CHE COS’E’ UNA CRISI ECONOMICA? – L’esempio della crisi del 2010

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Dopo i subprimes, il 2010 e il suo lungo strascico. Di quel periodo ricordiamo gli sconvolgimenti e le brecce – nemmeno tanto piccole – che per un certo tempo si erano aperte. In questa traduzione (qui l’originale) alcune considerazioni su cosa è successo.

Nell’articolo precedente, ci siamo interessati alla crisi del 2008, detta dei “subprimes”. Tuttavia, non abbiamo affrontato una delle sue conseguenze più sorprendenti, ovvero la crisi che ha scosso la zona euro a partire dal 2010. Questa è durata anni, ha avuto conseguenze disastrose per paesi interi e ha rischiato di trascinare con sé l’Euro, moneta in corso da meno di 10 anni. Sono state date numerose spiegazioni per questa crisi, considerata come una crisi del debito. A scelta, “i paesi del sud fannulloni”, il loro ricorso un po’ troppo disinvolto all’indebitamento, il loro sistema sociale troppo generoso. Ovviamente i media tradizionali hanno spiegato questa crisi colpevolizzando coloro che l’avrebbero pagata, senza domandarsi se il verme non fosse invece già nel frutto della dottrina economica in vigore in Europa. E sì, se questa crisi fosse innanzitutto la crisi del famoso modello tedesco, questo modello tanto elogiato dagli analisti di ogni specie? Per capire meglio questo, diamo un’occhiata innanzitutto ai fondamenti ideologici, politici ed economici della zona euro.

Al momento della creazione della zona euro, è il punto di vista tedesco che prevale nella costituzione delle regole che i paesi che adottano la moneta unica dovranno seguire. E quando si parla di punto di vista, si parla qui di una corrente di pensiero economico liberale chiamato ordoliberalismo. Per situarlo un po’ più precisamente, si tratta di una corrente nata in Germania negli anni ’30 e che si situa all’intersezione tra il capitalismo keynesiano e il capitalismo ultraliberale all’anglosassone.

Il capitalismo keynesiano accorda un grande spazio allo Stato come attore economico, per esempio con una capacità importante di indebitamento e di investimento.

Il capitalismo ultraliberale cerca invece di diminuire il più possibile la parte dello Stato nell’economia.

Più precisamente, l’ordoliberismo riposa su un certo numero di postulati:

  • Gli attori economici devono essere in una situazione di concorrenza, perché lo stress e la competizione sono tra i fattori più efficaci per creare ricchezza. E’ qui che interviene lo Stato, che deve creare il quadro e garantire che le regole del gioco siano rispettate. Ha in qualche modo un ruolo di arbitro al fine di permettere una concorrenza libera e non falsata. Lo Stato può anche intervenire in ambiti come la sanità e l’educazione. Non viene quindi escluso dal gioco economico, ma non deve intervenire se degli attori privati possono farlo al suo posto.
  • Il budget dello stato dev’essere in equilibrio, vale a dire che lo Stato non deve poter spendere più soldi di quanti ne riceva. In effetti, secondo questa teoria, dato che lo Stato non è sottoposto alla concorrenza, non può creare ricchezza in modo ottimale. Lo Stato può quindi gestire scuole e finanziare la sanità, ma nel limite del suo budget. E’ da qui che viene la famosa regola del 3% che proibisce agli Stati di indebitarsi più del 3% del loro PIL.
  • I risparmi delle famiglie devono essere orientati verso i mercati finanziari perché essi prestino subito alle imprese. Questo al fine di permettere l’utilizzazione più efficace possibile
  • Mantenere sotto controllo il livello dei pezzi, vale a dire che l’inflazione deve restare molto bassa, dato che l’inflazione è il rialzo generale dei prezzi (Si tratta di un criterio estremamente importante per i tedeschi, traumatizzati dall’iperinflazione degli anni ’20 che rovinò la loro economia).

Secondo questa teoria, l’inflazione trae origine da un politica monetaria espansiva proveniente dalle banche centrali. Al fine di evitare che gli Stati stampino troppa moneta, le Banche centrali devono dunque essere indipendenti. Questo evita che gli stati, per esempio per ragioni elettorali, non utilizzino l’iniezione di liquidità, vale a dire stampino moneta in caso di difficoltà economiche. Al di là dell’indipendenza, è per questa ragione che la Banca Centrale Europea ha la proibizione di prestare direttamente agli stati membri. Questa regola spiega in gran parte l’ampiezza presa dalla crisi che comincia nel 2010.

Queste regole differenti vanno dunque ad applicarsi con più o meno rigore ai differenti membri dell’Unione Economica e Monetaria dell’Unione Europea. Il problema è che, come ogni teoria economica che si pretende scientifica, questa pone ipotesi che sono nel peggiore dei casi false e nel migliore non verificabili. Malgrado le affermazioni degli economisti liberali, l’economia non è certamente una scienza. Inoltre, secondo questa corrente di pensiero, è inutile e anche controproducente lottare contro le crisi. Annegare milioni di persone nella miseria e nella precarietà non è che un “cattivo momento” da passare prima di conoscere giorni migliori. La teoria sconnette qui la realtà sensibile e affettiva degli “agenti economici” dalle misure messe in campo per il benessere dell’economia.

E’ dunque questo a spiegare come gli stati europei si siano privati di due capacità di intervento economico a loro disposizione, la politica fiscale (per esempio lo stato spende soldi per sostenere l’attività economica) e la politica monetaria (possibilità per lo Stato, per mezzo della sua Banca Centrale, di agire direttamente sulla stampa di moneta).

Questo ha funzionato un tempo, è vero. Ma nel momento in cui la zona euro ha subito la crisi dei subprime è tutto il suo equilibrio che è stato rapidamente rimesso in questione.

In effetti, a partire dal 2008, l’insieme dei paesi soffre della crisi dei subprimes. Tuttavia dal 2010 la situazione migliora sensibilmente per l’insieme delle zone economiche, con l’eccezione della zona euro. Ciononostante, in seno a questa si possono distinguere due gruppi di paesi.

I paesi detti del Nord (Germania, Austria, Paesi Bassi) e i paesi del Sud (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna, i PIIGS come li avevano amichevolmente soprannominati i media), con la Francia in una posizione mediana. Per i paesi del Nord gli effetti della crisi dei subprimes si attenuano rapidamente dal 2009 con un ribasso della disoccupazione e una stabilizzazione dell’indebitamento. Per i paesi del sud la situazione è più complicata, la disoccupazione passa in media dal 7,4% prima del 2008 al 18,5% nel 2013. Il loro tasso di indebitamento continua ad aumentare e non riescono a ripartire con la crescita. Di fronte a queste crescenti difficoltà, i mercati finanziari decidono molto semplicemente di non prestare più soldi a questi paesi, che si ritrovano dunque nell’impossibilità di far fronte al loro debito. In questa situazione, la maggior parte dei paesi farebbe appello alla propria Banca Centrale per finanziarsi. Ma, l’abbiamo visto, è proibito dai trattati europei. Al fine di permettere a questi differenti paesi di fare fronte ai loro prestiti, viene messa in campo la cosiddetta Troika, composta da rappresentanti della Commissione Europea, dell’FMI, e della BCE. Gli stati implicati dunque non si rivolgono più ai mercati finanziari per finanziarsi ma a questa Troika. Per farla semplice, l’Unione Europea, attraverso due entità, il FESF (Fondo europeo di stabilità finanziaria), creato nel 2010 e il MESF (meccanismo europeo di stabilità finanziaria) va a prendere in prestito sui mercati finanziati per poi subito prestare i fondi agli stati in difficoltà. Dato che questi prestiti sono garantiti dagli altri stati dell’Unione Europea, i mercati prestano dunque a tassi favorevoli, fidandosi di paesi come la Germania o la Francia per i rimborsi in caso di bisogno. In seno alla Troika, la BCE ha un ruolo di consiglio e anche l’FMI presta direttamente agli stati in difficoltà.

Tuttavia, questi prestiti non saranno effettuati senza condizionalità e si domanderà agli stati beneficiari degli “aggiustamenti strutturali”. Abitualmente questi famosi aggiustamenti strutturali, di sinistra fama, erano piuttosto riservati ai paesi cosiddetti poveri d’Africa, Asia o America del Sud. L’obiettivo di questi aggiustamenti strutturali è di fare in modo che la realtà di questi paesi aderisca il più possibile alla teoria ordoliberale. Vengono quindi forzati a privatizzare, flessibilizzare il mercato del lavoro, abbassare le pensioni e i salari dei dipendenti pubblici, ad esempio. In altre parole, alcuni paesi si fanno garanti per gli altri, con la riserva che questi si impegnino a prendere una drastica svolta liberista.

Queste differenti misure hanno più spesso come risultato di accentuare un poco di più la crisi e la miseria nei paesi interessati. Anche l’FMI peraltro lo riconoscerà in una nota a riguardo della Grecia dicendo che queste politiche imposte hanno avuto come conseguenza “una severa contrazione della domanda e di conseguenza una profonda recessione, che ha messo a dura prova il tessuto sociale”.

La Grecia sarà d’altronde la vittima emblematica di queste misure. Eppure, contrariamente alle affermazioni di alcuni media, i Greci lavorano più ore a settimane della media europea e la loro età di pensionamento è abbastanza importante (circa 65 anni). Le spese dello Stato non erano molto più notevoli che nella maggior parte degli altri paesi anche se si può notare un aumento del deficit per far fronte agli effetti della crisi. Allora si può logicamente chiedersi perché la Grecia ha subito la crisi con una tale violenza. Le ragioni sono molteplici ma si può in particolare dire che, primariamente, il paese è di piccola taglia, ed è dunque facile per i mercati di fare a meno del suo mercato del debito, diversamente dal caso di paesi come la Francia e la Germania. Seconda ragione, si tratta di un paese relativamente povero con un’industria che ha un basso livello di tecnicità. A partire dal 2010 gli investitori si allontanano in massa dalla Grecia fino all’impossibilità stessa per il paese di far fronte ai suoi prestiti. Essa dunque deve volgersi alla Troika per poter ricevere prestiti e continuare a far fronte alle sue spese correnti.

Le contropartite imposte dalla Troika hanno come conseguenza una caduta della ricchezza e un’esplosione della disoccupazione, che era al 27% nel 2013. Il paese ha conosciuto una vera catastrofe economica e sociale, di cui si sentono ancora oggi i colpi; la disoccupazione è sempre al 16,7% malgrado un’importante emigrazione dei giovani greci, in particolare verso la Germania. Per rimborsare i suoi prestiti è stata dunque imposta alla Grecia un’austerità che ha accentuato ulteriormente le sue difficoltà, assicurandosi comunque che essa aderisse interamente alla teoria ordoliberale in campo. Il sacrificio di uno di loro è stato largamente preferito dai dirigenti dei paesi europei, lo constatiamo, alla rimessa in questione del modello in vigore.

Questo evento storico, tragico per il popolo greco lascia prevedere il peggio quanto alla prossima crisi, in cui i primi elementi lasciano pensare che sarà ben peggiore di quella dei subprimes. La Germania, uscendo particolarmente bene dalla gestione della crisi sanitaria attuale, vede la sua posizione di leader europeo un po’ più rafforzata, e non sembra voler deviare ancora a lungo dal sentiero ordoliberale. In un prossimo articolo tenteremo di vedere quale sia la situazione attuale e in cosa le soluzioni per rimediarvi non sono che ripetizioni delle azioni passate le quali, l’abbiamo visto, non hanno portato agli attesi “giorni felici”.

Ndr: l’articolo è di qualche settimana fa, mentre proprio in questi giorni si parla di un maxi-sussidio dell’importo di circa 500 miliardi proposto congiuntamente da Merkel e Macron. Vedremo cosa succederà, speriamo che i fatti smentiscano le nostre previsioni di sventura e monetarismo.