DOSSIER SULLA STRAGE DEL CARCERE DI MODENA – del Comitato verità e giustizia per la strage di Sant’Anna

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Le immagini delle carceri in fiamme e dei detenuti sui tetti hanno scaldato i cuori e sono ancora vive oggi a distanza di più di un anno da quell’8 Marzo 2020. Purtroppo quello che ne è seguito non ha incontrato la stessa sorte, cadendo nell’oblio e nel disinteresse pubblico, soffocato dalla paura per il diffondersi del Covid-19. A Modena famigliari e solidali non si sono arresi e hanno voluto rompere questa coltre di silenzio per scoprire cosa fosse successo nella prigione cittadina teatro della più grande strage carceraria del dopoguerra: 9 detenuti morti e decine di feriti. Hanno dato vita al Comitato verità e giustizia per la strage di Sant’Anna, non accontentandosi delle indagini giudiziarie. Da Marzo 2020 ad Aprile 2021 il comitato ha raccolto testimonianze dei detenuti e dei loro famigliari, fatto una cernita degli articoli più interessanti, organizzato presidi per tenere informata la città di Modena realizzando uno straordinario lavoro di inchesta. Ci uniamo alla diffusione di questo documento, e pubblichiamo qui alcuni suoi estratti, voci che trasmettono il vissuto di quei giorni tanto drammatici.

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“Ciao Clà, come stai?”

Sono state le prime parole che ho detto a mio fratello quando finalmente l’ho potuto sentire dopo il suo trasferimento a Ascoli Piceno, parole all’ordine del giorno che ormai sembrano scontate, ma per me valevano veramente molto. Sentire la sua voce, avere un contatto con lui dopo le rivolte di Modena mi hanno fatto sentire di nuovo vivo. Quando l’8 Marzo venni a sapere delle rivolte di Modena e di alcuni morti ero con amici, stavamo mangiando e ci raccontavamo a turno le nostre storie più belle pensando a come sarebbe andata a finire questa storia del covid-19 quando all’improvviso ho letto la notizia: rivolte nella C.C. di Modena, alcuni morti tra i detenuti. Le notizie che uscirono nei giorni successivi erano poche e confuse, io ero nervoso, avevo paura che tra quei morti ci fosse anche mio fratello e che noi lo avremmo scoperto tramite i giornali. La mia unica fortuna fu quella di avere intorno a me persone che mi vogliono molto bene, e in poco tempo, tramite i loro contatti riuscii a mettermi in collegamento con chi a Modena aveva già un discorso sociale e politico sul tema carcere. Finalmente potevo sapere di più, e forse anche con un po’ di egoismo chiesi subito se mio fratello era tra i deceduti. Mi sentii sollevato quando ebbi la risposta negativa ma avevo comunque paura, sapevo che queste situazioni sono sempre la “scusa” per far male a qualcuno invocando il nome della Giustizia. Cosi passavano i giorni e di lui nessun contatto, quando capimmo che erano ad Ascoli Piceno al 41bis ci sembrò tutto molto più chiaro, dovevamo aspettare che le autorità si decidessero.

Mi domando spesso quanto le strutture carcerarie siano riabilitative, quanto possano aiutare chi per un motivo o per un altro è stato “sbattuto in cella” ma resto sempre deluso dalla loro inefficienza, la gestione di Modena è solo la punta dell’iceberg e quello che avevo potuto leggere dai giornali o sentito dalle voci di corridoio era solo una piccolissima parte di quello che oggi sappiamo sia avvenuto. Non mancò molto che ricevetti la prima lettera dopo quel’ 8 Marzo fatidico, ancora piango a ricordare quello che mi veniva descritto. Scene degne di uno dei migliori film distopici, in cui i detenuti venivano trattati come bestie. Prima lasciati a loro stessi e poi brutalmente picchiati ed uccisi di botte. Leggendola, ricordo che, mi sembrava di sentire il frastuono e il sibilio dei colpi che venivano sparati ad altezza uomo, il suono delle ossa che si rompevano sotto le scariche di manganellate, le grida di chi chiedeva aiuto per il compagno ormai morente che non riusciva manco a salire sul cellulare. Storie di repressione ne avevo sentite molte per questo sapevo che andando avanti con la lettura non avrei trovato nulla di buono. Quello che è avvenuto dopo è forse anche peggio del comportamento avuto dalle autorità di Modena. Una volta arrivati ad Ascoli Piceno la situazione ha del paradossale: medici che non controllano i detenuti visibilmente tumefatti dalle botte, guardie che vanno a “trovare” in modo randomico i detenuti invocando una nuova Diaz, Garante dei detenuti totalmente assente e la dichiarazione di morte in un posto anziché di un altro del Detenuto Piscitelli. Il bello è che Claudio, nonostante tutto, riesce sempre a strapparmi un sorriso e darmi speranza. Come quella volta ad inizio di settembre che mi disse: Io ormai sono carcerato, sono qui e voglio pagare tutti gli sbagli che ho fatto nella vita, ma vorrei che io e chi come me vive il carcere possa sognare una vita migliore, possa capire cos’è una vita dignitosa e in questo modo non essere più recidivi, ma ti rendi conto che quando usciamo da qui non siamo nulla e quando siamo qui siamo solo dei numeri su cui fare profitto?

Si, il carcere fa profitti per centinaia di migliaia di euro sulle spalle del detenuto e non il contrario, provate a fare voi la spesa allo spaccio e provatela a fare senza una famiglia che con 1000 salti mortali vi gira qualche soldo a fine mese. Da quella videochiamata capii che avevano già le idee chiare, che volevano denunciare quello che avevano visto e subito durante la rivolta di Modena, volevano giustizia per tutt* soprattutto per i morti. Così, da li è nata la denuncia da parte di 5 detenuti verso le autorità, denuncia che ha portato ad un loro tempestivo trasferimento che li ha riportati a Modena (strano, vero?) per tenerli in isolamento circa dieci giorni, finestra rotta e coperta bagnata. Ditemi voi se la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo non aveva ragione quando ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante all’interno delle carceri. L’unica risposta da parte dello Stato è stata separarli, rendergli difficili o quasi impossibili le comunicazioni verso l’esterno e diffamare a mezzo stampa la morte di Salvatore Piscitelli.

Ad oggi i 5 detenuti sono in 5 C.C. diverse, ma sono ancora fermamente convinti di quello che hanno fatto. Mio fratello (l’unico che posso vedere tramite videochiamata) sorride mentre mi parla della lotta che stanno portando avanti. Di botte ne hanno prese tante, non saranno quelle che verranno a fargli paura. Io ancora un po’ piango perché il mondo fuori non è bello e quando provo a immaginarmi nel mondo dentro ahimè lo vedo senza uscita. Senza un supporto esterno, senza l’aiuto di qualcuno il reinserimento è quasi impossibile per questo chiedo a tutt* di non guardare il detenuto come un reietto ma come una risorsa, non come un numero o un’entità ma come un essere umano. Restiamo umani. (D.)

Sono stata davanti al carcere da quando ci sono state le rivolte fino al venerdì di quella settimana. Eravamo in 14 e facevamo i turni. Ho visto cose che mi hanno fatto perdere il sonno per settimane. Quelli con i caschi blu sono arrivati alle 17.30, e alle 23.00 si sentivano ancora le urla da dentro il carcere, quando la rivolta era già stata sedata. Fuori c’erano la tenda bianca e la tenda verde, allestite nel piazzale di Sant’Anna. Nella tenda verde ci andava la gente che riusciva a reggersi in piedi, si sentivano preghiere in tutte le lingue e voci che urlavano “Non vogliamo morire, non abbiamo fatto niente”. Nella tenda bianca ci andavano quelli che non potevano stare in piedi e si sentiva il rumore dell’elettrocardiogramma che faceva bip bip, poi solo un lungo biiiiiiiiiiiip. Quattro cadaveri sono stati appoggiati per terra di fianco alle tende come se fossero spazzatura.

Dopo la rivolta i detenuti hanno dormito per giorni in 11 in una stanza, per fare i turni e avvisare quando arrivavano le guardie. Facevano il giro: ti svegliavano alla mattina con le botte e ti mandavano a letto con le botte. Quando i detenuti sono stati trasferiti hanno detto che nelle carceri di destinazione dovevano fare 15 giorni di quarantena. Ma quei 15 giorni sono diventati 60, anche 70, di isolamento totale. Io ho mandato un pacco per 3 volte e per 3 volte mi è tornato indietro. I detenuti hanno vissuto per mesi con i vestiti che puzzavano ancora del fumo di Modena. È diventato più difficile per chi viene da Sant’Anna anche poter usufruire delle pene alternative, anche se ne avresti diritto. Se vieni da Modena vieni trattato come un cane e come un cane devi dire “Sì signore” altrimenti ti tolgono tutto. Per questo è importante mandare pacchi e lettere a chi è stato trasferito da Modena, soprattutto a chi non ha una famiglia in Italia, perché se sei fuori un aiuto lo trovi, ma dentro quelle 4 mura sei solo.

Serve organizzare una rete di sostegno immediato per mandare materiali all’interno delle carceri, al di là delle conseguenze dell’8 marzo, per le famiglie è dura riuscire a garantire supporto ai detenuti per anni, ma se non vengono mandati materiali e soldi loro non possono neanche comprarsi una bottiglietta d’acqua, forse questa cosa chi sta fuori non la sa. Ma anche quando esci le cose non sono facili. Se hai ancora domiciliari o condizionale in molti posti il lavoro te lo trovano le istituzioni (PM, sindaco…) a condizioni indecenti.Per fare qualche esempio: 220 ore di lavoro al mese retribuite 450 € lordi, oppure 5 € lordi all’ora. Nei piccoli paesi poi è dura anche per le famiglie, perché si portano dietro lo stigma di “famigliare di detenuto”. Per fortuna ci sono persone che capiscono che questa non è vita e ti danno una mano, anche se ti fa sentire come ladri, perché dovresti essere messo in grado di poter vivere con le tue forze e i tuoi mezzi. Io spero che la verità su quello che è successo venga detta forte e chiara e non mi fermerò finchè non sarà così. (M.)