LONTANO, VICINO, LONTANO, VICINO – VERSO DOVE?

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Ancora riflessioni strada facendo su prossimità e distanza, solidarietà e catastrofe

LONTANO

Fate tutti il vostro dovere!

Sono giorni lunghi e incerti, con più di un’ombra sul presente quanto sul futuro. Oltre all’ansia e al soffocamento da clausura, ogni tanto si riaffaccia il sospetto che il Coronavirus non sia precisamente una disgrazia naturale, e nemmeno la livella. Insomma, la paura o la convinzione che anche adesso non siamo né saremo in futuro tutti sulla stessa barca.

Tra strette ai controlli e discorsi galvanizzanti, uno dei vari modi per spegnere l’insofferenza dell’individuo occidentale isolato è stato un largo uso di retorica eroico-bellicistica, con evocazioni in varie sfumature dell’atmosfera da paese in guerra. L’impressione è che ogni piccola crepa aperta dall’isolamento dovesse essere riempita con lo stucco di una comunità fittizia denominata unità nazionale. Nella crisi personale e collettiva è arrivato l’ordine di stringersi a coorte intorno alla propria solitudine, e al limite aguzzare gli occhi per cogliere il minimo movimento sospetto del proprio vicino.

Al di là delle disquisizioni nel merito delle misure di prevenzione, è interessante osservare come il discorso implicito sia quello di restare tutti uniti, sì, ma in una falsa prossimità – per mantenere un’effettiva distanza che non ha nulla a che vedere con i droplet. Proviamo a pensare al fatto che in tanta melassa di coesione i primi che sono stati e restano tuttora consegnati al contagio sono coloro che restano prigionieri dell’ingranaggio della macchina infernale oppure schiacciati ai suoi margini, ma comunque sono lontani e si può fare in modo che non si vedano: i carcerati, gli operai dei magazzini spersi nella provincia, i senzatetto, ma probabilmente, seguendo le recenti cronache che riguardano il Pio Albergo Trivulzio e le altre RSA lombarde, anche gli anziani confinati nelle case di riposo.

Se la separazione era già la cifra della vita così come la conoscevamo,
nell’emergenza non può che raggiungere il suo apice, coprendosi con il tricolore. Anni di neoliberismo non lasciano in eredità solo un sistema sanitario a pezzi, ma anche un mondo di individui consegnati all’ognuno-per-sé, esposti a solitudine e miseria. Di conseguenza tra minacce di multe e denunce, elogi del senso di responsabilità e decreti, di fronte ad ogni sussulto di rabbia o di pianto lo sguardo deve restare fisso al cielo blu-dipinto-di-blu della comunità nazionale. Da lì guardano gli occhiacci della patria, da lì giungeranno gli ordini di fare la propria parte, il proprio dovere: adeguarsi a nuove modalità di lavoro (se ancora l’avrete), di giustizia, di sorveglianza.

VICINO

Some kind of solitude is measured out in you

Ogni giorno il conto lugubre morti-contagi-guariti scandisce il tempo che ci separa da una nebulosa fase due di cui ancora si fatica a capire la natura. Forse arriverà il 4 di Maggio, oppure prima, o magari molto dopo. Nel frattempo è scattato qualcosa, su piccola o grande scala a seconda delle città d’Italia. Una solidarietà che ha assunto forme diverse ma in molti casi è stata vissuta come un’impellenza, il modo per vivere dentro il tempo, al ritmo dell’evento. Solidarietà minima o organizzata, in ogni caso è l’arte della distanza profonda che qua e là si spezza. Non è tanto interessante fare un’agiografia dei vari gruppi di che si sono mobilitati in questi mesi, quanto pensare a ciò che in diverse città di Italia ha rotto la cappa di torpore e angoscia. Qualcosa che vale la pena di guardare più da vicino.

Fare la spesa, comprare medicinali per chi non può uscire di casa: Gesti quotidiani, scardinati all’improvviso, si ricompongono su un altro piano che rimette in comune l’estraneazione. Fare la spesa, comprare medicinali, distribuire mascherine è condivisione della fragilità. Al contrario di un’insipida poesia sul valore delle piccole azioni, è piuttosto l’inizio di un cambiamento di percezione. Viola in maniera eclatante un certo isolamento, apre ad un’altra forma di protezione. Un bell’articolo uscito recentemente in Francia lo spiega bene: “Cambiare di scala soprattutto non vuol dire ripiegare sulla propria comunità, su di sé e i propri cari, ma al contrario moltiplicare i legami non solo malgrado il confinamento, ma forse anche per pensarlo ed applicarlo in modo più intelligente, e soprattutto non ognuno per se. Non è certo l’amore dei propri i cari, di chi ci è vicino, ma la considerazione per chi è distante, per tutti quelli che facevamo mostra di non vedere fino a ieri (vecchi, senzatetto, detenuti…) che può essere la nostra migliore bussola in questo momento”
(https://rouendanslarue.net/a-distance-de-letat-mais-pas-chacun-pour-soi-apprendre-a-nous-en-sortir-par-nous-memes/)

In altre occasioni, all’inizio dell’epidemia, parlammo di contatto e di cura. Fare la spesa, distribuire mascherine, comprare medicinali per degli sconosciuti: i gesti di solidarietà fanno un passo dentro lo spazio di vuoto che la nostra esistenza porta con sé, e parole fruste e logorate come critica dell’alienazione metropolitana assumono un colorito un po’ più vivo, un po’ più sano. Specchiare la solitudine negli occhi di chi ti sta davanti, scoprire la possibilità di una cura reciproca è il primo modo per distaccarsi dalla logica che impone decreti di sanità uguali per tutti sulla carta, ben differenziati nei fatti.

Un prendersi cura collettivo che rifiuta di ammantarsi di buoni sentimenti a bun mercato. Nei giorni in cui uno dei partiti di governo propone la pallida imitazione di una tassa patrimoniale per pagare parte della crisi da Coronavirus, ecco la levata di scudi generale e il sindaco di Milano, che sta già pensando a come ripartire, interviene: “Pensiamoci meglio, non è il momento di creare differenze, piuttosto chiamiamo alla generosità”. La generosità ci fa schifo. E’ un’altra figura di cartone nel pantheon degli eroi chiamati a mostrare come sia dolce sacrificarsi per la patria. Se ci aiutiamo è proprio perché ci sentiamo ugualmente abbandonati, raggirati, esposti.

LONTANO

Esserci o non esserci?

Fare la spesa, comprare medicinali, distribuire mascherine: presta il fianco a volte, nel contesto militante, ad una critica precisa. I termini vengono rimodulati a seconda delle varie specificità locali ma due parole – accuse tremende – possono valere a riassumerli: assistenzialismo, volontariato.

Vale la pena soffermarcisi, perché qui come in altri casi appaiono, guardandoli con attenzione, ragionamenti curiosi. E’ assistenzialismo, roba di volontariato, perché non sarebbe abbastanza politico o non presupporrebbe in qualche modo una politicizzazione. Ciò che è politico, così come il brutto termine “politicizzazione”, restano però concetti estremamente vaghi e nebulosi e, senza avvedersene, questa critica (che peraltro rispunta anche in altri contesti) si innesta all’interno del più elementare circolo economico. Forse è una sintesi superficiale e semplificante, ma sembra che il problema di fondo sia che in queste azioni di solidarietà non si scorga la possibilità di ottenere nulla in cambio. Non c’è un ritorno – una monetizzazione – politico (qualunque cosa ciò voglia dire). Gesti a fondo perduto, investimenti sbagliati.

E sia chiaro, possono essere considerazioni fatte nella più totale buona fede. Possono nascere dalla paura che dopo tutto torni come prima – anzi no, peggio – e che la parentesi dei bei momenti di solidarietà sia solo il dolce ricordo di quei bravi ragazzi italiani, così gentili, mentre intorno tutto ha ricominciato a macinare come – anzi, peggio – di prima. Può essere l’acuta percezione del pericolo di restare intrappolati nell’album delle figurine degli angeli dell’emergenza, a cura delle edizioni Retorica Nazionale. Può essere, e non sono certo questioni da poco. Ma nel momento in cui succede qualcosa che da più parti va a scuotere nel profondo le fondamenta del nostro mondo, il primo istinto non dovrebbe essere di rimanere ancorati a certi modi di pensare.

L’epidemia ha mostrato una volta di più che ciò che ci si para davanti è la domanda se salvare la popolazione o l’economia – un’economia direttamente responsabile della rovina della popolazione. È anche l’occasione per uscire da una logica economica estesa a tutto il nostro agire, molto più di quanto ci si renda conto. E’ l’occasione (o meglio la necessità) di pensare ad una pratica che non abbia il desiderio di essere capitalizzabile, nemmeno in senso buono, o ad una politica senza il volto un po’ tetro della cooptazione. Le brigate o i gruppi di solidarietà non sono certo già tutto questo. Ma ogni elemento che possa costruire un altro rapporto con il mondo, un’altra logica della vicinanza, merita di essere approfondito, e vissuto. Non guardato dall’alto con lo sprezzo che lo relega nella categoria del volontariato assistenziale.

Di certo l’ossessione del guadagno politico trova spazio in chi accarezza l’idea di mettere in pratica la cara vecchia equazione dell’aumento di forza. E di nuovo: non è certo il desiderio di un aumento dei rapporti di forza il problema – tutt’altro, perché ce ne sarà parecchio bisogno, nei tempi a venire. La questione è se lo si intende come un aumento di peso (su quali bilance?) oppure come l’avvento, davanti al disastro, di legami differenti, combattivi e soprattutto più solidi. Solido, non a caso, è una parola nascosta nell’etimo di solidarietà.

VICINO

Val la pena di volgere la mente al naufragio che ci incombe

La catastrofe è ogni giorno, la catastrofe è già qui. La corsa sfrenata del mondo scopre d’improvviso la possibilità del suo limite, della sua interruzione inattesa. Si riaccendono le braci apocalittiche e le strade spopolate forse raccontano il deserto che c’era già prima. E’ proprio così.

Il problema giunge quando un certo sguardo sulla catastrofe sembra osservarla troppo da lontano – quasi rimirandola. Ci scorda che la necessità di un freno di emergenza che fermi il galoppo verso il baratro nasce proprio da un reale pericolo. Banalità di base: il disastro è doloroso. Seconda banalità di base: La catastrofe è questo mondo. Questo mondo è cattivo. Anche la catastrofe è cattiva, non è nostra amica.

Il che non toglie nulla alle altre considerazioni. Anzi, è precisamente il loro mostrarsi in modo sempre più scoperto e violento ad imporre la costruzione di una diversa sensibilità, alla quale nessuno, forse nemmeno i più intimamente consapevoli del naufragio, era abituato. È un salto così vertiginoso, dallo sguardo rivolto alla fine del mondo a dei tizi che salgono le scale di un condominio qualunque per ricevere una lista della spesa con le mani unte di gel igienizzante? Sì, certo che lo è. Ma in questa come in altre forme si apre la strada per condividere la percezione della catastrofe, che è ben altra cosa dall’annunciarla in solitaria.

Il virus ha svelato una volta di più l’intima connivenza tra il capitalismo e la morte. L’organizzazione della solidarietà – anche minima – è uno dei tratti di un volto che non ha gli occhi della morte. E uno dei modi per riconoscerla insieme in tutte le protesi intorno a noi, annidata negli ingranaggi quotidiani.

Sarebbe terribile restarsene comodi nel nostro buen retiro spirituale, festeggiando la sospensione del tempo con inni compiaciuti alla caduta della città infernale. Perché l’epidemia non porta in realtà con sé nessun dono, e l’inoperosità di questi giorni non è danza, ma smarrimento. Intrecciarsi, adesso, è necessario. Perché dall’esilio torneremo solo quando sarà assunto come condizione comune.

VERSO DOVE?

Un chilo di spaghetti – 6 acque minerali frizzanti – una confezione di uova da 4 – un carcere che brucia – limoni – tonno al naturale – sciopero generale con picchetto – gorgonzola – tre peperoni – saccheggio ed esproprio di tutto il supermercato – una busta di rucola (grande)

E’ una parola un po’ logora, ma in questo caso possiamo concedercela: sono tante ancora le contraddizioni in cui restano immersi i gesti di solidarietà in questi giorni. Ed è importante rifletterci, per misurare distacco e vicinanza ad un mondo che rifiutiamo e provare a capire, lungo il cammino, ciò che si sta costruendo.

La spesa resta fondamentalmente un momento di consumo. La grande distribuzione alimentare è forse tra i pochi settori che sta approfittando alla grande del periodo, e le catene di supermercati si dimostrano straordinariamente concilianti e interessate alle campagne di donazioni e recupero di generi alimentari. Di fatto, e per quanto possa suonare odioso, le cose in questo momento si sovrappongono. Non dev’essere un freno per il presente ma una domanda per il futuro: cosa succederà quando i soldi cominceranno a mancare, se le file fuori dai supermercati dovessero farsi un po’ meno ordinate, un po’ più nervose?

Già nelle scorse settimane era balenata la minaccia dell’esplosione di una rabbia simile nel sud Italia, ed ecco immediatamente gli esorcismi dell’opinione pubblica e dei media: si stende l’ombra della mafia. Lo spettro malvagio per eccellenza, agitato per chiamare all’unità nazionale come argine morale contro il manifestarsi dell’insofferenza anche solo in un gruppo Facebook.

Forse quello che il momento ci sta chiedendo è pensare a come rendere una spesa solidale e l’esproprio di un supermercato parte della stessa lista. O meglio, come si possa far sì che un gesto si trasformi fluidamente nell’altro, che siano vissuti come parte della stessa sostanza. La condivisione della fragilità è un’attitudine che può essere difensiva quanto offensiva. Se adesso sembra esserci un abisso tra i sorrisi scambiati su un pianerottolo e l’assalto ai forni, o la rivolta di un carcere o uno sciopero generale, questo non deve scoraggiare quanto spingere a immaginare tutto ciò che può allacciare questi eventi l’uno all’altro, che possa renderli parte di uno stesso mondo comune, li metta in contatto.

Di recente ha parlato il presidente di Confindustria Veneto, e le sue parole sono un buono spaccato di come industriali e padroni si stanno immaginando la fase due: “Non è il momento di pensare alla vita sociale (…) bisogna avere uno stile di vita simile a quello dei nostri nonni, che uscivano di casa solo per lavorare e quando finivano tornavano a casa. Un percorso casa-lavoro-casa”. L’unica cosa da mettere veramente al sicuro è la produzione. I buoni-spesa dei comuni sono una grottesca presa in giro, gli affitti non resteranno bloccati. Quale forma prenderà la solidarietà di fronte alla nuova ri-organizzazione dell’esistenza, nel momento in cui si approfondiranno la miseria e le diseguaglianze?

Se non vogliamo essere gli angeli, i buoni, i generosi dovremo fare in modo che ciò si è costruito in questi giorni non sia una risposta emergenziale ma un’attitudine che resti e possa ramificarsi, trasformarsi, legarsi all’inaspettato. Nel buio confuso di questi mesi ci sono esperienze che portano con loro i semi della fine della separazione, e dell’inizio delle prossime lotte.