COME SI SPARA A UN OROLOGIO CONGELATO?

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Ed eccoci qui, un anno dopo. Riassumere la situazione attuale sarebbe superfluo, dato che è ormai pressoché l’unico oggetto di discorso, la nevrosi principe che sembra fagocitare e al tempo stesso conservare tutte le altre. Di sicuro, però, c’è che a questo punto si fa strada strisciando l’abitudine. E prima ancora di qualsiasi posizione su o interpretazione di ciò che è accaduto e sta accadendo, sarebbe ipocrita negare la presenza di una nuova normalità – rattoppata, provvisoria, odiata ma comunque operante. Quest’ospite sgradevole è quello che più di tutti gli altri sembra venuto per restare.

Per queste ragioni ci sembrava interessante proporre la traduzione di questo testo, apparso qualche tempo fa su Ill Will Editions. Racconta una piccola esperienza di mutuo soccorso a Lisbona cominciata nei primi mesi della pandemia. Vale la pena di parlarne ora, mentre i luoghi che viviamo si avviluppano su loro stessi percorsi da un generale sentimento di stanchezza.

Il primo aspetto degno di nota è il fatto che l’autore rimarchi la differenza – magari banale ma molto significativa – tra un tempo sospeso e un tempo congelato, ridotto in poltiglia. La vita è rattrappita ma gli ingranaggi della fabbrica del mondo continuano a girare. Il secondo è il tentativo di pensare la cura collettiva come un metodo e non come uno strumento utile a dimostrare o prefigurare una migliore gestione e organizzazione dell’esistenza. La solidarietà che diventa piano comune, invece di una macchina politica. In ultimo viene il legame che può svilupparsi fra tutti i vari momenti di condivisione della fragilità e le esplosioni di rivolta, quelle che (ancora poche) si sono date e quelle che potrebbero arrivare.

E’ difficile capire che cosa si stia effettivamente disfacendo, in questi mesi, e che cosa stia cercando un adattamento per garantirsi a qualsiasi prezzo la sopravvivenza. Ciò che si può riassumere con la parola capitalismo annaspa, sì, ma noi con lui. Al tempo stesso qui e là si sono visti dei lampi. Nate dalla reazione, dalla paura o dall’esasperazione, sono avventure che hanno avuto durate e forme variabili. Qualsiasi sforzo per farle parlare tra loro e metterle in contatto merita attenzione.

Quando la pandemia di COVID-19 si è manifestata per la prima volta, si è diffusa l’idea che potesse essere l’occasione per una sorta di “guarigione”. Di fronte alla sospensione della vita quotidiana, la società sarebbe finalmente stata in grado di scoprire quella sensibilità etica universale promessa dalla modernità e a lungo rinviata. Il fatto che questa speranza si sovrapponesse alla costituzione di una “nuova normalità” che non era solo una versione peggiore della “vecchia normalità” rendeva la situazione ancora più grottesca. È diventato evidentemente chiaro che la nostra società per la sua stessa inerzia è incapace, a partire dalle sue proprie strutture, di rispondere alle catastrofi che essa stessa produce. L’incubo che ci sta di fronte non può essere sospeso dalle istituzioni che abbiamo a disposizione.

Riconoscere questo ha spinto ad un rinnovato interesse per le pratiche di mutuo aiuto. Si dice che le pratiche di cura, condivisione e auto-organizzazione comunitaria si muovano contro questo mondo, ma questo presuppone troppo frettolosamente che lasciare questo mondo significhi gestirlo meglio di quanto il capitale possa mai fare. E se il mutuo aiuto e le insurrezioni avessero più di una sovrapposizione occasionale o accidentale? E se ci fosse un fenomeno comune che si pone al cuore di entrambe?

Nei paragrafi che seguono, voglio raccontare la storia di come una di queste iniziative di mutuo soccorso si è espansa e cresciuta, superando alcuni dei suoi limiti, in risposta alla pandemia del COVID-19, evidenziando sia quanto velocemente le pratiche di mutuo soccorso possano diventare antagoniste, sia come tali gesti possano partecipare a una più ampia prospettiva di destituzione e abolizione.




La Comune di Arroios

RDA69, aka RDA, è uno spazio collettivo o “centro sociale” vicino al centro della città di Lisbona, in Portogallo. È annidato nel quartiere di Arroios, che, come tutti i quartieri in rapida gentrificazione, unisce turisti, cacciatori di fondi d’investimento, giovani “creativi”, immigrati, hipster bohemien e una significativa popolazione di senzatetto. Inoltre, RDA è in una posizione curiosa: come una rivisitazione della favola di Davide e Golia, si trova in una strada laterale proprio dietro l’enorme edificio che ospita la Banca del Portogallo e la sua porta d’ingresso si affaccia sul garage della banca. Anche se le strade vicine sono piene di gente e di traffico, la strada della RDA vede molto meno movimento, il che gli permette di usare liberamente strade e marciapiedi.


Come molti altri spazi, RDA è diventato un progetto consolidato dopo che il ciclo di lotte del 2011-12 ha trasformato la precedente composizione politica della sinistra. RDA ha giocato un ruolo importante nel movimento anti-austerità portoghese di quel periodo e ha svolto, negli ultimi dieci anni, nel bene e nel male, tutte le funzioni interessanti (e meno interessanti) tipicamente organizzate da un centro sociale: dibattiti, feste, incontri, ecc.

Tra le sue varie attività, la più importante e complessa consisteva fino a marzo 2020 in una mensa giornaliera che serviva circa ottanta pasti economici al giorno, per sei giorni alla settimana. Le persone che gestivano la mensa erano pagate per il loro impegno, con metodi sempre più organizzati di assegnazione dei turni, sistematizzazione dei compiti e anche modi informali di previdenza sociale. Da un lato, questa mensa forniva un servizio costante che sosteneva il centro sociale, dall’altro, essendo l’attività che richiedeva più tempo, rischiava costantemente di fagocitare tutto il resto, trasformando il centro sociale nell’ennesimo ristorante eccentrico per hipsters e turisti.

Quando a metà marzo del 2020 sono state annunciate le prime misure di lockdown per il Covid-19, si è cercato di mantenere la mensa funzionante in modalità da asporto, a prezzi più economici, per continuare ad offrire al quartiere pasti a un costo accessibile. Tuttavia, divenne presto evidente che la gente non si avventurava fuori per mangiare. 

Fu fatta a quel punto una scelta difficile: distribuire il cibo gratuitamente, fino a quando RDA potesse sostenerlo economicamente. RDA aveva la struttura e gli strumenti  per cucinare ad un gran numero di persone, e l’atmosfera apocalittica del primo lockdown certamente lo richiedeva, quindi perché no? La prima settimana, turni di volontari di due persone hanno cucinato e distribuito circa quaranta pasti. La seconda settimana, sia il numero di persone che il numero di pasti sono raddoppiati: ottanta pasti cucinati da squadre di quattro persone. Alla fine del primo mese, turni di cinque e più persone cucinavano e distribuivano una media di duecento pasti al giorno.

Quando RDA ha annunciato la mensa gratuita sui social media, le donazioni hanno cominciato ad arrivare spontaneamente, una cosa che – a differenza del Regno Unito o degli Stati Uniti – era totalmente inaudita, dato che in Portogallo il movimento ha una sua economia precaria e solitamente non dipende dalle donazioni.

Le persone più differenti usufruivano della mensa. C’era la popolazione dei senzatetto del quartiere, prima di tutto, ma anche una discreta parte dei numerosi anziani della zona. Questi ultimi vivono o dei pasti molto economici forniti dai ristoranti locali (dato che le loro case spesso non hanno mezzi per cucinare) o dalle istituzioni statali, entrambi chiusi in fretta e furia a causa delle misure di lockdown. Ma anche diversi lavoratori usavano la mensa, compresi molti driver che si occupano di consegne. Si è presentato anche un numero considerevole di immigrati dal Brasile, dal Nepal e dal Bangladesh e impiegati nella ristorazione, molti dei quali avevano esaurito rapidamente le loro scarse risorse dopo la chiusura dei locali, lasciandoli senza casa e senza abbastanza soldi per mangiare.

Con il passare delle settimane, sono successe due cose significative. Innanzitutto, l’organizzazione della mensa gratuita è diventata più regolare, più specializzata, più efficiente. Le provviste venivano immagazzinate, i menu erano semplificati e decisi prima, e i turni si riempivano rapidamente con settimane di anticipo. In secondo luogo, il confine tra militanti e utenti della mensa cominciò a dissolversi. Le persone che usavano la mensa cominciarono a cucinare, confezionare e distribuire il cibo insieme ai membri del collettivo. Estranei si avvicinarono per dare una mano e finirono per essere assegnati ai turni alla fine della settimana. Lentamente, l’organizzazione dello spazio in RDA cominciò ad adeguarsi a queste nuove relazioni: gli utenti della mensa avevano ora un posto per caricare i loro telefoni, lavare e asciugare i vestiti, ecc.

Da questa nuova socialità, che ora superava di gran lunga il milieu di RDA, nacque il progetto di occupare un edificio del quartiere, nello stesso isolato, che potesse servire sia come centro diurno che come luogo in cui la popolazione senzatetto del quartiere potesse organizzarsi autonomamente per soddisfare i propri bisogni: un posto per fare la doccia, il bucato, sedersi a mangiare, trovare riparo dalle intemperie, ma anche un posto per giocare a scacchi, leggere il giornale, ecc.

Seara, come è stato chiamato questo posto, è stato occupato alla fine di aprile. Il gruppo di volontari che se ne prese cura era indipendente da RDA. Era composto da persone provenienti da vari collettivi di movimento, così come da altri esterni all’ambiente attivista. Seara era aperto tutti i giorni dalle 11 alle 16, e oltre ai servizi essenziali, ospitava anche attività quotidiane, tra cui una band dal vivo che trasmetteva regolarmente le sue performance online. Dopo qualche giorno, anche gli edifici vuoti adiacenti sono stati occupati da persone che avevano bisogno di un alloggio dopo aver perso il lavoro e la casa.

L’occupazione di Seara e degli edifici vicini ha fatto sì che quasi un intero isolato nel centro di Lisbona sia stato occupato e trasformato in un’enorme quartier generale di mutuo soccorso, mentre RDA (insieme a diversi altri collettivi) gestiva mense nei locali vicini e altrove nell’area metropolitana di Lisbona, distribuendo più di 1000 pasti al giorno. Centinaia di persone passavano ogni giorno, dando una mano qui e venendo aiutati là. Per scherzare, la gente cominciò a parlare del quartiere come la Comune di Arroios.

Lo sgombero di Seara non si è fatto attendere. Di fronte all’impossibilità di un rapido sgombero legale, i proprietari – un fondo d’investimento internazionale – hanno assunto una società di sicurezza privata per portare a termine l’operazione. Gli scontri tra i buttafuori armati, la polizia, gli occupanti e le centinaia di persone che si sono presentate in solidarietà sono durati un giorno intero, con i manifestanti che sono riusciti a riprendere l’edificio per qualche ora prima di essere nuovamente sgomberati.

La mensa di RDA è durata fino a settembre 2020, fino a quando i fondi si sono esauriti e la stanchezza è arrivata. Sono stati serviti più di 25.000 pasti durante questo periodo. In seguito, RDA ha continuato ad aprire tutti i giorni, anche se su una base diversa: generi alimentari di prima necessità, utensili da cucina e piani di cottura sono stati messi a disposizione delle persone. Una quarantina di persone si presentano ogni giorno, cucinando, condividendo i compiti. Alcuni di loro ora dormono davanti al centro sociale. Questo continua ancora oggi (dicembre 2020, nda).

Questa esperienza ha fatto emergere una percezione condivisa. Per le persone coinvolte, l’intero processo entrava in risonanza con gli stessi affetti sensibili e intuitivi che avevano precedentemente sperimentato all’interno di rivolte, insurrezioni e movimenti sociali di massa. Gesti come questo erano di natura simile a quelli che si erano verificati nelle rivolte e nelle occupazioni che la gente aveva vissuto all’inizio del decennio. Non era né un mero aiuto reciproco, né una fantasia piccolo-borghese di déclassement, ma l’espressione di qualcosa di qualitativamente diverso, qualcosa che avviene oltre la temporalità della produzione e della riproduzione.

Cura negativa

Questa è un’affermazione audace. Dopotutto, per quanto interessante possa apparire questo processo o per quanto entusiastica possa essere la sua descrizione, si tratta comunque, a detta di tutti, di una vicenda piuttosto modesta, afflitta da vari problemi e contraddizioni, priva della furia iperbolica di altri eventi più infuocati. Non è mai stato revocato il controllo della metropoli, e l’unico fumo che riempiva il cielo notturno proveniva dal vapore delle verdure bollenti. Tuttavia, è proprio in questo ruolo minore che potrebbe risiedere la sua rilevanza.

Che tipo di affetto attraversa sia le insurrezioni di massa che i piccoli gesti descritti sopra? Non si tratta semplicemente di una diserzione dalle istituzioni che regolano la vita, ma anche di un processo in cui le istanze di comando vengono disattivate,  sia pure brevemente. Per provare a fare un esempio, possiamo pensare alla sospensione dell’esperienza del tempo e dello spazio nel mezzo di una rivolta. La temporalità della produzione e della riproduzione e l’organizzazione spaziale della città, come condizioni di possibilità del comando metropolitano, sembrano crollare. Le rivolte iniziano e finiscono, ma al loro interno il tempo sembra durare per sempre. Le insurrezioni sospendono la percezione dell’organizzazione sovrana del tempo e dello spazio.

Tuttavia, tali idee di sospensione sono messe in discussione quando diventa ovvio che anche le misure di lockdown contemporanee contro la pandemia operano una sospensione. Ciò è evidente nell’esperienza distorta del tempo che è emersa in tutto questo periodo: il tempo è diventato una poltiglia, una massa indistinta di eventi indifferenziati. Marzo si tramuta in Dicembre. Nessuno sa mai veramente che giorno della settimana sia. Case e appartamenti si sono trasformati per lo più in luoghi di disperazione e isolamento. La promessa della città, se era ancora possibile rivendicare una tale promessa di avventura e deriva nei territori metropolitani contemporanei, si è rivelata come l’inganno e la fregatura che è diventata. La domenica perenne della città diffusa metropolitana  mostra semplicemente la brutalità e l’assurdità dei luoghi che eravamo abbastanza sfortunati da attraversare quotidianamente nelle nostre vite pre-pandemia.

Diventa determinante distinguere una tale sospensione sovrana da una destituente. Durante il lockdown, il tempo e lo spazio non sono tanto aboliti quanto congelati o cristallizzati. In altre parole, gli apparati di soggettivazione che operano nelle sfere del tempo e dello spazio sono bloccati e, nella loro immobilità, diventano improvvisamente direttamente percepibili. Un apparato congelato smette di essere un comando nocivo sulla soggettivazione per diventare semplice autorità: una volta che i sistemi e le reti che organizzano i processi di soggettivazione vengono interrotti non mobilitano più un divenire, ma appaiono piuttosto come pura autorità. Il linguaggio del potere smette di essere “il modo in cui le cose dovrebbero essere” per diventare qualcosa di più vicino al crudo, dispotico ordine del capo o del poliziotto.

Se la possibilità di un gesto politico collettivo dipende dal dispiegarsi delle relazioni sociali attraverso il tempo storico, e dalle relazioni di antagonismo che si dispiegano all’interno dell’organizzazione metropolitana del territorio, allora la cristallizzazione delle forme di comando all’opera in una qualsiasi di queste dimensioni proibisce apparentemente qualsiasi possibilità di un gesto antagonista. Come si fa a sparare a un orologio congelato? Se il tempo e lo spazio sono congelati, come possono mai essere interrotti, sospesi, aboliti?

È precisamente in questa problematizzazione della politica che
gesti apparentemente divergenti – la rivolta e la mensa durante il lockdown – cominciano a convergere. In entrambi, la dialettica interna al tempo e allo spazio è apparentemente interrotta, e al loro posto emerge un evidente antagonismo. In questo contesto concreto, cioè quello di una sospensione sovrana della vita sociale (che dispiega misure strategiche apprese proprio nelle operazioni di controinsurrezione), la mensa libera e la conseguente occupazione di Seara hanno trovato un modo per costruire relazioni sociali antagoniste che esistono al di là della politica.

Il fatto che il gesto di demonetizzare e demercificare certe pratiche di cura abbia immediatamente assunto una postura offensiva attraverso occupazioni spontanee, e che abbia superato di molto la capacità del preesistente milieu attivista, mostra come tali gesti antagonisti vadano al di là della rappresentanza, della gestione e del volontarismo. Il fatto che la risposta ricevuta sia stata portata avanti in primo luogo da guardie private, lavoratori della violenza non statale, conferisce credito a tale ipotesi che questi conflitti hanno superato il quadro della “politica” convenzionale.

Anche se non stiamo parlando di un insurrezione, una rivolta o di nulla anche solo lontanamente simile, si può usare la stessa chiave di lettura per capire cosa sia successo: non è questione di ricostruire la società civile interrotta dallo stato d’eccezione, ma piuttosto sperimentare modi di organizzazione collettiva che vanno oltre quello che prima appariva possibile.

Le rivolte e le insurrezioni dell’ultimo decennio sono testimoni di un uso della violenza che è lontano dall’essere interpretato in termini sovrani o militari, una violenza che mira invece a interrompere e deporre l’autorità e il comando, una violenza che agisce come un disfacimento. La questione, allora, è se possiamo immaginare che un processo simile si metta in atto secondo categorie diverse da quella della violenza. Possiamo pensare a pratiche di aiuto reciproco o di cura la cui azione poggia su un disfacimento?

Di per sé, “mutuo soccorso” e “cura” non sono categorie necessariamente antagoniste, e possono facilmente assumere le stesse sfumature costituenti, sovrane e riformiste che si associano a qualsiasi altro repertorio politico. La questione qui è differente: si possono concepire gesti di mutuo soccorso e di cura che non appaiano come un nuovo fondamento – cioè come il presupposto di un’esteriorità al capitale che poggia sulla bellezza autocelebrata di tali gesti – ma piuttosto come forme di destituzione? In altre parole: come possono le iniziative che organizziamo diventare indistinguibili nelle loro finalità costruttive e offensive? Piuttosto che pensare alla cura e al mutuo soccorso come ad azioni il cui valore risiede nei loro nobili ideali, nel modo in cui apparentemente ritraggono un mondo più giusto a venire o potrebbero costituire una minuscola e breve tregua dall’ostilità delle relazioni sociali capitaliste, dovremmo intenderle come armi, come un metodo di interruzione e sospensione. 

Tali forme sono facilmente identificabili all’interno delle insurrezioni, dato che avvengono sempre dietro le quinte delle rivolte: espropriazione e condivisione delle merci, mense popolari che nutrono i manifestanti, medici di strada, ecc. Possiamo anche pensarli al di là di questa violenza, non perché dobbiamo rifiutare la violenza, ma perché non vogliamo dipendere dalla possibilità di essere capaci di mettere in atto la violenza? Questo ci richiederebbe di pensare a qualcosa come una cura negativa: una cura di sé e degli altri che non presuppone le relazioni sociali e affettive che crea, una cura che invece dissolve e diserta piuttosto che imporre la normatività che fonda quelle stesse relazioni.

Ogni ciclo di lotta ha cercato di proporre una mediazione tra il momento del riscatto – della rivoluzione – e l’attualità e la materialità delle condizioni storiche. Tale mediazione è stata denunciata come politica, socialismo, transizione, riforma, “programmatismo”, ecc. Ma tale mediazione può assumere una forma che, invece di sviluppare un’articolazione strumentale, cerca di districarsi lentamente, costantemente e attentamente da tale necessità. La pandemia globale e le misure ad essa associate aprono la possibilità di pensare gesti antagonisti che superino l’impasse tra le maree estatiche e quelle malinconiche dei movimenti sociali, tra la gioia fugace della rottura tumultuosa e la disperazione che ci attende alla loro conclusione, quando l’incubo riprende di nuovo.