, lungi dal concludersi al largo delle coste europee e nella figura del migrante, si estende tutt’oggi ai meccanismi di pacificazione sociale, repressione del dissenso e criminalizzazione sociale. Il nuovo confine del decreto sicurezza si fa sempre più interno, personale e biopolitico: è il confine dei corpi, del genere, degli orientamenti sessuali e delle condizioni socio- economiche. Il corpo è il nuovo confine su cui disegnare immaginari e dispositivi di controllo sociale e di omologazione.

Proviamo a farne una breve analisi. Cercherò di verificare la tenuta del testo, l’accuratezza dei concetti espressi e il senso generale con una breve analisi logica, grammaticale e lessicale.
Se la prima frase è accettabile e scorrevole, pur con qualche sintagma molto codificato e retorico come “spazio di approdo” e “relazioni di scambio e contaminazione”, il significato della seconda risulta piuttosto oscuro. È una frase che, quanto a contenuto enunciativo, significa ben poco. Cosa vuol dire infatti “lo stato attuale delle cose ci ricorda invece come ogni concezione sia soggetta a relazioni di potere e a risignificazione constante”?
Prima di tutto cosa si intende per “concezione”? Concezione di cosa? Sintatticamente non è chiaro se sia riferita a “frontiera”. Se così fosse, perché allora non usare una specificazione diretta per maggiore chiarezza, ottenendo ad esempio “ogni idea o concezione di frontiera è soggetta a mutamento continuo, cambia di luogo in luogo e di momento in momento”. Cosa si vuole intendere poi dicendo che una “concezione” (che è il soggetto della subordinata introdotta da “come”) è soggetta a relazioni di potere e a “risignificazione” costante? Ancora, cosa si intende per risignificazione, che nella frase è riferita appunto a “concezione”? L’analisi logica del testo ci dice trattarsi di “una concezione (soggetto) sottoposta a risignificazione (predicativo del soggetto)”; senza ulteriori specificazioni che consentano al lettore di capire quale tipo “concezione” sia soggetta a “risignificazione”, e cosa si intenta con questa parola. Si intende forse, come ipotizzato prima, che la concezione di frontiera cambia costantemente ed è un’idea instabile, e in questo senso viene risignificata? Tutto è lasciato all’interpretazione del lettore, basata per di più su elementi ambigui.
Il concetto di “risignificazione” è molto presente nel campo di studi della semiotica, e nel suo significato più usato indica l’operazione di dotare una parola, un segno o un simbolo, dopo che abbia perso il suo significato originale, di un senso diverso. Ma nel passo citato non si capisce, e non perché sia difficile ma perché non viene spiegato, cosa si intenda usando quella parola.
Scarsa tenuta logica e parole dal significato poco chiaro: abbiamo appena letto un passaggio che sotto l’apparenza sensata in fondo non vuole dire nulla.

Tutto il testo è scritto con uno stile convenzionale, con termini ricorrenti del linguaggio settoriale specifico del “militantese” tipico dei nostri ambienti: termini come “ghettizzazione sociale”, “pacificazione sociale” (con anche la fastidiosa ripetizione di “sociale” due volte di fila), “condizioni socio-economiche”, “dispositivi di controllo sociale e omologazione” sono usati in frasi che riprendono in modo codificato termini e concetti di influenza “post-strutturalista”, ambiente filosofico e politico degli anni Sessanta e Settanta che rifletteva su questioni come il ruolo del linguaggio e dei simboli culturali sulla psiche e sulla formazione del soggetto. Si veda questa frase: “il nuovo confine del decreto sicurezza si fa sempre più interno, personale e biopolitico: è il confine dei corpi, del genere, degli orientamenti sessuali e delle condizioni socio-economiche. Il corpo è il nuovo confine su cui disegnare immaginari e dispositivi di controllo sociale e di omologazione”. Altra frase che non si capisce cosa voglia dire (pensateci: che cosa significa, presa alla lettera, la frase “il corpo è il nuovo confine su cui disegnare immaginari?”), talmente generica che potrebbe essere interpretata in ogni modo. Lo scopo del pezzo sembra solo essere quello di “comunicare” quell’impressione “focaultiana” o “deleuziana” per far percepire al lettore, in modo autoreferenziale, una competenza teorico-politica nel settore, ed essere quindi riconosciuto come membro della comunità linguistica dagli altri appartenenti. Per dirla con Wallace: lingua non come vettore del significato, ma del curriculum vitae di chi scrive. Scritta insomma non per comunicare col lettore, ma conferire allo scrittore una legittimità intellettuale che gli fornisca autorità di fronte alla sua comunità di riferimento.

Questo gergo ha delle caratteristiche ricorrenti, alcune delle quali si sono appena viste: imitazione di un linguaggio filosofico e politico percepito come autorevole, utilizzo meccanico di formule e sintagmi codificati; uno stile freddo, pomposo, “accademico”, ricco di termini specialistici senza chiarificazioni. Nello specifico del paragrafo (ma è un vizio diffuso), le frasi sono contorte, spesso con predicati privi di soggetto evidente (è il caso della già trattata “concezione”), concordanze a senso (“hanno” terza persona plurale al posto di “ha” singolare nel terzo periodo, il cui soggetto è “retorica”, non i suoi due attributi). Insomma dove il testo cerca con il lessico e lo stile di darsi un tono intellettuale elevato, trascura le più basilari norme sintattiche ed espositive.

Non fraintendetemi: non mi interessa essere pedante sulla grammatica e sullo stile corretto, né fare un lavoro di tipo prescrittivo. Ciò che mi preoccupa è che un simile modo di esprimersi sia per il lettore qualcosa di negativo, un esempio di uso scorretto della lingua per dare una credibilità “intellettuale” al testo che compensi una sostanziale povertà di vedute, impotenza comunicativa e debolezza teorica di fondo. Inoltre si fallisce l’intento primario di ogni linguaggio: la comunicazione. Il paragrafo infatti è incomprensibile.
Cerco di suggerire un linguaggio che sia meno macchinoso e artificiale, più vivo e vicino al destinatario. Non bisogna dimenticare che la lingua che si usa è molto spesso il riflesso di ciò che si è. Il mio è un esperimento e come tale va preso: si tratta di un tentativo che può riuscire oppure no, sempre migliorabile.

Quindi proviamo a fare una prova di riscrittura; un esercizio di stile, direbbe Queneau. Proviamo a riscrivere il paragrafo in un altro modo, e vediamo se lo stile automatico del testo riportato sopra può tornare a comunicare qualcosa:

La frontiera è nata, nella storia, come luogo di incontro e di relazione tra persone che si incrociavano, si scambiavano merci, viaggiavano, e nello scambio e nel contatto si sono reciprocamente influenzate culture e mondi. Poteva essere geografica, culturale, politica, sociale, ed era un luogo-limite, in cui si connettevano e mescolavano uomini e cose. Tutto ciò oggi sembra cambiato, e i fatti e le notizie legate alle frontiere ci ricordano che sono diventate, in nome di parole come “sicurezza” ed “emergenza”, luoghi di sofferenza, esclusione e di retorica istituzionale [si intendeva forse questo con la frase oscura di cui sopra?]; luoghi di razzismo e di controllo. Ma questo non si limita alla gestione delle frontiere e delle migrazioni: le stesse politiche sono applicate in forme diverse nella repressione del dissenso, della marginalità e delle minoranze di tutti i tipi. O meglio: i confini diventano interni, diventano confini di classe, di genere, di razza, di età e di ricchezza.

Un tantino più leggibile, no? E non mi sembra che il contenuto ne esca storpiato. Ho cercato di riprendere i concetti espressi con delle parafrasi che ne lasciassero intatto il contenuto ma rendessero la forma meno ingessata. Riscrivendo le frasi in modo più chiaro, ad esempio, dotandole sempre di un soggetto evidente a cui riferire il predicato; sostituendo sintagmi come “stato attuale delle cose”, “luoghi di contaminazione”, “relazioni di potere”, “retorica emergenziale”, “repressione del dissenso”, “criminalizzazione sociale” con espressioni meno costruite e trite, più naturali: “oggi le cose sembrano diverse”, “si connettevano e mescolavano uomini e cose”, “luoghi di sofferenza ed esclusione e di retorica istituzionale” ecc.

Proviamo a fare lo stesso esercizio con un altro testo trovato su Facebook:

Partendo proprio dall’emergenzialità della crisi ambientale e climatica nuovi paradigmi economici come quello della Green Economy hanno trovato terreno fertile per affermarsi. L’operazione teorica è quella di accostare su uno stesso piano del discorso sviluppo economico e sostenibilità ambientale. Possiamo notare questo nella nostra quotidianità, passeggiando nelle strade delle metropoli che viviamo dove gli spot pubblicitari ci invitato a vivere nella nuova forma-grattacielo denominata “bosco verticale” spacciandola per la “zona più smart e più green” della città, oppure nei cortili della nostra università dove Eni ci propone la sua idea di ecologia. Per comprendere meglio come tutto questo sia potuto accadere abbiamo ritenuto interessante interrogarci approfondire insieme come si è determinato il nesso tra valore e natura negli ultimi 50 anni e quali sono stati i passaggi politici e economici che hanno portato alla situazione attuale. Uscendo dalla lettura economica e strutturale invece possiamo constatare che siamo di fronte a una crisi più esistenziale dell’umanità, dove la prospettiva di futuro tende a sfumare, non a caso infatti il tema del “futuro” è uno dei più ripresi nell’ultimo periodo, questa volta però non con lo sguardo prometeico e modernista dei futuristi, ma con quel senso di inquietudine e distopico che emerge con chiarezza nella produzione artistica di film, libri, musica

Anche qui la sostanza linguistica sembra la stessa. Espressioni stereotipiche prese dal gergo accademico del settore come “emergenzialità della crisi ambientale”, “nuovi paradigmi economici” (il termine “paradigma” popola i nostri peggiori incubi, così come “contraddizione”, “sperimentazione”, “socio-economico”), “operazione teorica”, “lettura economica e strutturale”; composti di parole unite col trattino come “forma-grattacielo”; dislocazioni a sinistra che complicano inutilmente l’andamento sintattico (“l’operazione teorica è quella di…”); generale trascuratezza sintattica e stilistica (il verbo “vivere” usato transitivamente “in la città che viviamo”, con una ripetizione di “vivere” a distanza ravvicinatissima e un’allitterazione illeggibile: “nelle strade della metropoli che viviamo dove gli spot pubblicitari ci invitano a vivere nella nuova forma-grattacielo”); frasi lunghe e ipotattiche, cioè con diverse subordinate accatastate che ubriacano il lettore e rendono oscuro il soggetto logico (si guardi il terzo periodo, lunghissimo e pieno di subordinate aggrovigliate, o l’ultimo, che conta ben tre subordinate rette dal verbo principale: una temporale, una completiva e una relativa, il tutto ulteriormente giustapposto con la virgola a un’altra proposizione principale che regge altre due coordinate avversative una con “però” e una con “ma” che a loro volta reggono una subordinata relativa con “che”. Vertiginoso).

In generale saltano all’occhio le due caratteristiche che si sono già viste: l’imitazione acritica di uno stile accademico percepito come autorevole si accompagna nei fatti alla trascuratezza stilistica e sintattica.

Proviamo ora a fare anche qui il giochino della trascrizione. Sfida più ardua, se non altro perché mastico poco gli argomenti trattati. Non voglio entrare nel merito della giustezza contenutistica di ciò che è scritto, mi limiterò a modificare la forma dell’espressione:

Sull’onda della crisi [o dell’emergenza] climatica nella quale viviamo, si sono sviluppati nuovi modelli economici allo scopo di affrontare il cambiamento e rendere l’economia “compatibile” con l’ambiente: la Green Economy. L’idea che sta dietro a questo modello è che lo sviluppo economico possa andare di pari passo con la sostenibilità ambientale. Questo “nuovo” modo di intendere l’economia ha degli effetti nella nostra vita di tutti i giorni: nelle città più all’avanguardia sono pubblicizzati grattacieli ultramoderni chiamati “boschi verticali”, che sorgono in quartieri “smart” e “green”. Anche nelle nostre università saltano all’occhio gli effetti di questa rinnovata passione per l’economia sostenibile da parte dei più insospettabili: multinazionali del petrolio come Eni, entrate nei consigli di amministrazione universitari, si fanno paladine di una nuova idea di ecologia. Per comprendere meglio questi e altri paradossi, ci siamo interrogati su come negli ultimi cinquant’anni si sia sviluppato il rapporto tra natura ed economia, tra ambiente e capitale, che ha portato alla situazione di oggi. Situazione che non si limita ad essere esclusivamente economica, ma che condiziona in tante forme il nostro mondo e acquista dei connotati culturali: ad esempio nell’ossessione della fine nell’arte e nei discorsi, nel venire meno di un’idea di futuro. È un senso di inquietudine che si fa generale, panico, e prolifera un immaginario della catastrofe e dell’apocalisse nei film, nei libri, nella musica.

Non è così difficile, basta un po’ di voglia e attenzione. Ma soprattutto bisogna togliersi dalla testa che una certa maniera di scrivere sia valida e trasmetta autorevolezza e rispettabilità, che mostri competenza e padronanza degli argomenti: non è così. E’ uno stile che sottende il vuoto, tanto peggiore di quello già insopportabile che ci insegnano nelle accademie quanto più ne è un’imitazione grossolana. La paura di essere smentiti e confutati è rifuggita rendendo impossibile al lettore attribuire al mittente un’ affermazione precisa: le frasi possono voler dire tutto e niente, i concetti generici e fumosi sono lasciati alla libera interpretazione.

Idee senza parole
Ovvero i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo

Insomma uno stile che non è poi così diverso da quello politico, aziendale e pubblicitario, oltre che dal linguaggio accademico. A questo proposito è utile ricordare che una delle caratteristiche che Furio Jesi, in Cultura di destra, riconosce come tipica dei movimenti di destra, è quella di usare un linguaggio fatto di “idee senza parole”. Cioè fatto di parole spiritualizzate, tanto lontane dal “materialismo” quanto lo sono le idee astrattissime che veicola (come quelle di nazione e di razza) e che sottendono il vuoto. Concetti talmente vaghi e privi di significato che non hanno bisogno di precisione e chiarezza per essere espressi, perché validi a priori. Chiudo quindi con un passo in cui Jesi critica il linguaggio della sinistra extraparlamentare che subisce questa influenza negativa, tanto ben espresso e in linea con lo spirito di questo articolo che ho preferito non parafrasarlo:

Il linguaggio delle idee senza parole è una dominante di quanto oggi si stampa e si dice, e le sue accezioni stampate e parlate, in cui ricorrono appunto parole spiritualizzate tanto da poter essere veicolo di idee che esigono non-parole, si ritrovano anche nella cultura di chi non vuole essere di destra, dunque di chi dovrebbe ricorrere a parole così “materiali” da poter essere veicolo di idee che esigono parole. Questo deriva dal fatto che la maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale di destra. Nei secoli scorsi la cultura custodita e insegnata è stata soprattutto la cultura di chi era più potente e più ricco, o più esattamente non è stata, se non in minima parte, la cultura di chi era più debole e più povero. Una cultura non consiste certamente solo delle incrostazioni del linguaggio che in essa ricorre; ma la sopravvivenza indisturbata di queste incrostazioni è quantomeno sospetta, dal momento che una cultura e un linguaggio significano anche un’ideologia e un assetto ben definito di rapporti sociali. Questa continuità non è di parole, ma di scelta di un linguaggio di idee senza parole, che presume di poter dire veramente, dunque dire e al tempo stesso celare nella sfera segreta del simbolo, facendo a meno delle parole, o meglio trascurando di preoccuparsi troppo di simboli modesti come le parole che non siano parole d’ordine. Di qui la disinvoltura nell’uso di stereotipi, frasi fatte, locuzioni ricorrenti; non si tratta soltanto di povertà culturale, di vocabolario oggettivamente limitato per ragioni di ignoranza: il linguaggio usato è, innanzitutto, di idee senza parole e può accontentarsi di pochi vocaboli o sintagmi: ciò che conta è la circolazione chiusa del “segreto” – miti e riti – che il parlante ha in comune con gli ascoltatori, che tutti i partecipanti all’assemblea o al collettivo hanno in comune.

Sarebbe divertente fare l’operazione inversa a quella proposta finora, e “tradurre” questo splendido passaggio nel “militantese” dei due esempi, per vedere i suoi contenuti perdere profondità e forza espressiva e trasformarsi in preconfezionate formule vuote. Lascio questa possibilità al lettore che voglia impratichirsi con questo nuovo esercizio di stile.

È quindi così che l’influenza di un potere che, dalla storia più antica fino ai nostri giorni, è stato potere di classe, si insinua nel linguaggio di chi cerca di combatterlo. Ma il linguaggio, come spiega bene Jesi e in modo diverso anche Wallace, è sempre ideologico – e sempre politico. Vale la pena ripetere quanto detto in apertura: il modo in cui si usa la lingua trasmette sempre qualcosa di te, anche più che il contenuto del messaggio.

Stiamo attenti a ciò che trasmettiamo di noi.

Tengo a ribadire, come già accennato nell’introduzione, che nessuno di noi è esente dalle aberrazioni del linguaggio che si sono viste, men che meno il Teatro di Oklahoma e coloro che ne fanno parte. I suggerimenti qui sotto, dunque, valgono anche per noi. Inoltre il gioco dell’esercizio di stile potrebbe essere fatto anche con molti dei nostri testi, anzi vi invitiamo a farlo senza paura e con curiosità. Insomma questa critica è nata prima di tutto come un’autocritica, perché nessuno di noi può chiamarsi fuori.

Qualche suggerimento
Ovvero della differenza che passa fra un artigiano e una megamacchina

Per finire ecco una cassetta degli attrezzi, qualche suggerimento per rendere il nostro modo di comunicare più efficace. Ovviamente non si tratta di indicazioni assolute, da usare sempre e comunque. Lo stile varia tantissimo a seconda del contesto, del pubblico, della comunità linguistica di riferimento, degli obbiettivi di chi scrive, del canale di comunicazione (Cartaceo? Virtuale?), del genere di testo che si produce (Saggio? post di Facebook? Comunicato? Articolo per un blog? Romanzo storico?). Dipende insomma dalla funzione dell’atto di scrittura, che è sempre inserito in un contesto, ha degli obiettivi e si serve di canali di espressione.

  • Evitare di usare senza necessità termini stereotipati e convenzionali. Non dico di non usarli, anzi a volte sono utili e necessari, ma parole come “paradigma”, “dialettica”, “immaginario”, “modello socio-economico”, “dispositivo di controllo sociale”, “antropologico” vanno usate nel modo e nell’accezione giusta. Se non lo si fa si inflazionano e basta, e vengono svuotate del loro significato reale. Inoltre, usando questi termini fuori luogo, si risulta ridicoli a chi ne capisca un minimo nel campo, esattamente come risulta ridicolo chiunque scimmiotti un linguaggio “alto” e “dotto” che non sa padroneggiare davvero.
  • Cercare uno stile meno freddo e distaccato, evitare di usare troppi termini specialistici o filosofico-politici senza spiegarli. Rifiutiamo l’accademicismo, l’accademia, il suo linguaggio e tutta la storia di privilegio di classe e sopraffazione che porta dietro di sé.
  • Evitare l’ipotassi, ovvero l’accumulo di frasi subordinate concentrate in un solo periodo: fa perdere il filo e rende oscuro il soggetto della frase. Cerchiamo di usare frasi brevi, chiare, efficaci e pulite sintatticamente, lessicalmente e, di conseguenza, contenutisticamente. A meno che la subordinazione non sia una precisa scelta stilistica.
  • Conseguenza dei punti sopra: semplice è meglio. Non c’è niente di più stupido, innaturale e linguisticamente perverso che rendere incomprensibile e oscuro un concetto semplice. Questo è proprio il tipo di aberrazione del linguaggio accademico che ci influenza in modo nefasto. Anzi è vero il contrario: più si è abili con la lingua, più si rendono comprensibili e chiari concetti complessi senza tuttavia banalizzarli. Inoltre rendere chiaro cosa si sta dicendo suscita nel lettore fiducia, e trasmette sicurezza di sé e nei propri argomenti, che sono resi più convincenti da uno stile pulito e ben argomentato.
  • Rileggere sempre e chiedersi se ciò che si ha scritto abbia un alto livello di convenzionalità lessicale e stilistica. In caso di risposta positiva, provare a riscriverlo con un po’ più di immaginazione, sostituendo frasi costruite col generatore automatico con delle parafrasi fatte di parole diverse, più naturali e che chiariscano, semplifichino e rendano più vivi e pregnanti i concetti espressi. Il linguaggio e la scrittura sono una tecnica che come qualsiasi altra ha bisogno di esercizio, sperimentazione e fantasia. Tra un testo costruito consapevolmente e uno composto da elementi prefabbricati c’è la stessa differenza che passa tra un artigiano vasaio e una megamacchina che stampa migliaia di vasi in serie – e non si parla solo di qualità ma anche del sistema che sottende al modo di produzione.
  • Tenere ben chiari gli obbiettivi dell’atto di scrittura, il contesto linguistico in cui produciamo il messaggio e il mezzo che usiamo per diffonderlo. Questo condizionerà profondamente il nostro stile. Stiamo scrivendo per informare, per convincere, per invogliare le persone a venire a un nostro incontro o a una nostra serata? Stiamo scrivendo per un pubblico di studenti, di operai in sciopero, di professori, per gli abitanti di un quartiere popolare? Stiamo scrivendo un volantino, un opuscolo, un saggio, un romanzo, un articolo, delle tesi da affiggere alla Martin Lutero, un’invettiva contro qualcuno o qualcosa, un’autodifesa o una critica? Teniamo bene a mente tutto ciò e comportiamoci linguisticamente di conseguenza.

Un saluto a tutti e buona scrittura.