PER UN PUGNO DI ARRESTI

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Sugli arresti di Parigi, dottrina Mitterand e su una storia che nessuno vuole prendere davvero in mano

L’operazione “Ombre Rosse” ha portato all’arresto di una decina di persone, tutte appartenenti ad una variegata serie di sigle e organizzazioni che hanno praticato la lotta armata in Italia fra gli anni ’70 e ’80. Una delle poche notizie dell’era Covid che è stata in grado di “bucare” la perenne prima pagina sugli andamenti della pandemia ha avuto il sapore di un baule dimenticato in soffitta aperto dopo molto tempo. Dentro ci abbiamo trovato – accantonate alla rinfusa- diverse foto in bianco e nero, ritagli di giornale ingialliti e una gran voglia di invocare forche e punizioni esemplari.

Prendiamo spunto da questo ritrovamento per capire come mai si faccia così grande fatica ad organizzare la memoria collettiva intorno a quegli anni.

Al momento non si conoscono le ragioni che hanno portato Macron a traghettare la Francia fuori dalla dottrina Mitterand a distanza di così tanto tempo. L’ipotesi più verosimile – ma bisognerà verificarla nei prossimi mesi – è che una simile decisione dell’esecutivo francese tolga copertura politica ad un unicum giuridico nella storia europea del dopoguerra. Se poi la magistratura d’oltralpe dovesse – come appare probabile – non concedere l’estradizione a quel punto la decisione sarà di carattere tecnico non già politico, togliendo così una questione scottante nelle relazioni fra i due paesi. Ancora una volta il lato politico del governo, quello che nella narrazione liberale dovrebbe essere espressione di una volontà di popolo, preferisce schermarsi dietro ai meccanismi inesorabili della macchina tecno-burocratica perdendo contemporaneamente responsabilità (e potere) in favore del lato procedurale che troppo spesso viene identificato come punto neutro di un’organizzazione sociale. Su questo abbiamo scritto molto, e molto ancora scriveremo, perché questa sembra essere la marca che contraddistingue la modernità; il procedurale, il tecnico come unico nocciolo solido del potere immerso in ideologie partitiche troppo liquide – o diluite – per aspirare ad avere un qualche tipo d’impatto sulla società. Ma approfondire qui questo punto ci porterebbe troppo fuori strada.

Cerchiamo piuttosto di carpire il bandolo di questa matassa andando alle origini dell’istituzione della dottrina Mitterand in Francia, dato che è questo oggi il problema principale messo sul tavolo dagli arresti di Parigi.

Questa dottrina – che oggi appare ai più del tutto incomprensibile – nasceva dalla constatazione che nel conflitto sociale intenso che si è svolto in Italia in quegli anni lo Stato non abbia risposto al fenomeno della lotta armata (e più in generale del conflitto) nell’alveo delle sue stesse regole e, per estensione, delle coordinate etiche della dottrina liberale che dovrebbe essere a fondamento dello Stato stesso. Per dirla tutta, quando Mitterand al tempo si trovò a spiegare la sua dottrina disse che non avrebbe dato accoglimento a domande di estradizione da parte di “paesi il cui sistema giudiziario non corrisponda all’idea che ha Parigi della libertà”. Tralasciando la chiara mentalità colonialista e centralista che trasuda da una simile formulazione del concetto, rimane il fatto che al di là dei confini fisici e politici dell’Italia ci fosse la netta impressione che qualcosa di eccezionale, nel senso più proprio che può avere questa parola, stesse accadendo al di qua delle Alpi.

Senza voler far della cinica e retorica contabilità del dolore, ma riferendoci unicamente alla dimensione quantitativa del fenomeno per ragioni di brevità e sintesi, sembra opportuno sottolineare che diverse centinaia di morti e molte migliaia di persone ferite (spesso a vita) non sono numeri da paese in pace. Così come non lo sono i 5.000 detenuti politici che affollavano le carceri alla fine di quella stagione, cioè quasi un sesto dell’ammontare totale dei carcerati dell’epoca.

I molti movimenti ed esponenti della politica che negli anni’ 80 e ’90 cercarono, anche con successi parziali, di promuovere iniziative sull’amnistia per i reati politici e sulla cancellazione della legislazione di emergenza cercavano di trovare già allora l’imbocco di un sentiero che avrebbe portato alla risoluzione di quel conflitto cercando di comprenderlo, di storicizzarlo. In quest’ultimo obbiettivo fallirono e le draconiane misure emergenziali dell’epoca rimasero nella testa e nei codici con cui viene tutt’oggi amministrata la giustizia.

Persino un veterano e apologeta della repressione come Caselli si trova costretto a dire in un’intervista rilasciata al Dubbio (bontà sua) che la legislazione di allora “raschiò il fondo del barile dei precetti costituzionali” aggiungendo però che “non si andò oltre”…

La riflessione sul conflitto avvenuto è completamente bloccata dalla protervia con cui la narrazione ufficiale di Stato vuole far passare come meri eventi criminali le lotte sociali. È granitica, inscalfibile e, peraltro, impregnata di una autoreferenzialità che la rende impermeabile ad ogni critica; come si può infatti argomentare contro chi sostiene che un reato non è un fatto politico essendo poi lo stesso soggetto colui che stabilisce i confini di ciò che va considerato reato?

A nostro modo di vedere l’obbiettivo di tale tenacissimo impuntamento, causa principale del mancato processo di storicizzazione di quegli eventi, è duplice.

1- Da una parte si depotenzia il senso di quei conflitti attraverso il metro penale criminalizzando di fatto un’intera stagione di lotte i cui contenuti rivendicativi e resistenziali si cerca di cancellare dalla memoria collettiva. L’etichetta “anni di piombo” la dice lunga sul giudizio di valore che si vuole dare a quei quasi vent’anni di storia repubblicana. D’altra parte con i programmi scolastici di storia che immancabilmente nell’A.D. 2021 stentano a fare poco più che qualche accenno alla seconda guerra mondiale e una simile narrazione egemonica all’interno dei media, quale pensiamo possa essere il risultato in termini di memoria? Quella stagione viene presentata molto spesso – quando viene presentata – con una confusa girandola di foto in bianco e nero, morti ammazzati e qualche rapido riferimento alle condanne ricevute in una breve sintesi numerica. Cosa dovrebbe rimanere di questo nell’ampio pubblico? Nulla, se non una striminzita cronaca giuridica che nulla dice su cosa sia effettivamente accaduto, ma si limita a mostrare il conto penale chiedendo insistentemente il suo saldo. Solo con questo obliante lavoro di cesello storico si possono omettere le stragi pianificate a tavolino da apparati interni allo Stato e dai suoi servizi (spesso qualificati con l’aggettivo di “deviati” che è curiosamente analogo alla vituperata accezione dei “compagni che sbagliano”), la ristrutturazione del lavoro e dei rapporti di produzione su scala globale, i regimi fascisti e i tentativi di golpe che proliferavano anche in Europa, le istanze di emancipazione che attraversano il tessuto sociale in tutti i suoi ambiti.

In definitiva si vuole semplificare – tramite sentenze e mandati – la complessità di anni di grande conflitto e fermenti col chiaro fine di cancellare l’esistenza storica delle alternative emancipatorie che moltissime lotte in tutto il mondo volevano porre all’attuale sistema capitalistico di produzione e riproduzione sociale. Queste alternative di organizzare la società in quegli anni avevano raggiunto il proprio picco quantitativo, praticamente senza paese al mondo che non ne fosse interessato. In aggiunta dobbiamo tenere presente che quasi un terzo delle nazioni dell’epoca si definivano sovietiche, comuniste, socialiste o comunque intentavano grandi piani di riforme. Anche non essendo fan sfegatati e acritici del socialismo al potere, bisogna comunque ricordare che questo scenario internazionale metteva una paura fottuta a chi teneva le redini del gioco al di qua della cortina. Un altro ottimo motivo per dimenticarsene e seppellirla nell’oblio.

2- In seconda istanza (e questo è molto proprio dell’istituzione statale in senso lato, quella socialista compresa) si vuole far passare una valutazione dei rapporti di forza all’interno di quei conflitti propria di uno spaccone da taverna alla cui figura lo Stato spesso – involontariamente – si accosta. Insistere su come sia stato pulito, calmo, liberale, coscienzioso e corretto il modo di reprimere il nemico mira infatti a stabilire una totale predominanza sul proprio avversario. Non ci si può accontentare di aver vinto, bisogna far passare l’idea che si abbia stravinto e, possibilmente, senza nemmeno impegnarsi troppo. Sostenere che la repressione di quegli anni non ebbe impronte di gravità o eccezionalità è speculare al sostenere che la forza del nemico fosse qualcosa di ben al di sotto delle possibilità di gestione della normale amministrazione.

Ci viene da descriverlo proprio con l’immagine di un grosso attaccabrighe che avendo vinto un confronto in una rissa, una volta medicate le ferite, racconterà agli amici di come abbia messo a posto il suo avversario senza nemmeno scompigliarsi i capelli, anzi, senza nemmeno posare il boccale di birra che teneva in mano. Questa, e nulla più, è la figura archetipica a cui si rifanno gli strenui difensori di questa narrazione quando raccontano di come lo Stato sconfisse il terrorismo senza infrangere le regole. Molto spesso queste persone svolgono ruoli di magistrati, giornalisti e scrittori quindi usano forme più raffinate di racconto con gran copia di metafore brillanti, racconti pungenti, dotte citazioni di brocardi latini, riferimenti a fattispecie giudiziarie o, se non hanno gran stoffa, con pietismo empatico da grandi saldi dell’emozione, ma la sostanza archetipica rimane quella del bulletto di periferia che non può ammettere di essersi preso un grande spavento e di come forse, in certi momenti del confronto, non fosse poi così sicuro di sé.

Che in Italia non si siano prodotte le condizioni oggettive per una rivoluzione di qualunque colore è un dato storico incontrovertibile. Lo dicono i numeri delle organizzazioni che miravano ad un simile sconvolgimento, i rapporti internazionali allora vigenti e quelli di forza interni alla società stessa. Ciò non significa che si vivesse in un’epoca pacificata in cui le spinte rivoluzionarie fossero limitate a gruppetti sparuti di poche decine di pazzi armati completamente avulsi dal contesto sociale, perché nemmeno questo dicono i numeri. Ad ogni modo la storia e la memoria sono composte molto più da narrazioni e dalla capacità che queste stesse narrazioni hanno di egemonizzare un discorso piuttosto che da brutali statistiche. Proviamo a fare una comparazione.

Il 25 aprile si festeggia in Italia la liberazione dal nazifascismo. Una feste istituzionale celebrata anche dalle più alte cariche dello Stato con cerimonie pubbliche e parate militari. Non potrebbe essere altrimenti dato che è proprio su quel conflitto contro lo Stato fascista che si istituì la Repubblica. Quando, nell’immediatezza del dopoguerra, si dovette scegliere una data simbolica si scelse proprio quella in cui fu diramato l’ordine di insurrezione generale (il famoso Aldo dice 26×1). Ora, con gli occhi del magistrato dell’epoca noi potremmo interpretare il tutto come un reato da ergastolo, anzi da fucilazione, perché così era ed è punito dal codice penale di epoca fascista. Un codice attualmente vigente che – nonostante i molti rimaneggianti – rimane inalterato nel suo impianto. Al suo interno troviamo uno degli articoli più spassosi e tragicomici che il diritto abbia mai prodotto. Questo è il 284 del codice penale, che recita: “Chiunque promuove un’insurrezione armata contro i poteri dello Stato è punito con l’ergastolo e, se l’insurrezione avviene, con la fucilazione.” La Repubblica, forte della sua maggiore liberalità commutò la pena di morte con quella dell’ergastolo anche ad insurrezione avvenuta

Questo articolo rappresenta il punto più nevrotico della giurisprudenza che proprio qui incontra il limite con i puri rapporti di forza e di violenza che governano la società. Come potremmo mai immaginare un processo per un’insurrezione avvenuta che si svolga all’interno della tranquille norme dello Stato di diritto e della sua procedura penale con tanto di garanzie per l’imputato? Forse con una pattuglia di polizia locale che va a notificare l’avviso di conclusione delle indagini agli insorti in armi avvisandoli del processo a loro carico, chiedendogli di eleggere domicilio e nominare un difensore?

Il punto che qui ci interessa è che a fatti eccezionali corrispondono misure eccezionali. I meccanismi tanto celebrati del diritto liberale funzionano unicamente in situazioni di conflitto in cui lo Stato stesso che amministra quel diritto non percepisce una reale minaccia a se stesso. Quando il conflitto si avvicina a quella soglia percettiva (spesso prescindendo dall’effettività della minaccia) inizia la legislatura di eccezione e il gioco sporco fatto di torture agli arrestati, tentativi di golpe, formazione di organizzazioni quali Gladio, stragi di civili, proiettili vaganti, e altre mille nefandezze grandi e piccole.

Tornando quindi alla sorte di queste “ombre rosse” e alle schermaglie a cui abbiamo assistito nel dibattito italiano si comprende come il dato primario dell’intera faccenda – ineludibile quanto invisibile come il proverbiale elefante nella stanza – è l’assoluta incapacità della società italiana di metabolizzare il senso dei conflitti politici e sociali degli anni ’60 e ’70. Ancora, a distanza di mezzo secolo, non si vuole consegnare alla storia quegli avvenimenti. Non si vuole digerire l’indigesto boccone che porterebbe a confrontarsi coi fatti avvenuti in quel periodo perché farlo significherebbe prendere in mano non solo la lotta armata e l’eversione, ma un’intera fase storica con il suo contesto, le sue cause complesse e i suoi effetti sfaccettati. Un’operazione che richiede una maturità politica e culturale attualmente insufficiente all’interno del dibattito italiano, che si sostanzia spesso in battute d’agenzia riprese pedissequamente dai titolisti.

Inoltre – ed è quello che più si teme – consegnare alla storia quel periodo significherebbe prendere gli eventi nel suo complesso per analizzare e comprendere le scelte fatte dai moltissimi attori in gioco. Chi difende strenuamente il ruolo della magistratura come unica istituzione abilitata a rilasciare un giudizio su quei fatti sa benissimo che se la palla passasse finalmente in mano alla storiografia anche le istituzioni statali dovrebbero accollarsi molte responsabilità per quegli accadimenti e questo è intollerabile, oggi forse più di ieri. Nell’attuale dibattito politico il giustizialismo sembra essere un’inesauribile riserva di voti e legittimità politica a cui pochi partiti sembrano voler rinunciare. I diretti beneficiari di tale dinamica non sono i rappresentanti della classe politica, come molti di essi ingenuamente credono, ma piuttosto coloro che amministrano il potere giudiziario dello Stato. I politici che hanno costruito le proprie fortune giocando tutto sulla carta del giustizialismo sono spesso finiti scottati con la stessa materia che maneggiavano, l’esempio di Salvini, ma ancor più di Grillo, sono su questo punto lampanti.

Appare quindi evidente che uno Stato la cui politica sia così aderente alla visione giudiziaria non può proprio sopportare di sentir parlare di proprie responsabilità perché le responsabilità sono qualcosa che è proprio degli imputati, e questo per uno Stato-giudice sarà sempre inaccettabile.