L’UOMO CHE UCCISE LIBERTI VALERIO
Non c’è dubbio che se gli avessero detto che sarebbe morto così, per colpa di un villico in divisa completamente privo di gusto, uno che per dire sicuramente non è affezionato alla musica della nuova onda o alle muratti senza filtro o al mistrà la mattina presto, in modo certo violento ma non rocambolesco come si era sempre immaginato, accoltellato nei bagni dello stadio o morto in una sparatoria al confine tra Spagna e Francia, Liberti Valerio, huligano dangereux in giacchetta di velluto a coste, pensiero rizomatico e solida reputazione consolidata negli anni nei baretti violenti lungo la circonvallazione, mustacchi folti e spontaneisti, svegliatosi nel primo pomeriggio con la testa cotta dalla sera prima, probabilmente non sarebbe andato a ritirare un pad thai d’asporto, non avrebbe conversato con alcune cariatidi del secolo scorso fuori dalla sala bingo della sua mitridatizzazione alle polveri, e certamente non avrebbe attraversato la strada così, senza curarsi delle auto che passano, con spregiudicatezza e piglio avventuroso, per poi ritrovarsi scaraventato qualche decina di metri più avanti, con il pad thai che esplode nell’impatto e riempie la strada di tagliatelle di riso e germogli di soia e arachidi, dopo aver frantumato il parabrezza dell’auto in corsa, proprio lui, una laurea magistrale con tesi sulle epistole paoline, tre anni di daspo e nel taschino della giacca un grammo di speed umida come il naso di un cocker.
L’uomo che uccise Liberti Valerio era uno sbirro fuori servizio, uno zotico figlio di zotici, sputato ventinove anni prima nelle aspre terre lucane e cresciuto in una baracca di lamiere a biada e arsura, arrivato al Settentrione su un regionale dissestato e sistemato in una caserma della periferia nord vicino alla Martesana, un posto così umido da ingoiar zanzare ogni volta che si fiata, a dormire di giorno e disegnare culi di notte, per poi staccare all’alba e infilarsi nel traffico sotto al polmone rachitico che è il sole milanese a novembre, camminare a testa bassa per non essere sfilettato da un peruviano in un sottopassaggio che puzza di piscio, che se avesse saputo o anche solo avesse avuto un presentimento di quello che sarebbe poi successo non sarebbe andato a fare la spesa, con gli occhi cisposi e il corpo stanco, e invece era uscito subito dopo il turno, su una di quelle auto a noleggio rosse che si trovano per strada, coi sedili sporchi di briciole e macchie di sborra, guidando verso l’Eurospin cercando di ignorare il trascolorare del cielo, la folla brulicante sui marciapiedi, le vetrine, le insegne luminose, cercando solo di guidare, di non addormentarsi e superare la curva con gli occhi aperti.
Liberti Valerio, una vita guerresca e rambalda, condotta con sprezzo sempre in barba al buonsenso, ligio nel trascurare se stesso e gli altri e la norma, aveva sempre pensato che ci sarebbe stato ancora il tempo di girare i tacchi, affrancarsi da un treno in corsa, decidere di smettere quando si vuole di correre sulla cosiddetta lama del coltello, prima che la sorte gli potesse sbattere sul grugno i suoi trent’anni in arrivo, i suoi rimorsi pirati, i suoi carichi pendenti, prima che in poche parole potesse mandare il conto al padreterno, ma che ciononostante sarebbe potuta sopravvivere in lui la gioia di un gesto irrazionale, carico di simbolismo, un’impulsività fanciulla, come gettarsi nella mischia e mulinare selvaggio, per questo decise di attraversare la strada così, senza guardare, lui che avrebbe sempre tirato dritto fino alla prossima curva.
L’avrebbero trovato così, i poliziotti e i giornalisti e i curiosi, riverso a terra lungo la curva dello stradone sotto al cavalcavia, con in bocca un sapore ferrigno e bellicoso, un balordo mezzo ultras come di tanti si legge sul giornale, quasi sicuramente morto nell’impatto disegnando sull’asfalto un angelo di sangue e salsa di soia, e uno sbirro dentro l’auto, tramortito dall’urto, la divisa stretta ancora addosso, ricoperta di spaghetti, e il pettegolezzo si sarebbe rincorso di bocca in bocca, parlando di una morte accidentale, avvenuta prima del tempo, senza immaginare la coerenza e la potenza di un gesto istintivo come quello del Liberti, che in mezzo alle cose che crollano aveva scelto l’unica cosa vera e viva da fare, accettare la sconfitta, lasciarsene invadere e distruggere con essa i propri miti e le proprie follie, capitolare una storia che aveva preteso sempre tutta per sé, perché permeata del senso del suo agire obliquo, e attraversando la strada, chiudendo gli occhi, aveva trovato così forte, così radicale questa volontà, da avere per un attimo l’immagine della sua stessa vita zigana come d’un ingorgo, un intollerabile stratificato accumulo di vecchie fedeltà e passioni e linguaggi e culture e sentimenti e abitudini mentali e pratiche e in bocca il sapore acre dei fumogeni, una minaccia di morte di un mondo nuovo e incomprensibile, e allora il suo porsi al centro della corsia in mezzo alle auto che passano sarebbe stato nient’altro che un funebre atto di fedeltà al passato, una volontaria violenta immersione nella sconfitta, lui che l’avrebbe sempre negata a se stesso e agli altri nel momento stesso in cui la subiva.