IL DESERTO SEMANTICO DEL CARCERE
Chi favorisce la concezione carceraria della pena? Una riflessione sulla cultura giustizialista e forcaiola che caratterizza il nostro tempo
La ricerca linguistica ha dimostrato nel corso degli anni come la cognizione delle parole sia legata indissolubilmente alle esperienze che leghiamo ad esse. Il luogo di questo deposito di esperienze è il campo semantico, cioè l’insieme di correlazioni esperienziali (mediate e dirette) che abbiamo nei confronti di una certa parola. In sostanza ogni esperienza che facciamo di una parola, diciamo della parola amore, interverrà sulla nostra concezione di quel concetto espresso da quella parola. Le nostre esperienze amorose, quelle degli altri e, forse soprattutto, le rappresentazioni che riceviamo tramite canzoni o film romantici, concorrono tutte nel definire la nostra concezione di amore.
Nella, disperante, sfera dell’informazione giornalistica italiana esiste una parola il cui campo semantico è popolato principalmente da fantasmi e mitologie, nonostante sia concreta esperienza per centinaia di migliaia di persone: il carcere.
Questo luogo misterioso e terribile è al contempo in primo piano ed assente nei discorsi delle testate giornalistiche e nel dibattito d’opinione. Presente (e basta una rapida scorsa a una qualunque testata in un giorno qualunque per accorgersene) perché affolla i titoli delle notizie, di solito con brevi accenni sul numero di anni di condanna che toccheranno al malcapitato di turno. Ma al contempo assente perché in buona sostanza di questo luogo non si sa nulla, o meglio, nulla di preciso. La conoscenza mediatica che se ne ha è formata per lo più da idee di ristrettezze di spazi e di privazione della libertà e vede di solito come sorgenti di queste informazioni serie tv e film, spesso riferiti al mondo anglosassone. In definitiva, una conoscenza piuttosto povera e spettacolarmente stereotipata.
Questa situazione di assoluta ignoranza sulla materia e di sostanziale invisibilità nel dibattito pubblico non è una semplice distrazione giornalistica sul “dovere di cronaca”, quanto piuttosto un preciso risultato di una politica reazionaria che ha ogni interesse nel presentare il carcere come un luogo dove rinchiudere chi offende il patto sociale, punirlo e, possibilmente, dimenticarsene per sempre. Non c’è niente altro in questa visione, chi infrange la legge deve soffrire, con buona pace dei principi costituzionali sulla funzione rieducativa della pena. Abbiamo ben visto all’opera questo modo di concepire la pena e le carceri e abbiamo visto quale tipo di considerazione per la vita e la dignità ne consegua. Lo abbiamo visto a marzo, quando una gestione al tempo stesso criminale e dilettantistica della situazione ha fatto esplodere la rabbia in decine di istituti. 14 detenuti sono usciti cadaveri dalle loro celle. Tutti per overdose, pare, dopo aver fatto incetta di psicofarmaci nelle infermerie prese d’assalto, ma nessuno comunque si sta dando troppa pena di fare ulteriore luce sulla vicenda. Anche volendo credere all’overdose, le responsabilità dello Stato e di quel personaggio tragicomico di Bonafede rimangono evidenti a chiunque abbia occhi per vedere. Lo sono anche oggi con quasi 2.000 infetti fra detenuti e personale nelle carceri e già 3 morti a causa del covid, oltre al medico del carcere di Secondigliano.
Questa cultura politica della pena si presenta come autoevidente, necessaria, senza alternative e nell’attuale panorama dell’opinione pubblica è certamente quella di gran lunga maggioritaria. Così maggioritaria da eliminare, anche solo concettualmente qualunque alternativa, come se fosse sempre stata questa l’unica maniera di approcciarsi al problema.
Eppure non è sempre stato così. Fino agli anni ’80 le politiche abolizioniste (oggi considerate fantascienza anche dal più fervente garantista) erano radicate nel dibattito intorno al carcere e persino negli Stati Uniti una buona fetta della classe politica propendeva per esse. In Italia l’istituto dell’indulto e dell’amnistia era utilizzato normalmente, in misura di due-tre volte a decade, come politica deflattiva degli istituti penitenziari e ben pochi gridavano allo scandalo per questo.
Sembra utile quindi chiedersi come si sia arrivati all’attuale situazione e, soprattutto, quali siano i soggetti politici ed istituzionali che hanno spinto per una concezione carcerocentrica della pena e che vantaggio ne abbiano tratto.

I vantaggi, a volerli vedere, sono abbastanza semplici da identificare. Negli ultimi 15 anni ogni governo si è preoccupato di espandere i confini dei poteri inquirenti. Sono state aumentate, e spesso raddoppiate, le pene minime per diversi reati (rapina, furto aggravato, evasione, occupazione di edifici), e questo nonostante una diminuzione tendenziale di questi reati da oltre 20 anni. Sono aumentate a dismisura le già ampie possibilità d’intercettazione attraverso trojan e captatori informatici. L’articolo 270 del codice penale in materia di terrorismo dal 2001 si è allargato in una dozzina fra commi e lettere per far rientrare sotto la sua definizione un numero sempre più grande di eventi. E questo nonostante l’Italia avesse già dagli anni ’70 e ’80 varato leggi speciali che inasprivano le pene e prevedevano una molteplicità di fattispecie. La giustificazione politica, in questo caso, risiedeva nei molti attacchi di matrice jihadista susseguitisi dal 2001 in avanti, anche se l’Italia non è mai stata toccata in maniera diretta sul suolo nazionale.
Per farla breve, chi di mestiere applica articoli del codice penale alle azioni degli individui si trova con una cassetta degli attrezzi enorme e, ad essere onesti, assolutamente sproporzionata all’effettiva bisogna1. Ma non sono gli unici soggetti che ne traggono vantaggio. Il discorso giustizialista rafforza le posizioni politiche più involute. Non è un caso che sia fatto proprio da un Salvini che nel suo breve mandato da ministro dell’interno ha emanato ben due decreti sicurezza i cui destinatari politici erano platealmente i movimenti di occupazione per la casa e le ONG che si occupavano di soccorrere i migranti.
Di per sé questo non è uno scoop. Il fatto che le politiche repressive accompagnino le istanze conservatrici e reazionarie è un meccanismo basilare di facile comprensione. Un po’ meno immediato risulta come il giustizialismo si sia imposto in un arco così grande del panorama politico. Il punto va ricercato nella narrazione mediatica che si è data negli ultimi trent’anni della giustizia e dei reati. I partitari delle politiche Law & Order si sono sapientemente nascosti dietro una serie di narrazioni molto più accettabili e, apparentemente, incontestabili. Chi avrebbe da ridire su una disposizione di legge che porta il nome di antimafia? Chi contesterebbe una norma che viene chiamata antiterrorismo? In pochi sono riusciti a vedere oltre la retorica di queste norme, e sono ancora meno le persone che si sono schierate pubblicamente contro queste.
Il passaggio importante è che le norme securitarie vengono mascherate come azioni di contrasto contro nemici inaccettabili, dal mafioso all’ultrà passando per il terrorista. Queste norme vengono sempre presentate nei molti periodi di emergenza annunciati dalle testate di giornale. D’altronde si sa che se una situazione è urgente non si può perdere troppo tempo a discutere sul come e sul cosa e a fare distinguo. Va fatto qualcosa subito. E puntualmente vediamo un gran messe di norme fare ingresso nel codice penale dopo ogni singolo periodo di emergenza. E, altrettanto puntualmente, vediamo utilizzare queste norme in un senso politico. Ben diverso dallo spirito che le aveva fatte accettare come necessarie sotto la pressione dell’emergenza e dell’inaccettabilità.
Vediamo di fare chiarezza con qualche esempio. Nessuno avrebbe osato contestare una normativa sulla tratta degli esseri umani, eppure quelle norme sono state utilizzate a Riace contro chi portava avanti progetti di accoglienza. In pochi si sarebbero opposti dopo le stragi di Londra e Madrid (2005 e 2003) ad una normativa contro il terrorismo, ma quelle stesse leggi sono servite per portare sotto processo decine di militanti dei vari movimenti che ancora resistono in questo paese. Compresi, e qui siamo al capolavoro, chi ha messo a rischio la propria vita per combattere proprio il terrorismo islamista, come sta accadendo in questi giorni alla combattente delle YPJ Maria Edgarda Marcucci. Difficilmente si sarebbero trovati difensori pubblici delle curve più agitate, ma, com’era da aspettarsi, lo strumento del daspo ha trovato sempre più larga applicazione fino a diventare uno strumento di sanzione verso ogni sorta di comportamento deviante, come l’ubriachezza o chiedere l’elemosina.
Questi meravigliosi successi della repressione non sarebbero stati possibili senza una condivisione dei valori securitari da parte di una fetta enorme della popolazione. Una fetta molto più ampia dell’elettorato dei partiti che poi hanno capitalizzato questi successi.
Il giustizialismo ha saputo trarre profitto dall’incessante martellamento mediatico che proveniva dai media che parlavano dell’impunità dei politici, delle centinaia di migliaia di processi distrutti dalla prescrizione (istituto ormai cancellato nei fatti), dei magistrati con le mani legate o dei magistrati che scarceravano in pochi giorni i peggiori criminali, delle carceri con celle di lusso, dei poliziotti senza mezzi impotenti nel compiere il proprio lavoro, ecc…
Questo continuo piagnisteo sull’impotenza della giustizia e dei suoi esecutori si è ben accompagnato con la narrativa di paura che tanto piace ai giornalisti nostrani. Ecco il secondo elemento fondamentale di questo connubio. Da una quantità incredibile di mass media viene una costante informazione che ci ricorda quanto sia forte e potente la criminalità, quanto siano spaventosi i tempi in cui viviamo e quanto siano pericolose le nostre città. Uniti insieme questi due elementi hanno formato l’olio su cui le forze più conservatrici e reazionarie hanno potuto introdurre la propria agenda.

Non si tratta qui di sminuire la potenza e la penetrazione della criminalità organizzata nella società. Chi ha a cuore la causa dell’emancipazione umana non può che provare ribrezzo e odio di fronte a questi agglomerati di potere violento e mancanza di considerazione della dignità umana rappresentati dalle mafie e dal terrorismo di matrice islamo-fascista. Si tratta piuttosto di mettere in discussione la narrativa tossica che ne dà il fronte del populismo giustizialista, e proporre delle spiegazioni causali alternative all’insorgenza dei fenomeni criminali.
La paura che scaturisce dall’insicurezza sociale non può venire combattuta dal feticcio del carcere e della repressione. Queste soluzioni anzi acuiscono e perdurano quei fenomeni, perché sono soluzioni assolutamente coerenti con il mantenimento del sistema di potere che le genera.
L’agenda di queste politiche si limita infatti a combattere repressivamente questi fenomeni senza mai mettere in discussione i rapporti sociali che li creano. Ed è proprio questo il suo principale interesse politico. Insistere su una politica di repressione dura non mette in discussione minimamente i rapporti sociali che sono la vera causa dei fenomeni che dichiara di voler colpire. Non viene mai colpita l’alienazione l’abbandono che questa società costantemente crea, come se questi fenomeni macroscopici non avessero nulla a che fare con le tossicodipendenze che mandano in carcere tanti piccoli spacciatori e che fanno arricchire quelli grandi. Non viene mai colpita la povertà e lo sfruttamento che creano un formidabile campo di reclutamento per ogni tipo di mafia. Non viene mai colpita la diseguaglianza sociale. Non vengono mai colpiti i sistemi di pensiero patriarcale che portano alle spaventose vessazioni sul corpo delle donne di cui ogni donna ha fatto esperienza nel corso della vita. Non vengono mai colpite le politiche coloniali di spoliazione delle risorse e di quelle popolazioni che poi trovano nel fondamentalismo religioso una forma di resistenza a quelle stesse spoliazioni.
In conclusione. Il giustizialismo non ha nulla a che vedere con la giustizia eticamente intesa. La sua concezione ultracarceraria della pena, imprigionando le persone, non fa null’altro se non imprigionare gli esiti delle contraddizioni sociali. Questo tipo di risposta non intacca in nessun modo (volutamente) le cause che stanno alla base di queste contraddizioni, ma anzi le acuisce e le esaspera. Il risultato è che non solo la nozione di giustizia che ne deriva è del tutto illusoria, ma lo è anche quella di sicurezza. Non esiste infatti una migliore fabbrica di emarginazione di quella del carcere. Una fabbrica che replica infinitamente i reati e le loro cause, cioè le medesime offese sociali che sarebbe chiamata a risolvere. Il chiudere degli umani per qualche anno fra quattro mura non migliora in nessun modo né la condizione della persona né la persona stessa, infatti abbiamo visto come l’unica risposta a questa evidenza sia stata di far sì che il numero di anni sia il più alto possibile nella speranza di spezzare umanamente il detenuto o farlo uscire troppo invecchiato per nuocere. Perseguendo naturalmente questa logica si capisce bene come si arrivi a pensare che l’unica pena sensata sarebbe quella dell’ergastolo per ogni tipo di reato, dalla calunnia al furto.
E’ tempo di chiedersi quale idea di giustizia promani dai tribunali e dalle colonne dei giornali più forcaioli. Quale tipo di idee mettano nel suo campo semantico e chi questo tipo di concezioni avvantaggino sul piano politico.
Senza questa operazione sarà impossibile mettere in campo delle narrative e delle azioni alternative e contrarie. Alternative a queste concezione feroce e cinica della pena. Contrarie all’ordine sociale che crea i carceri per riempirli di emarginazione, pensando così di nascondere i propri fallimenti.