PRIMAVERA MILANESE

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La primavera rende il tutto ancora più irreale, i colori intorno sono intensi e un sole alto picchia sul parabrezza e fa sembrare tutto di plastica. Guido nel viale alberato tagliato in due dalle rotaie del tram, le gocce di sudore sulla fronte e Antonio di fianco che bestemmia contro il navigatore che si è impallato, con la vaga ma costante sensazione di essere a un crocevia, che tutto ciò che ho fatto e visto è andato per sempre e non tornerà mai più.

Pamela e Regina sono due transessuali brasiliane che vivono in zona Maciachini e hanno chiamato più volte per gli aiuti alimentari perché non possono lavorare, sono senza un soldo. Mentre giri col furgone carico di pacchi pieni di cibo ne incontri tante di queste persone. Di solito ti aspettano in strada, se Antonio ha fatto in tempo a chiamarli, e farfugliano ringraziamenti in un italiano insicuro mentre sto in piedi di fronte a loro cercando goffamente di interagire o li aiuto a spostare tutto nelle buste.

La primavera rende il tutto ancora più irreale, i colori intorno sono intensi e un sole alto picchia sul parabrezza e fa sembrare tutto di plastica. Guido nel viale alberato tagliato in due dalle rotaie del tram, le gocce di sudore sulla fronte e Antonio di fianco che bestemmia contro il navigatore che si è impallato, con la vaga ma costante sensazione di essere a un crocevia, che tutto ciò che ho fatto e visto è andato per sempre e non tornerà mai più. Vedere le montagne in fondo a viale Jenner splendere al sole mi mette malinconia, penso che a questo punto dell’anno in un momento normale sarei già in mezzo alle Alpi, e invece le guardo in lontananza nella beffa di un giorno così limpido.

Uno dei tanti effetti insoliti che mi fa questa situazione è l’assottigliamento di quel (già fragile, a dire la verità) confine psicologico ed emotivo che ti permette di separare la fantasia dalla realtà, le ossessioni dal vero, ciò che sta dentro la tua mente da ciò che sta fuori: tutto quello che mi passa per la testa mi sembra più reale che mai.

Pamela ci aspetta in strada, indossa una maglietta aderente e dei pantaloncini corti a mezza coscia. E’ sieropositiva e bisogna fare molta attenzione. Ha un corpo grosso, la faccia gonfia e butterata, il seno prosperoso e pendente, le gambe sfatte e un po’ storte con molte vene varicose. Parla un italiano molto titubante ed ha un fortissimo accento brasiliano. Salto giù dal furgone e faccio qualche passo verso di lei, gli occhi semichiusi per il sole. Ci ringrazia, ci dice che siamo la sua salvezza. Non faccio in tempo a iniziare una reale conversazione che Antonio ha già chiamato un’altra, le consegne sono molte e il tempo è poco, e così lei va via con le buste piene e noi ricominciamo il giro, e mentre guido penso a quante persone deve avere visto Pamela nella sua vita nei loro momenti più bassi e schifosi, quelli che nessuno vorrebbe mai neanche pensare che qualcun altro possa conoscere.

Lei li ha visti li ha conosciuti e provati e toccati e subiti sul suo corpo per tanti anni, nella sua stanza o nel tugurio che utilizza per lavorare. Tutto ciò mi inspira un senso di riverenza e rispetto, come se avessi davanti qualcuno che incarna col suo corpo e la sua vita le esperienze più tetre e a me inaccessibili e lontane, e questo mi affascina e mi intimorisce insieme. Mi vergogno subito dopo di questo pensiero un po’ banale e molto borghese. Ma io sono un giovane bianco occidentale scolarizzato: e in fondo anche questa vergogna non fa che confermare il mio status.

“Siamo arrivati, scendi”.

E così si ricomincia: scarica i pacchi, mettili sul marciapiede, aspetta lì impalato che spostino tutto nelle buste, e cerca goffamente di stabilire qualche contatto. Stabilire qualche contatto. Contatto: parola che ultimamente ho sentito spesso.

Ma davvero si può? Fino a che punto una transessuale brasiliana sieropositiva di età indefinibile, dal volto butterato e il fisico sfatto e che vive vendendo il suo corpo in un tugurio di periferia, può entrare in contatto con un ragazzo di ventisette anni occidentale di aspetto gradevole, fresco di studi universitari umanistici e della permanenza sabbatica di tre anni a Bologna e attualmente disoccupato, di buona famiglia del ceto medio e abituato a convivere con una certa noia, in realtà più simile a un vago mal di vivere, che da un mese e mezzo a questa parte gli appesantisce il petto più del solito?  Chi o cosa giustifica queste differenze atroci? Questo pensiero mi colpisce il petto come una sassata.

Giungo alla conclusione che è possibile, anzi probabile, che il mio girare col furgone verde come una pallina del flipper annaspando per cercare un contatto con le persone a cui porto i pacchi alimentari sia completamente inutile.

Ma inutile per chi?

Loro stasera mangeranno, io ho incrociato i miei occhi coi loro e scambiato con loro qualche imbarazzata parola di circostanza e averlo fatto mi distrae al punto che fra poco Antonio, dopo l’ennesima svolta persa, mi manderà a cagare, scenderà dal furgone e cercherà la fermata della Metro più vicina per tornarsene a casa.

Questo non basta? Forse le cose e le situazioni e gli uomini sono molto più sfumate e incontrollabili di quanto pensiamo, e ciò che si fa ha degli effetti di cui spesso riusciamo a percepire solo la punta dell’iceberg, e forse neanche quella.

La prossima consegna è per un marocchino in viale Jenner. Non risponde al telefono e neanche al citofono. Entro e mi sembra di essere tornato a Old Dheli: è una corte a ringhiera col cortile di cemento scrostato e pieno di crepe, i sacchi della spazzatura rovesciati ovunque per terra e decine di piccioni che banchettano. Molte case che danno sul balcone comune hanno una tenda al posto della porta, quattro o cinque inquilini girano per il cortile in ciabatte e calzoncini, uno è in mutande. Amir lo conoscete? È in casa. Uno di loro, con fare scherzoso e sputacchiando saliva, mi chiede se siamo del comune, se ci piace dove vivono… no, non siamo del comune e non ci piace dove vivono. Urla in arabo verso una finestra, un tipo si affaccia e dopo pochi minuti ed ecco Amir. Stesso teatrino,  ci ringrazia, lo guardo mentre torna su a passi stanchi, trascinando il suo corpo grasso sulle infradito e penso che lui sta notte dormirà in un posto dove io non avrei voluto passare neanche i cinque minuti che ho passato. E anche domani e dopodomani e chissà per quanto.

Carlo, un uomo sulla cinquantina, ormai quasi del tutto pelato, qualche capello bianco che spunta rado dalla testa, i denti gialli e storti. Vive in uno dei tanti palazzoni giganti di periferia in Bicocca. Quando arriviamo scendiamo e scambiamo sempre due chiacchiere con lui, e lui dopo neanche trenta secondi di solito non resiste e scoppia a piangere. Cerchiamo di dire quello che possiamo, ben poco, per consolarlo, mentre parla dei figli, degli assistenti sociali che gli impediscono di vederli, della solitudine che lo distrugge, del fatto che non si può vivere così, che non è vita quella. Cosa deve dire, uno?  Penso che è vero, che Carlo ha perfettamente ragione, che non si può vivere così, che quella non è vita. E mentre cerco di tirarlo un po’ su, di dire due frasi gentili e incoraggianti, penso che la verità è solo che quell’uomo è condannato per sempre a quella vita. Antonio è molto bravo a parlare con lui, e io lo lascio fare. La tentazione è quella di dargli il numero mio, di dirgli di passare dal magazzino ogni tanto a bersi un caffé di venire a darci una mano. Ma capisco subito che sarebbe impossibile da gestire, e gli psicologi ci hanno esplicitamente suggerito di non farlo mai, o il rischio è di creare situazioni incontrollabili e a conti fatti controproducenti. Quindi lo si saluta senza lasciargli nessun contatto, lui si infila con le buste nel labirinto di cortili, porticati, grotte e insenature del blocco di giganteschi parallelepipedi e noi ripartiamo, ripercorriamo viale Jenner e Maciachini e via Pellegrino Rossi e lascio Antonio e arrivo a casa che sono le otto.

E ho un esame per l’abilitazione all’insegnamento fra quattro giorni, devo dire ad Ale che domani e dopo non ci sarò.