MILANO, CITTÀ SCOMPARSA? – di Franco Fortini
Le immagini evocate da Franco Fortini in questo ritratto chiaroscuro di Milano ci donano una veduta degli anni ’90, quando giungeva al termine un secolo e un’epoca in cui la città era stata “privilegiato teatro della esistenza sociale”. Si scorgevano allora quelle dinamiche che oggi sono il nostro quotidiano: l’avanzare della trasformazione urbanistica che modifica le vie del centro cittadino con l’espulsione dei meno abbienti; la conurbazione selvaggia del malinconico hinterland popolato da “una inumanità feroce e disperata” ma ricco di novità e speranza; lo “stile diffuso” tipico delle grandi città del mondo; la nuova opposizione che, come sempre, si disegna “nelle forme più diverse e nelle tendenze più inattese”.
Il caso ha voluto che, ormai da trent’anni, sia tornato a vivere nel medesimo quartiere che mi aveva ospitato nel dopoguerra. Sta fra l’antica cerchia dei Navigli e quella cosiddetta delle Mura Spagnole o di circonvallazione. Non è solo gradevole e comodo, per servizi pubblici, negozi, mercati, congerie di ceti, successioni di età e culture: è singolare per la vista privilegiata sui mutamenti della città negli scorsi decenni. Il «Garibaldi», come si chiama il quartiere, era stato al centro dei movimenti popolari alla fine del secolo (le barricate del ’98), quando confinava a sud con aree di miseria e teppa, a nord con zone di artigianato socialista e di Società di Mutuo Soccorso. La piazza che lo conclude si chiama XXV Aprile; lì, per più di un decennio dopo la guerra fu la sede della Federazione del pci; in una osteria della zona (e c’è la lapide) Ho Chi Mihn ha lavorato da sguattero; fra la birreria odiernissima e una superstite vecchia ricamatrice ci incontravi Valpreda; la libreria anarchica si affianca alla pasticceria raffinata…
Oggi fra il «Piccolo» di Strehler e la vicina Brera delle gallerie d’arte, dei giornalisti del «Corriere» e delle luccicanti boutiques, corso Garibaldi non fa neanche melanconia. La bruttezza intensa, aggressiva, di certe parti di questa città, quale si avverte arrivando per autostrada da San Donato, si rovescia in una sua paradossale unità di stile, se non bellezza. Chi vuol capire Milano, e apprezzarne l’oscura ambizione ad una terribilità mancata, la percorra in auto sulle due tangenziali.
Una delle tendenze più decise e durevoli dei nostri decenni, nelle città grandi e antiche, si sa, è l’espulsione del «popolo basso» dai centri storici, la trasformazione delle abitazioni in uffici o servizi. Chi ha oggi quarant’anni è difficile possa intendere che cosa fossero, fino agli anni Sessanta, gli arrondissements parigini. Così è stato ed è per Milano. Intere strade sono state ristrutturate e abbellite senza pietà; gli appartamenti quando non sono di imprese e di foresterie, li abitano nuovi ricchi, che spesso sono – va detto – di educata cultura, di non volgari gusti. Ci sono percorsi – non parlo dei più noti, quelli del banale «rettangolo d’oro» tra via Manzoni e San Babila o delle «passerelle» da settimanale – che lasciano intravvedere ambienti che non sono più uffici e non ancora case di abitazione. Nelle stagioni che più si confanno a questa città, autunno e inverno, si scorgono interni che (come ai primi del secolo era con Monaco di Baviera o Vienna) rivelano arredatori attenti ad Amsterdam, a Boston.
Però la realtà di Milano non è questa. Direi che non è neanche la sua scoraggiante periferia di industrie e dormitori. È invece quella trentina di comuni che la circondano e insistono gli uni sugli altri, conurbazione che cova tutti i guai civili, informi agglomerati oggi, che una volta furono cittadine o borghi. Difficile immaginare il groviglio di edifici, dal cascinale riadattato alla casa di quindici o venti piani isolata fra le rogge e le discariche, dalle fabbrichette alle villette di speculazione. La popola una inumanità feroce e disperata ma anche – per risposta e sfida alla disperazione – una umanità di iniziative e imprese di novità e speranza, di ricerca di sapere e di solidarietà. Non si creda alla retorica che parla di «terre di missione»: è che la scomparsa di tutte (dico: di tutte) le forme di solidarietà e di vita associata, la presenza sempre più forte della droga e della corruzione malavitosa ha lentamente creato un moto inverso, una autodifesa che parla un suo gergo e che stabilisce rapporti di fedeltà e di resistenza al peggio incombente. Milano è semmai la crescente sequenza di alti edifici per poveri che si inoltrano a sud nel vuoto della campagna lungo i baraccamenti degli immigrati; oppure la disseminazione di chi fugge la città verso la elvetico-americana straricca provincia di Varese, nelle unifamiliari con vigilanti, cani, piscine, kamasutra e sequestri. Chi vorrebbe parlare di Milano come del luogo della banca, della moda, della editoria, dei giornali, dei teatri? O della cosiddetta vita culturale? «Tutti da Fulvia il sabato sera» come diceva un noto cartoonist? Tutto questo fu per breve stagione, negli stolidi anni Ottanta. Ma certo vive qui uno standard di efficienza inconfrontabile con quello di altre parti di Italia, resistono talune istituzioni universitarie tradizionalmente più vicine al mondo germanico che a quello anglosassone e solidamente connesse con la ricerca tecnologica e l’universo del management. Ma si direbbe che più spesso sopravviva perché sottomesso a regole e cerimoniali mal conciliabili con una imprenditorialità moderna. Piazza Affari è spesso di malumore.
I tempi lentissimi o cautelosi di certe istituzioni culturali o amministrative permettono di misurare la febbre fredda, negativa, diciamo pure depressiva, di una città un tempo famosa per la velocità delle sue audacie. Un ingorgo di decadenza e di scarso metabolismo colpisce gli ambiti della politica, della stampa periodica, degli audiovisivi come quelli dell’arte contemporanea o della moda. Certo, i ristoranti (fra i più cari del mondo) sono sempre affollati. Qui si è aggiunta, dicono, una perfezione del mercato, almeno se si guarda alla ricchezza, difficilmente immaginabile, di una parte del terziario alto e medio. Ma con quanta velocità, per converso, si sono impiantate la criminalità, la mafia, la droga, la conflittualità razziale; segno che quei ceti medio-alti non vivono a Milano ma vi si accampano durante il giorno. In cinque anni, il viso della città è ormai marchiato da un brutto vaiolo.
Qualcuno ha piantato in mezzo alle banche un Duomo biancastro e meglio sarebbe se i visitatori non lo degnassero di uno sguardo. Già Goethe vi aveva scorto, a ragione, un crostaceo arenato. Quell’immenso gambero di fiume, i restauri lo hanno reso meschino, gessoso e insipiente con la sua Madonna di zecchino («lussuosa» la chiamò un milanese cattolico e grande poeta) che a notte male gareggia con sterminati Benetton o col Rabarbaro Zucca. L’interno è tutt’altro, è di un altro tempo, di un respiro mentale tanto grande quanto angoscioso. Qui cova l’età delle pestilenze e della pietà. È ancora un luogo assoluto, il suo spazio vince anche il drogato, il mendicante, il turista e li respinge sul miserabile e informe spazio del sagrato, li incalza verso la Galleria che è, in assoluto, uno dei luoghi più funesti del mondo, al cui confronto il Cimitero Monumentale è un inno alla gioia.
Priva di una idea urbanistica forte, ostinatamente unicentrica, strozzata nel dopoguerra dal sacro rispetto dei diritti dei proprietari sugli spazi pur aperti dai bombardieri (inconsci urbanisti inascoltati); teatro della battaglia perduta dalla nostra architettura moderna (e dalla Resistenza) la città è rimasta esitante fra le sue dimensioni tradizionali e quelle della metropoli allargata. Il ceto della finanza e quello degli scambi internazionali la considerano uno scomodo ufficio di rappresentanza carente di parcheggi. Altrove le sue residenze e i convegni: nella brughiera o sui laghi, anzi in Tunisia o in Baviera.
Gli ultimi momenti di una cultura politica milanese furono la mattina di gelo dei funerali delle vittime di piazza Fontana; e il pomeriggio di ghiaccio di quello di Pinelli. Pochi giorni fa, ventidue anni dopo, una grandissima folla era intorno alla bara di padre Turoldo. Brutto segno, le esequie. In corso Vittorio stracolmo di folla potevi quasi toccare con mano la coincidenza tra la fine di una forza politica (quella democratico-popolare che per quasi mezzo secolo aveva retto, ma sempre più debolmente, agli assalti della destra) e, forse, l’ancora incerto diffondersi di un impegno morale (e, per ora, prepolitico) fra giovani nuovi, silenziosi e, speriamo, implacabili.
Vicino ai trafori e ai piccioni del Duomo, assediato da fast-foods e dal popolo bancario, si aprono i cortili controriformati dell’Arcivescovado, tenebrosi come il bitume delle tele del Procaccini o del Morazzone. Di lì oggi muove la sola parola ascoltata da cristiani e non (per fede e per speranza ma anche, è inevitabile, per opportunismo o paura). È quella del Cardinale, spesso in suo volontario sottotono, talvolta anche tesa e tagliente. Ma (e nessuno lo sa meglio di lui) la città non è né può essere una comunità. I suoi polsi battono lontano, oltre l’anello delle autostrade, nella corruzione degli scarichi industriali, degli acidi riversati nelle acque delle risorgive, da Seveso al Lambro, nei paesotti da cui al venerdì la Stazione delle Varesine (la Nord, come la chiamano qui) scarica migliaia di infelici giovani che ingorgano discoteche o, la domenica, quelli, poco meno infelici, che vociano nel «catino» di San Siro. Vengono dai comuni dello hinterland, dove ancora, al crepuscolo, rintoccano le campane di Lombardia, che danno una insopportabile melanconia. Intanto gli abbienti si serrano a più mandate nelle ville in stile coloniale, mandano la serva eritrea a incatenare i cancelli, scatenano i cani lupi, avviano il brevettato sistema d’allarme, illuminano il loro De Chirico falso, accolgono coloratissimi fiumi pubblicitari europei dalle antenne paraboliche. Sulle autostrade fra la Malpensa e Saronno fumano i falò dei travestiti. Zeppe di briachi, negli scontri deflagrano le auto del sabato notte.
Di quasi tutte le grandi città del mondo che ho conosciute sopravvivono il luogo comune e la vaga connotazione che è la eco del senso che ebbero un tempo; sopravvive un’aura geografica, climatica, detta atmosfera; e una specifica inflessione, come un logotipo del sistema delle comunicazioni simboliche, una sorta di sensibile «stile diffuso». Milano non fa eccezione: la città è in una modalità della luce diurna, da gabinetto fotografico, il suo mutamento lentissimo, che esclude i corpi e fenomeni celesti dalla esperienza quotidiana, introduce una tonalità di ruggine nel nero dei portoni, nelle cavità della metropolitana, «la metro» come la chiamano qui. È una città senza cielo. Se un raggio di tramonto, scagliato dal sole che corre verso l’invisibile Monviso, la attraversa, diventa stupenda ma irriconoscibile: è come la citazione di un’altra metropoli.
Il cielo non è previsto nella confezione. Lo si avverte solo «quando è bello», cioè nei rari giorni di vento e di nevi, quando la città esibisce sconfitta e irritata i suoi aspetti corrosi e stenti. Oppure, in certi periodi di piena estate, quand’è semideserta per ferie e ci si avvede con stupore quanti e rigogliosi siano i giardini pensili, come ippocastani o tigli approfittino delle poche giornate meno cariche di monossido di carbonio per ricordarci diffuse tuttavia le vene d’acqua, sepolte sotto i cementi.
Quanto al linguaggio delle parole e dei gesti, esso non è mai (mai più, dovrei dire) dialettale anche là dove residua l’orgoglio del grande ottocentesco dialetto lombardo; per troppo orgoglio, ecco, anch’esso è ormai solo una citazione, come lo sono la concitazione del passo, la celebre fretta, l’ostentata rudezza sbrigativa.
Questo esito di tante culture sovrapposte – che Gadda ancora distingueva con esattezza di linguista – è ancora capace di frutti mirabili. Le ultime domeniche dei mesi invernali, nel punto dove si dipartono i Navigli, c’è un interminabile mercato di robe vecchie e vi si preme gran folla, che cala anche dalla provincia. È l’ultimo luogo che, foss’anche solo per il fumo delle caldarroste e per il nero specchio delle acque, rammenta la tenace Milano protosocialista o affezionata alla Triplice Alleanza, che vedi effigiata in innumerevoli vedute a olio appese in imbalsamati studi notarili, con gran spreco di ocre e terre e biacca a finger neve, fango e tram… Tra la folla si aggirava silenzioso e solitario un giovane alto, ammantellato di nero e fregiato d’oro, con basette manzoniane e in capo una feluca da guardiaportone o da ufficiale di Radetzky; assai moderata, comunque, la curiosità della gente. Ma intesi uno, accennando col capo a quello stravagante, dire a un suo compagno: «Speriamo lo paghino bene». Potenza di sintesi e di sottintesi! Quelle tre parole mi parvero esprimere una ironia non provinciale né dialettale, sebbene testimoniasse anche di una eredità (avrebbero potuto pronunciarle il Carlo Porta o il Vittorio Sereni). Temperato e purgato dall’inutile e sfibrante crudeltà esibitoria e narcisa che sempre incontri invece a Firenze e a Roma, era un antico e quasi pietoso cinismo sposato alla realistica attualità di una postmodernissima etica mercantile: «Speriamo lo paghino bene».
Certe sere, tra le sei e le sette, quando tutta la città si ingorga verso i raccordi che scavalcano verso i Laghi e la frontiera, Novara e Torino, Bergamo e Verona, Piacenza e Bologna o stipa le stazioni di Rogoredo, Lambrate e Porta Genova; quando ti pare (almeno quanto ai fetori) di essere nell’ora del rush alla Pennsylvania Station o nei corridoi della Châtelet-Les Halles, puoi illuderti di udire nella mente la fanfaretta della vitalità, del «malgrado tutto», della fraternità gergale fra le vittime della città «moderna», come in una vecchia poesia di Pagliarani o canzone di Jannacci o di Gaber o nel lazzo «padano» di Dario Fo. Ma ora non puoi sapere che quella cordiale euforia è eco di decenni lontani, di un’Italia da secondo dopoguerra, gloriosamente sconfitta e stracciona, quando la Capitale del Nord era orgoglio e calore operaio, ricostruzione o vicinanza all’Europa. Oggi no: la depressione non è solo economica, anzi precede quella economica. È morale, è abbandono o ripetizione o rabbia.
Come sempre, nelle forme più diverse e nelle tendenze più inattese, si disegna una nuova opposizione. La senti entro i licei dei figli del privilegio, tanto snob quanto pensosi, come nelle periferie dei volontariati e degli emarginati; negli studi dell’efficienza tecnica che dovrebbero essere tutti votati ai deliri di una estrema ipermodernità e scoprono invece, o almeno presentono, «altro», nel mondo; nella anche tragica calma fermezza di qualche sacerdote e di qualche raro sindacalista come negli innumerevoli gruppi spontanei che creano controinformazione e sperimentano altra eticità, in attesa di altra politica.
Mai come in questi anni Milano pare scomparsa dalla ribalta della opinione, con i suoi giornali spenti o rassicuranti, e le sue notizie di cronaca nera o grigia. Ma una mutazione si sta producendo che non ha più bisogno della categoria culturale di «metropoli». Milano ha dissolto quel che rimaneva della sua identità. Quel che si va lentamente formando è qualcosa che non può né intende chiamarsi col nome di Milano, con i suoi echi. Questa città non è più un privilegiato teatro della esistenza sociale. Se mi si chiede di parlare a dei giovani è difficile abbia voglia di farlo entro la cerchia della circonvallazione. I tre o quattro ambienti che si propongono dichiarano tutti il loro volto ufficiale. Sono «spazi» (come li chiamano) buoni per tutti, tanto democratici quanto insipidi, come le tavole calde e quelle rotonde televisive. Meglio la piccola saletta di una libreria in Brianza, la biblioteca comunale di un comune della Bassa, l’aula di una scuola verso Treviglio o Mortara, il circolo di Cinisello Balsamo o di Cesano Maderno.