LE PERSONE SONO PORTATE A GIUSTIFICARE GLI AFFRONTI DEI QUALI NON SI VENDICANO
Un racconto che affronta i grandi temi della contemporaneità: lo smarrimento, le sale d’aspetto dei Pronto Soccorso, gli inconsulti gesti di rottura del quotidiano, la perdita irreparabile di una comunità umana e il reddito di cittadinanza.
Una e quarantacinque e all’accettazione del Pronto Soccorso in zona Repubblica, in un ospedale per me veramente dell’abitudine di cui però non ricordo affatto il nome. Siamo formalmente in tre tra quelli dannati dall’attesa del codice verde: un tizio africano fattorino (scuderia Deliveroo) con il volto sanguinante, un avvinazzato russante a svernare in barella (per lui stanotte più nessuna attesa) e infine me medesimo, che picchietto stolido sulla vetrata per sollecitare mediante l’infermiere (mettiamola così) il colloquio con lo psichiatra. Ci si abitua abbastanza presto a fare la vita da borderline, qualunque cosa questo termine cretino da manualistica del dominio significhi realmente: il rivotril da 2 mg (completamente pagato dallo stato, perbacco!), gli abusi alcolici, i furti compulsivi e la beata delinquenza di piccolo lignaggio, le insonnie interminabili per strada senza mai una fissa dimora, e tutta una galassia di sentimenti o percezioni contrastanti che il più delle volte si ricompongono in una commovente crisi suicidaria dagli esiti incerti ma dal certissimo risvolto drammatico. C’è insomma tutta una routine sconfortante ed avvilente, un trascinarsi a vuoto per anni con il proprio corpo oramai disfunzionale per le disgrazie che vanno via via assommandosi al trauma fondante, che rende le esistenze di questa triste specie letteralmente insostenibili, a se stessi cosiccome ai pochi altri malcapitati che ancora (probabilmente per poco) cercano di star loro vicino. Io che sono di questa disgraziata stirpe, per l’appunto, quel pomeriggio stavo piagnucolando al telefono davanti ai gradoni della Centrale, quand’ecco che in un momento non meglio precisato un malandrino dal volto ignoto andava impossessandosi furtivamente (uso qui un pratico stile da verbale dei CC) del marsupio che avevo incautamente abbandonato a sè stesso a pochi metri dai miei piedi. Al suo interno la carta de santissimo reddito di cittadinanza, una Postepay Evolution (più a secco di un ruscello in Irpinia), la carta per riscuotere la pensione d’invalidità (duecentonovantasette e novantacique favolosi euri ogni mese) e due blister di Minias mezzi consumati (di cui di solito ricordo il principio attivo, ma le benzo danno questa amnesia fastidiosa: anche se vai a capire il perché proprio ieri sera ho preso il lorazepam, il tavor, ed ora me lo ricordo per bene). E niente, da lì in poi partorisco in conseguenza di ciò un portentoso assolo di disperazione aggiuntiva, pressoché istantanea, che mi spinge a peregrinare come un virtuoso del dolore emotivo mondiale senza più alcuna precisa cognizione spazio-temporale fino al condurmi, a buio inoltrato (con automatismo notevole, diamine) alle porte di questo pronto soccorso in cui appunto ero solito recarmi anni addietro per delirare e/o farmi sedare. E sono lì, come stavo dicendo, che picchietto e smadonno anche soltanto perché ho bisogno di sfogarmi, o forse perfino poiché attendo con eccessiva ansia di cogliere infinitesimali sfaccettature di speranza nelle frasi di lì a venire del casuale turnista psichiatrico che nel mentre si attarda, quasi fosse un Cristo dalle importantissime rivelazioni al momento fin troppo impegnato da altre brutture lì intorno. Beh, insomma, capiamoci: cercavo molto più semplicemente qualcosa che mi potesse essere di sprono e conforto o vabbè dai, tagliamola corta, io mica lo so perché mai fossi lì e non credo nemmeno riuscirei comunque a formalizzarlo in una frase di senso compiuto, non ora almeno. Dietro di me, all’ingresso, si apre tutto d’un tratto la cler delle emergenze con un ambulanza che procede lentissimamente e senza nessun sinistro clangore da sirene spiegate delle urgenze, e con pure delle facce sintomaticamente ben distese dell’autista più relativo assistente a fianco. Ne esce un soggetto notevole, dal portellone dei pazienti, che a giudicarlo in un colpo solo si direbbe essere d’etnia zingara; è acchittato come una controfigura povera di Tom Waits in Daunbailò, c’ha un sorriso da quattro denti al massimo pure a faucispalancate e quando sbraita (lo sento rimbombare sullo sfondo) lo fa in questo tono enfatico dell’est un po’ da presentatore di un circo minore calato nella tristezza della provincia italiana. Sembra promettere bene, penso: almeno distrarrà la mia disperazione cieca suppergiù per quasi venti secondi di seguito, che in momenti di scompenso psichico è pur sempre meglio che il solito selvaggio nulla dell’attesa beckettiana.
I due solerti guardioni presenti in sala, rasati e tatuati come si conviene nel settore (e se è per quello vestiti pure da colpo di stato in centramerica) drizzano subito le antenne vedendo in lui un possibile cliente per le robuste attenzioni che son soliti dedicare ai più male in arnese, sempre secondo le loro modestissime capacità cognitive e di discernimento. Ma ‘sto profeta della suburbia zoppica senza avvedersene affatto, avanzando anzi piuttosto baldanzosamente, affiancato ambo i lati dai due classici omini arancioni krisna della croce rossa alla maniera, quasi, da farli apparire semplici bodyguard al soldo suo per una delle prime date questa riuscitissima tournée. Figura imponente, ingresso magistrale: l’apparizione non può che eclissare i due Italpol come forse solo avrebbe potuto del sale grosso calato su povere lumache sfortunate, magari dopo un giorno di pioggia battente, da mani nodose di pensionati veneti tipicamente animati da quel sadismo spinto da eccesso di vite estreme prossime al capolinea. Ad ogni modo mi fanno male i nervi, quindi procediamo nel racconto, che poi mi sa vado a dormire ché domani è un altro giorno scialbo e senza numeri e vorrei spegnermi per qualche ora, sennò mi sa che non la sfango. Lo slavo mentre si appropinqua alla vetrata dove io stesso sto inutilmente sostando (nel vero probabilmente forse olezzante come un cestino orinato dai cani in un parco pubblico), ficcandosi casualmente le mani in tasca, si rende conto che manca del suo apparecchio telefonico. Ciò lo porta inaspettatamente, a metà tragitto per il triage, a sbraitare contro “Mattarella e lo Stato ladro italiano tutto”, grosso modo così, per il furto a sua detta subito, inarcandosi completamente paonazzo su se stesso in una posa irrealissima che un abile narratore, cui io non corrispondo, collocherebbe tra frequenze disturbate di un registro solamente nell’intento minaccioso frammisto ad un’altro molto più atipicamente tragicomico. Chiunque però fosse stato in buona fede alla fine avrebbe saputo decodificare questa scena come prossima al nulla dal punto di vista di una qualsiasi pericolosità sociale imminente. Eppure, gli odiati guardioni in quel momento fanno egualmente il gesto dell’infilarsi i guanti in similpelle per dar via alla consueta cerimonia decerebrata nel puro stile “difensori delle istituzioni un po’ alla buona”, che alfine poi tanto piace a codesti zotici frustrati, per via credo di questa loro forzosa redenzione salariata – in genere molto al ribasso – che in buona sostanza si suppone sia la principale causa dell’inferocimento verso il prossimo. Premetto che non sono la canonica “brava persona”, lungi da me l’esserlo, e chi tra i lettori mi conosce lo sabene: è soltanto che nutro una solidarietà che si potrebbe definire forse quasi commovente nei confronti di tutti gli appartenenti alla variegata classe dei disagiati, che manco a dirlo è poi pure la mia. E’ peraltro la dottrina marxiana stessa ad impormelo (faccenda ben seria, dunque) e su questo non posso davvero concedermi deroghe, ne in fatto di teoria ne poi figuriamoci nella conseguente praxis. Prontamente decido quindi di frappormi tra le due parti contendenti alla maniera in cui si infilerebbe un’anziana suocera tra due coniugi ai ferri corti e quindi prossimi alle mani, ovvero blaterando frasi sconnesse, e senza poi possedere alcun rapporto di forza significativamente determinante.
Va aggiunto, come notazione sociale e storica, che in precedenza del sepolcrale Covid-19 i pronti soccorso di notte fonda erano spesso proprio questi coloritissimi ed insuperabili teatri popolari della reale commedia umana, ed io ne sono stato (immancabilmente) un fedele spettatore, con financo qualche particina attoriale nemmeno così striminzita qua e là, sia detto in ossequio alla mia ambigua vanità da disadattato.

Quello che succede in seguito non ha comunque certamente dell’incredibile, ve lo anticipo: ma nemmanco si può dire rispetti la seriale ripetizione della quotidianità che magari toccherebbe in sorte ad un anziano impiegato bancario nel suo milionesimo giorno di filiale (eccezion fatta per le rapine, beninteso!). Mentre i due della croce rossa a fianco fanno istantaneamente per battere in ritirata, il tizio più basso e giovane dei metronotte rimane ingessato qualche millesimo di secondo tra l’impeto dell’azione ed un’indugiare confuso al punto che quando poi si riprende nel ghermire lo slavo questi, dal canto suo, dà saggio d’una prontezza nella reazione che ha quasi del portentoso. Io sono lì a qualche millimetro dai volti, nel crocevia fetido degli aliti, e mi sento le gambe molli e burrose come degli avocados troppo maturi, una miscellanea letale di stanchezza ansia e paura che al solito mi accompagna in queste situazioni, e nel vero anche poi in tutte le altre della vita. Ebbene il nerboruto guardione viene letteralmente atterrato da una mossa inaspettata mentre il collega, a due passi dietro di lui, mostra un po’ i denti ma non s’azzarda nel farsi avanti, evidentemente terrorizzato com’è dalla prova che lo attende. Il tempo è come se si fosse congelato tutto intorno alla scena, un po’ come se il susseguirsi normale degli istanti fosse stato guastato dall’irriverenza della reazione che non ha rispettato l’usuale copione della passività sofferta. Siamo portati a giustificare gli affronti di cui non ci vendichiamo, mi sa che a quel punto sto pensando, alla maniera che in molti tra noi, per tenerne a bada il dolore, si annientano in tutti i modi così che assieme a loro si perda traccia di questa ingiuria. Come tutti i figli diligenti di questa sconfitta indigesta, mi sorprendo che si possa minare quest’ordine al solo reagire, quest’uomo stravolge i fatti del mondo in un colpo deciso. Poi, certo, la realtà riprenderà il suo corso. Sono arrivato a trent’anni, un po’ di anni orsono, ed ho visto l’oceano, che non credevo sarei mai riuscito a vedere, scendendo a patti e compromessi con i miei vuoti mentre scappavo da un ricovero psichiatrico in una mattina d’inverno, con quella che consideravo all’epoca la mia famiglia. Per questo so che si può perdere di continuo il proprio centro, e perfino doversi salvare la vita in pastiglie quasi ogni giorno, imitando le pose degli altri per importi sul male del non riuscire ad essere, e tutto questo per l’ennesima mattina bianca di luce, in inverno, in cui hai rimandato la morte senza particolare convinzione, in uscita dall’ennesimo ospedale. Mai sarei riuscito a compiere una mossa improvvisa, non dettata dal calendario del mio malessere e del fosco personaggio che la vita negli anni mi ha affidato. Eppure rivivo un po’ più intensamente se penso a come sarebbe stato bello poter imprimere un ‘azione decisiva, alla maniera dello slavo, ma di più lungo corso, per arrivare al cospetto del fuoco incrociato dei nostri desideri, intercettati al volo e per una volta almeno in consonanza, e dare un bacio definitivo a te che sei ancora il motivo per cui scrivo, senza pensare al rumore del sogno che lo sappiamo si infrangerà su questa realtà costantemente disallineata ed ostile, o senza poi la paura di risvegliarsi persi in questo nulla con quel bisogno straziante di calore da appagare. Quella notte ho ripassato il tuo nome da cima a fondo e l’ho ripetuto più volte, qualche minuto prima di addormentarmi sotto i colpi della chimica, letteralmente tramortito in una squallida lettiga d’ospedale da un preparato farmaceutico per via intramuscolare. Presto sarebbe arrivato un nuovo giorno, e non c’era modo di farsene una ragione.