I TIGLI E IL MIO AMICO

Pubblicato da admin il

E’ facile perdersi, colpa dei tigli.

On va sous les tilleuls verts de la promenade

Arthur Rimbaud, Roman

La luna piena, una brezza da est e i tigli, irrimediabilmente: panchine sotto ai tigli, cortili profumati dalla fioritura, colorati dalle foglie dei tigli; frusciano: tigli. Rimbaud, giovinezza assoluta: il cuore è il Robinson di un romanzo. L’odore dei tigli nelle sere di Giugno: non si può essere seri a 25 anni, non si può, con i tigli, lontano dal bar, nelle notti più corte dell’anno, con l’umore di San Giovanni e la fine della primavera, luce, luce, e Marte e Venere bassi all’orizzonte: silenziosi, sopra le chiome dei tigli.

Le panchine, allo stagno Patriaršie, sotto i tigli. Mani lavate: i tigli non bruciano.

È facile perdersi, colpa dei tigli. Il mio amico non lo sento da quasi due anni. Provo a pensarmi estraneo rispetto all’avvenimento e non ci sono riesco. Dove volevo arrivare? Alla stabilità? Alla ricomposizione del sé? Ma perché? I tigli, i tigli, irrimediabilmente.

Il mio amico mi raccontava una storia triste, parlava di un dono fatto dagli dei. Era una storia d’amore, forse Lucrezio, o Ovidio. C’era un’anziana coppia: due viandanti chiedevano loro ospitalità. I due vecchi li nutrivano e offrivano loro un letto dove riposare; in cambio, i due stranieri, uno era Zeus, gli donavano di morire insieme e trasformavano lei in un tiglio.

Rimbaud, il vino, il sangue di Giovanni Battista, i tigli.

Ammonticchio i ricordi, mi sovrastano. Eravamo al bar e i tigli erano spogli, faceva freddo. Lui era quasi in lacrime, io avevo mal di testa perché tirava vento. Mi infiammava i nervi della parete temporale, volevo andare a dormire. Poi era arrivato e non potendo lasciarlo solo avevo deciso di dare un senso al mal di testa, ubriacandomi. Era stata una sua idea e dovevo seguirlo. Io volevo andare a casa, dove Dafne mi aspettava, le sue mani avrebbero tolto il chiodo che mi si era piantato in fronte. Lei forse non era ancora tornata, ma l’avrei aspettata. L’avrei aspettata quella volta e quella dopo ancora, e così via, fino alla metempsicosi, fino ai tigli. Lui prese una bottiglia di Scotch e due bicchieri e mi disse: “vedi tu che l’hai trovata non puoi capirmi, ed è successo di nuovo”. Io gli risposi che si trova chi si è perso e lui non capì, perché neanch’io capì. Iniziammo a bere.

Dopo tutto quello che è successo, dopo il silenzio e i tigli, dopo le teste mozzate allo stagno Patriaršie, le panchine dei viali, i loro sogni, lui che amava lei e lei che amava lui; dopo essersi lavati le mani, cosa ricordo di quella sera? Non eravamo lontano dal bar, faceva freddo ma il vento era tiepido, Dafne mi aspettava a casa. Lei arrivò con un bicchiere in mano. Era vuoto, voleva il nostro Scotch. Lui fu più veloce e le riempì il bicchiere, prima che potessi dirle che ci voleva un’altra grazia. Dopo poco mi sentii superfluo: lui, il mio amico, aveva gli occhi secchi. Parlavano come se si fossero amati da tempo. Mi allontanai e scrissi a Dafne che sarei tornato dopo mezz’ora, sentivo l’odore dei tigli, la testa mi faceva male.

Quando uscii dal bar erano rimasti soli, si guardavano. Forse il mio compito era finito. Rientrai e mi sedetti al bancone: attesi fino a che non fui sicuro che la nuova compagnia fosse migliore della mia. Scrissi a Dafne che aveva incontrato una ragazza e che forse a breve me ne sarei potuto andare.

Preferisco parlare di Bulgakov, ha sempre ragione quando fa dire al diavolo che c’è da stare attenti all’olio di girasole: ovviamente i poeti non possono capire. No, l’evidenza sfugge, non ci sono alibi, né garanzie. Basta una bottiglia rotta su un marciapiede a tre isolati da casa tua perché un tram decapiti un uomo. Non è un bello spettacolo. Immagina gli schizzi e l’odore dei fluidi che si incastra con quello dei tigli. Immagina il rumore delle mosche che ronzano intorno ad un uomo, il sole perpendicolare a bruciare le ferite e ad incendiare l’aria. Immagina di essere nascosto in una delle pieghe della collina del Golgota, di osservare la scena e sentire ogni stilla del supplizio di quell’uomo. Immagina le mosche che si nutrono nelle piaghe e di non avere ancora perso conoscenza. Immagina l’aria rovente e la pietà che ti porta ad uccidere quell’uomo. Immagina di aprire le braccia, metterti una croce sulle spalle, una spazzola tra le gambe e volare fuori dalla finestra, sopra ai tigli.

Effettivamente me ne andai, li lasciai che sorridevano. Ed ero contento, perché lui era mio amico e aveva trovato lei che lo aveva amato da prima che si conoscessero, ed ero sollevato per il suo sollievo ed ero di nuovo contento perché sapevo che Dafne mi aspettava a casa e con le sue mani avrebbe tolto il chiodo: quando arrivai sonnecchiava, mi svestii. Mi baciò sulla fronte e mi addormentai tra le sue braccia.

Cos’altro dovrei raccontare? Sono passati due anni da quando ho sentito l’ultima volta il mio amico, vivo ancora con Dafne.

Ogni venerdì, alla stessa ora, quando sembra troppo tardi e ti si conficca un chiodo nella tempia, nel momento esatto in cui tu pugnalasti al cuore quell’uomo con le mosche intorno alle ferite, quando la testa rotolò sui binari, quando Arthur si allontanò dal bar e Zeus donò alla coppia di morire insieme, ogni Venerdì, proprio a quell’ora: un mazzo di fiori sopra un cumulo di terra, sotto ai tigli.

Categorie: narrativa