IL NOSTRO, L’ALTRO E LO STATO DELLE COSE
Cronache dell’aridità, della miseria e del perpetuarsi del mondo.
I
Questo resoconto si apre con una macchia di umidità sul soffitto che non significa nulla, non ha nessuna funzione. È semplicemente la prima immagine che si presenta al nostro protagonista. È a letto e ha rinviato e posticipato la sveglia, poi infine si è costretto ad aprire gli occhi e guarda ottuso o perplesso l’alone sopra di lui, forse dovuto a una perdita. Sono le prime ore della mattina. Saltellare, mentre si alternano i giorni e le notti, in compagnia di fantasmi e forme senza contenuto, è doloroso? Ma no, è consueto, quotidiano. Ad ogni modo.
Ad ogni modo si è svegliato, una buona volta. Assapora il primo rancore del giorno, quello più prezioso. Possiamo immaginare, in questo resoconto, una camera da letto, un salotto e una cucina, per approssimazione. Ci sono case con il salotto separato dalla cucina, ci sono monolocali, soggiorni con angolo cottura, stanze strette, stanze ampie. Un dignitoso trilocale, un affascinante appartamento piccolo e ben arredato, tuguri che cadono a pezzi e stillano umori di muffa dai muri stanchi. L’indizio della macchia farebbe propendere per quest’ultima ipotesi, ma non bisogna dimenticare che guasti accidentali si verificano anche nei condomini meglio amministrati, e in definitiva quasi nessuno sa che cosa passi o scorra nel segreto delle pareti domestiche. Per approssimazione parleremo di camera da letto, poi di salotto e cucina con qualche stoviglia e vaghi segni di utilizzo, come briciole o piccoli segni sul tavolo, resti di confezioni di plastica. Ciò che è importante, capiremo perché, è una finestra che si apre nella camera ed è visibile anche restando sdraiati. Si apre su un orizzonte di altri tetti e antenne e sta dirimpetto, però, a un’altra finestra, di un altro palazzo, non troppo lontano.
Se il cielo sia basso, con una cappa tetra in contrasto con il verde degli alberi urbani, o invece resti appena velato da una mezza luce, senza sole né pioggia, poco importa. Appena sveglio il nostro protagonista valuta la flaccidità della carne, l’erezione mattutina (è maschio), il battito del cuore, accelerato o regolare. Questo resoconto si apre su una casa con salotto e cucina, rifiuti e resti organici sono ben chiusi nei sacchetti, saltellare nella trasformazione delle cose e degli eventi raggelati è un’operazione familiare, qualche piatto aspetta nel lavello e il tavolo porta tracce di usura. Il primo odio che inumidisce le lenzuola è il più puro, un sentimento passato, postumo, aleggia sull’orizzonte in disfacimento del mondo e anche se la macchia di muffa fosse sparita, come un’inutile orpello o un sinistro presagio, gli occhi del Nostro si sono definitivamente aperti e la macchina si è rimessa faticosamente in moto, che poi è ciò che conta. Possiamo cominciare.
II
L’inerzia della vita, nei modi in cui è permessa, penetra rapidamente il campo della coscienza di ciascuno. Nel frattempo a tutti tocca in sorte un certo tipo di risentimento pallido, al quale si aggiunge la violenza che è toccato farsi e fare in egual misura agli altri. Lo sa bene il Nostro, la cui condizione è in tutto e per tutto simile a quella dei liberti, gli schiavi liberati. Ha da parte qualche scorta economica e affettiva, abbastanza per permettersi una dilazione del tempo e proseguire nel suo permanere. Sa vendersi quando è in gioco la propria valorizzazione, e proiettare la propria immagine. Gli si chiede un tributo, e in cambio gli si offre partecipazione al perpetuo generarsi del mondo, media sopravvivenza, conservazione. Il Nostro è una figura impiegatizia e intercambiabile, è dinamico e fiacco, è il capufficio di se stesso. A questo punto della storia, però, non si è ancora alzato in piedi. Per ora – un peto.
Il peto è cosa frequente al mattino, agita le coltri e lacera il silenzio. E’ importante perché vale come preludio o assenza, annuncio di merda a volte tradito. Di tradimenti il Nostro è abbastanza esperto, li conosce bene, e con questo suo primo peto mattutino sta enunciando la verità materiale dei suoi sogni notturni. Qualcosa lo sta per colpire. Che cosa?
È ancora sdraiato, e vede di là dal vetro della propria finestra. Superando i tetti, i comignoli, le antenne e gli uccelli di città, può vedere dritto nell’altra casa, quella di fronte, può vedere qualcosa, vede un corpo. Un corpo già sveglio, o che si sta svegliando, e si gratta. Feticismo del calore di un corpo che sveglio si gratta, nel suo intimo, e appare presente a sé stesso. Carne vivente che in una fragilità indifesa sbadiglia, è brutta e arruffata, dolce, odorosa, forse si tocca, si assicura di sé, e lui vede questo. Annebbiato, il Nostro ha di fronte a lui, dirimpetto alla finestra e distante in linea d’aria qualche centinaio di metri, soltanto una figura umana, ancora assonata e tremula. Maglietta e mutande, gambe nude, le unghie a graffiare la pelle grattandosi e questo corpo estraneo è una donna dietro ben due diverse finestre (e in mezzo i tetti e le antenne). Non è dato sapere quanto questa visione lo possa sconvolgere, il resoconto non ne fa cenno, però è un fatto assodato che trascorrono alcuni minuti, forse non proprio sospesi, ma certo di trepidazione e poi all’improvviso è come se l’aria si fosse fatta pesante, tutto converge sull’immagine che gli si offre esposta e vulnerabile. L’accelerazione, il rapido palpito di quel fotogramma proiettato in lontananza risucchia completamente la mattina appena cominciata, e l’altro corpo oscenamente ancora si gratta caracollando fuori dal proprio letto, con la camminata indecisa di chi è tornato alla veglia e ignaro degli occhi che lo osservano rapiti e sempre più dilatati, quel corpo davvero sembra presente, pur restando sfocato ed evidentemente tiepido e stanco.
Anche questo momento, per quanto espanso, termina. L’immagine dilegua anche se forse ne rimane traccia ancora un pochino, impressa nell’aria viziata della camera da letto. E pure il Nostro si rassegna e lentamente scosta le coperte e si alza, aumenta progressivamente la velocità dirigendosi come tutti verso i risciacqui del mattino, e considera con un’occhiata rapida le condizioni degli oggetti intorno a lui. Resta, vaga, l’impressione del corpo alieno che si gratta, forse suggerisce dei ricordi, ma va attenuandosi e con i primi gesti automatici del risveglio quel che ne rimane viene piano piano raschiato via.
A questo punto il resoconto si compone principalmente di suoni. Ronza avviandosi una macchina digitale qualsiasi, gorgoglia il liquido in un pentolino sopra un fornello acceso e scroscia invece quello che corre nelle tubature, i vestiti cadendo a terra o uscendo dai cassetti frusciano leggermente. Mangia, beve e si lava il Nostro e così può avviare i suoi affari, i traffici più o meno sudici da condurre nel contesto cittadino che per qualche ora in un certo modo seguiremo. Va comunque detto, mentre lui si prepara muovendosi agilmente tra i vani che compongono il suo spazio personale, che è dedito esattamente come gli altri alla trasmutazione delle cose, alla pratica del vuoto. E che effettivamente gli resterà in mente un segno di quell’altra figura intravista, a fargli vagamente compagnia – intanto si allaccia le scarpe, prende la giacca dall’appendiabiti – e una dolcezza liquida gli si è già sciolta dentro sporcandolo, e per quanto si faccia in fretta a toglierla rimane lo stesso un certo affanno, anche fisico. Ha uno strano nodo in gola – cerca le chiavi di casa e il portafoglio – leggero ma persistente. Perché sente l’improvviso bisogno di ripensare ai propri linguaggi privati, agli alfabeti segreti che ha sviluppato nel tempo con le sue piccole confraternite, sempre più ristrette? Ognuno ha le sue, sono l’impalcatura di cui è fatta la sopravvivenza, ma perché ci pensa così tanto – è ormai pronto ad uscire – perché si aggrappa ai suoi amori privati, ai circoli di amicizie, ai codici di affetto? Perché ci rimugina così a lungo, di prima mattina?
Apre la porta, tiene in mano un sacchetto di rifiuti da buttare, scende le scale quasi scappando.
III
Le cose non hanno sostanza e si trasformano. Le scarpe diventano mazzancolle tropicali, grandi rosse e morte, e a loro volta ecco che sono frutta di stagione o fuori stagione, e poi si mutano in libri, che correndo e girando si sciolgono in biancheria intima e si riassemblano come lattine, bottiglie, farmaci, fischietti, defibrillatori, computer. Sul fondale bianco e piatto degli eventi si snodano caricabatterie, occhiali da sole, tosaerba e aspirapolvere. Forni a microonde, costumi da bagno, magliette di squadre di calcio. Anche ciò che era un tempo vivente, ora viene svuotato e partecipa anche lui dell’indefinito senza termine, proverbialmente senza né capo né coda, preso in una corsa di forme del movimento perpetuo. Le cose devono rimanere in movimento. Il movimento è la vita, la vita delle cose. La vita degli uomini e delle donne è la vita delle loro cose, è la vita del mondo che poi, di fatto, è la vita delle cose che corrono e si trasformano diventando altro e finché si muovono, si confondono, allora come si suol dire le cose vanno avanti, o meglio in questo cattivo infinito, in metamorfosi irrigidite le cose si mutano incessanti e sono sempre le stesse, sono astrazioni che si sciolgono e si ricompongono, non c’è niente da nessuna parte, ma anche gli uomini e le donne nel falso movimento sopravvivono degradandosi e persistono, pur respirando male. E gli uomini e le donne sono la stessa cosa, sono le stesse cose, le loro cose che suggono e riproducono e prendono posto nella catena quotidiana, ne seguono le formule e le unità di misura e raffigurano se stessi sotto altre spoglie, sotto mentite spoglie.
Hanno spoglie, linguaggio e unità di misura anche le bande più o meno folte e affiatate di umani sull’orlo del disastro o nel pieno del disastro, quelle a cui come detto poco fa pensa il Nostro uscendo dal portone del suo condominio e attraversando in diagonale, in fretta, il cortile di casa dopo essersi fermato un attimo a buttare i suoi rifiuti, diretto poi verso una fermata dell’autobus o della metropolitana, mentre in quello stesso istante con lui prosegue come sempre la corsa idiota di cose che riassume e comprende tutte le altre corse (senza esserne la somma).
Dove la metropoli digrada vi è uno spazio anodino che non è più città e ha smesso da tempo di essere campagna. Uscite della tangenziale, strisce di asfalto che attraversano i campi senza vita e conducono ai paesi provinciali intercambiabili, appendici della loro zona industriale e del comparto logistico. In uno di questi, in qualsiasi di questi, ci sono i camion schierati in silenziosa attesa in un parcheggio e si staglia il moloch grigio, enorme, il magazzino che occupa tutto lo spazio del visibile e sopra svetta un’insegna, e c’è una grande cancellata. Da lì dentro provengono i rumori, e un camion si stacca dalla fila, arriva, un guardiano lascia che il cancello si apra, il camion viene inglobato dal comprensorio misterioso. E un altro ne esce, si inerpica nella curva a gomito che leggermente in salita e contornata da un guard-rail rovinato dagli urti delle auto conduce di nuovo a immettersi nella tangenziale, e poi nell’autostrada, e poi via, la destinazione è ignota, la destinazione è ovunque.
Cos’ha a che fare questo con il Nostro?
Alcuni di quei camion arrivano fino ai supermercati e scaricano lì il loro contenuto. In ogni supermercato c’è un reparto macelleria e se ne intravede il retro anche dalle corsie. Ogni tanto ne esce un uomo in divisa bianca, con un cappellino, ha tagliato un quarto di bue, lo ha riappeso, o forse lo smista, lo allinea con gli altri nella nebbiolina dovuta alla condensa del gelo, necessario perché il cibo futuro non si rovini. Nel reparto pescheria c’è il pesce e guardando l’occhio fisso immobile del pesce si può capire quanto sia fresco, da quanto sia morto. Ma questo metodo di verifica non serve invece con i dipendenti del supermercato, cassieri e commessi, o con i guardiani in divisa o senza divisa pronti a rilevare ogni tentativo di furto. Non serve nemmeno con i clienti.
E il Nostro, un po’ in narcosi e senza troppo dolore, ha invece dal canto suo preso un mezzo pubblico come dicevamo, è arrivato alla propria destinazione e la sua attività quale che sia è in pieno svolgimento, ha cominciato i propri negozi. Il resoconto non dice nel dettaglio quale sia la sua professione, ma del resto è poco importante. Può dover vendere, o comprare, o rifinire. Prendere parte in qualche forma ad uno spostamento di denaro o oggetti, muoversi insomma, saltellare è un buon verbo, si diceva prima, saltellare. Schiacciare tasti, supponiamo, tasti che corrispondono a impulsi. In fondo fa tutto parte della stessa opera di smaterializzazione, anzi, di spiritualizzazione. Possiamo dire che il Nostro è davvero un’entità in qualche modo spirituale.
Fuori dalla città i camion si svuotano o si riempiono, gli imballaggi vengono lacerati o assicurati stretti intorno alle casse. I sorveglianti controllano. Uomini e donne si piegano e gemono. Fragori e squilli di macchinari. Uomini e donne trasudano schiantati nella catena di oggetti e di carni.
Nel frattempo, pausa pranzo. Il tempo vola, e siamo già a metà giornata. È forse anche uscito il sole, si sono aperte d’improvviso le nubi come succede in ogni città nel suo ritmo falso, alterato, di stagioni impazzite. È uscito il sole ed è ora di pranzo e deve dunque il Nostro mangiare. Passa accanto a un posto che si chiama per esempio Lounge Bar, oppure Cafè, ma al di là di queste velleità di nomi è insipido, fin dall’inizio trasmette solo una fondamentale inutilità con il suo interno di tavolini bianchi accompagnati da divanetti altrettanto bianchi, e un confortevole dehor su strada, dove invece i tavolini sono in ferro nero, sormontati da ombrelloni. Il Nostro si specchia riflesso nel vetro trasparente del bancone, che offre allo sguardo quarti di focaccia ripieni dai quali spuntano foglie flosce di lattuga.
È in atto intanto un grande piano di ristrutturazione, grande piano di riconversione o profondo rinnovamento nelle logiche produttive e distributive, è in atto un piano che riguarda lo spostamento, la realizzazione e il consumo degli oggetti, che sta facendo passi avanti nel processo di riorganizzazione finalizzato a soddisfare le vostre esigenze. Valorizzando i punti di forza delle aziende per offrirvi un numero sempre maggiore di opportunità, stiamo integrando il network aereo più grande al mondo con un ineguagliabile network su strada. Mentre procediamo, i nostri team hanno un unico obiettivo: continuare a fornirvi lo stesso servizio d’eccellenza che i clienti si aspettano dalle aziende. Con l’implementazione di questi miglioramenti, beneficerete di una migliore copertura, di collegamenti più estesi a livello globale e di una scelta di servizi più ampia. Ma nel frattempo, tutto quello a cui siete abituati non subirà cambiamenti.
Significherà invece, sta già significando, sangue e stridor di denti per molti esseri viventi in molte provincie urbane e meno urbane del mondo, è un processo lungo e penetrante composto di miriadi di piccoli processi singoli che coinvolgeranno anche altri attori, legislatori, giudici e poliziotti, è lo sforzo magico di dare nuova forma agli involucri del vuoto, della sostanza priva di sostanza, che presa da un ennesimo conato di accrescimento vomita se stessa e spasima per abolire ancora una volta i suoi limiti, e approfondire il dominio del mondo già morto sepolto e riproposto come pura allucinazione di cose.
Questo impero del niente che sopravvive in eterno e divora, mastica e digerisce i suoi schiavi ha forse qualche legame col banale Lounge Bar Cafè dove il Nostro ascolta in un ronzio di sottofondo fastidioso il tenutario, uomo unto sui cinquant’anni con pochi capelli grigi e pettinati a riporto, muscoli bolsi sotto camicia sportiva, ripetere senza sosta caro, caro, caro per ogni richiesta di focacce cadenti o caffè sabbiosi, cosa preferisci caro, una confidenza fiacca e irritante, da delatore di seconda categoria. Si concentra allora il Nostro, in un frangente di smarrimento a suo modo simile a quello del primo mattino, sulla cameriera che deve poi essere alle dipendenze del padrone del Lounge Bar Cafè. La valuta e la soppesa, la osserva con avidità. Ora non c’è nessun ricordo e pochissimo desiderio, molta fame crudele, la testa amara e la bocca vuota nello stringere con gli occhi i contorni di quella figura umana, venticinque anni forse. Focalizzandosi con medio gusto sadico su un rossetto molto acceso che richiama altro trucco dozzinale intorno agli occhi e poi i leggins, o comunque pantaloni elasticizzati su forme visibili e imperfette, spugnose, in rilievo si intuisce l’intimo sotto i leggings, e seno abbondante a tendere la maglietta marchiata Lounge Bar Cafè ed è dunque questo che il Nostro pensa, nella sua voglia arida e passeggera, alla disponibilità teorica, visiva o pratica di un certo quantitativo di materia organica sotto forma di glutei che ha piacere a immaginarsi disponibili.
Passa e ripassa avanti e indietro la cameriera inseguita dall’acciottolare del bar e da questi occhi cisposi che sappiamo essere del Nostro, e il tenutario monotono fa scattare la cassa e poi la chiude, sono otto e cinquanta caro, e se questa cameriera oggetto di rapide attenzioni, questa cameriera oggetto viene pagata poniamo sei all’ora, e una focaccia di cui sopra ripiena di mozzarella indurita ha il prezzo di quattro allora un’ora di cameriera vale sei quarti di focaccia, oppure una focaccia (quattro) aggiunta ad un caffè (uno) e una bottiglietta d’acqua frizzante o naturale (uno, quindi quattro+uno+uno=sei). Equivalenza nitida, e mentre il Nostro accumula materiale scopico su seni e natiche, o accenni morbidi di pancia e labbra tumide pitturate, poco fini, si domanda dove poter far valere definitivamente questa misurazione, come fare ad ottenere eventualmente un’ora di cameriera, e ciancicando il suo pasto all’ombra del dehors urbano rimugina anche su altre immagini, nude, immagini nude su superfici lucide, anch’esse a disposizione, ottenibili, forse persino quelle della cameriera, fotografie, tre focacce per due ore o cinque fotografie per cinquanta caffè, scambiabili in gruppo chiuso, privato, ristretto.
Il resoconto avrebbe un’improvvisa, brusca sterzata se adesso, in quest’ora antemeridiana di pasto e riposo, qualcuno per esempio chiamasse al telefono il Nostro annunciandogli a bruciapelo la morte. Non la sua, ovviamente, ma comunque l’irrompere della morte, di una morte, che colpisce qualcuno a lui vicino. Perché allora quei singulti sciocchi e vani – che lo avevano colto al risveglio, ed erano stati sciacquati via con rapidità prima di tuffarsi nelle faccende consuete – assumerebbero tutt’altra consistenza. Immaginate per un momento quest’uomo, che ha cuore così tiepido per notizie che raggelano, che sa magari anche vendersi a se stesso come pieno di un amore gratuito mentre sposta cose leggere e preme dei tasti, immaginatelo posto per un attimo di fronte al freddo della notizia, colto nel mezzo della sua giornata opaca dalla morte e, quindi, dalla smagliatura in almeno un punto di quelle accolite private di affetti e legami che costituiscono l’unico orizzonte minimo di garanzia individuale per un corso sopportabile delle cose e degli eventi. Riemergerebbe allora ciò che è sepolto, negato, abolito, relegato nel buio? Se squillasse il cellulare appoggiato sul tavolino nero, poco distante in linea d’aria dai fianchi della cameriera-sei-all’ora che ondeggia anche tra i tavolini, e la chiamata annunciando l’orrore portasse con sé anche un crollo repentino, una breccia nel piccolo recinto di legami e rapporti che assicurano scambi e reciprocità? Si domanderebbe allora il Nostro, e a buon diritto forse, dove sono finiti i suoi alfabeti, e chi è lui?
Non è dato saperlo perché, tranquilliziamoci, non giungerà nel resoconto la morte a rompere la parete della scena privata del Nostro. Dunque semplicemente egli prolungherà ancora per qualche minuto la pausa pranzo e i suoi desideri intorbidati. Del resto, sia detto per inciso, i suoi morti sono già tutti abbondantemente sepolti. Possiamo allora volgerci all’apparizione di un’altra figura, se non antagonistica quantomeno deuteragonistica, un altro essere in possibile futura interazione con il Nostro, che per comodità e distinzione chiameremo l’Altro.
IV
L’Altro è, in questo preciso istante, assiso su un sedile in fondo al grande autobus che corre in uno dei viali principali, sfruttando la corsia preferenziale ad esso riservata. Troneggia, su quel sedile, con tutta la sua mole laida di povero. Il resoconto è particolarmente preciso e ripetitivo nel sottolinearne la miseria materiale. E’ tale e tanta, questa mancanza di mezzi, quest’incapacità di sussistenza, da rendere oscure e in definitiva indistinguibili le circostanze che lo hanno portato a giacere seduto su quella condizione di povero degli autobus. L’Altro è grasso, una grassezza malsana, in nessun caso segno di abbondanza quanto piuttosto di abbandono. Scruta annebbiato lo spazio intorno a lui, dal quale lo separa una cortina di odori lugubri e di occhiate di ribrezzo degli altri passeggeri.
A questa figura sfatta, inacidita, potrebbero essere dedicate in egual misura le attenzioni seriche della carità e l’occhio inflessibile della legge. Se lo cercassimo rintracceremmo più volte il suo nome nella cronaca giuridica minima, verbali e spicciole annotazioni di polizia giudiziaria. Reati contro il patrimonio, così si chiamano, furto aggravato, tentata rapina. Allo stesso modo, il suo volto e anche i suoi dati anagrafici affaticano l’opera instancabile di chi nella città si prodiga per mitigare le storture nella distribuzione della ricchezza, offrendo cibo, o vecchi vestiti. L’Altro conosce bene, per esperienza personale, sia l’aspetto extralegale che quello solidaristico dell’afflizione. Nessuno dei due è però evidentemente valso a redimerlo, se è vero che lo troviamo gonfio della propria desolazione e forse di vino in cartoccio in fondo al grande autobus, mentre s’avanza a grandi passi il pomeriggio.
Espulsione, esclusione, sfratto, dormitorio, programma di recupero. Sono alcune delle diverse possibili stazioni della rovina, che si portano appresso, immancabilmente, pietà o punizione. Pietà punitiva, punizione pietosa.
Il fallimento e la sconfitta condannano in ogni caso l’Altro ad essere immancabilmente oggetto, eterno destinatario passivo di provvedimenti. Il resoconto, fedelmente, lo tratta di conseguenza.
L’Altro tira su con il naso, rumorosamente.
Non è dato sapere a cosa stia pensando. Non è dato sapere se pensi. Sembra guardare fuori dal finestrino, inebetito. La sua espressione rigida non permette di capire se si tratti di angoscia o di disagio. Non c’è nessun orizzonte che possa tenere insieme i suoi pezzi. Non ha soldi.
L’autobus corre veloce, sfruttando l’onda verde.
Ha in realtà un compito, l’Altro. Si tratta di mendicare. Mendicare in una forma a metà tra la preghiera e la minaccia, un lamento minaccioso – ridicolo, in realtà, che male potrebbe mai compiere, di fatto, questo relitto? – mendicare aggressivo e risentito, strappare moneta sulla leva di una blanda paura o una vaga repulsione.
Ha il compito di mendicare ma per ora vi si astiene, forse non si sente bene, è molto stanco, raccoglie le forze in vista delle future operazioni di sopravvivenza.
Continua la sua marcia l’autobus sulla corsia preferenziale e dietro lo seguono due volanti della polizia che vanno per la loro strada ma sembra lo accompagnino, come una scorta.
V
Sul finire del 1947 venne ricoverato presso l’ospedale di Munsingen (Berna) un giovane contadino di ventitré anni, che presentava i caratteristici segni di un delirio psicotico di fine del mondo. Il caso attirò l’attenzione degli psichiatri Alfred Storch e Caspar Kulenkampff, che ne riferirono approfonditamente, e in seguito anche dall’antropologo e filosofo Ernesto De Martino.
Per il malato – la cui storia personale era segnata da un cattivo rapporto con il padre violento e la madre alcolizzata, e da un assenza di rapporti sociali e legami affettivi – il crollo aveva avuto inizio con lo sradicamento di una quercia nel giardino da parte del padre, allo scopo di venderla. Inoltre, un ulteriore atto colpevole della rovina e disarticolazione del mondo era a suo dire il cambiamento della porta di ingresso della fattoria paterna, che prima era quadrata e di legno nero ed era stata rifatta ad arco acuto e in legno giallo. Questi due avvenimenti, la quercia e la porta, avevano causato una fondamentale alterazione dell’ordine delle cose, un dissesto generale che aveva coinvolto la natura e l’umanità tutta. Il mondo crollava e perdeva ogni traccia di domesticità e abitabilità. La crescita degli alberi e delle piante non poteva più avere luogo, perché la terra era diventata cava e il suolo cavernoso. L’aria si era mutata nella sua composizione, divenendo un gas tossico dall’odore sgradevole. Gli uomini erano sprofondati sotto terra e solo una piccola minoranza era riuscita a restare in superficie, su di un suolo che aveva comunque perso completamente la propria stabilità.
C’è una quantità infinita di accattoni e mendicanti in una grande città. Qualche intellettuale stravagante, restando a distanza di sicurezza, potrebbe farne un repertorio, un simpatico bestiario. Potrebbe suddividerli secondo archetipi, simboli, evocare l’uomo pieno di coperte che parla al nulla nel corso assolato d’estate, il classico finto storpio da metropolitana, i suonatori di violino o fisarmonica, le donne che recitano litanie monotone e cadenzate, i tossici. Un intellettuale impegnato invece cercherebbe l’inchiesta, gli appunti per la costruzione di un sapere di parte, la documentazione e la chiave di lettura per comprendere e aggredire il nodo politico della povertà. Un intellettuale altrettanto politico ma più impressionista invece potrebbe giocare la carta del documentario, del realismo crudo, ad esempio salendo sulle corse notturne dello stesso autobus che trasporta l’Altro e filmando avidamente la vita degradata e infelice di chi si fa un letto di quei sedili, per portare il problema all’attenzione dello spettatore non rinunciando a colpirne la sensibilità.
Difficilmente chiunque tra questi dedicherebbe però molto spazio all’Altro, che al di là di una massa gonfia e sfranta, di un’espressione ottusa e un certo untume della pelle e del vestiario non ha però grossi segni particolari, non abbastanza da colpire ed eccitare la fantasia dello scrittore e del lettore. Il resoconto se ne occupa proprio per la sua natura di miserabile priva di orpelli o aggravanti (quantomeno a uno sguardo superficiale, perché come si è detto la sua storia è taciuta, o meglio ancora, è da tutti considerata ininfluente).
Il Nostro, invece, ha terminato il suo pranzo, ha pagato quanto doveva, e conservandosi nella memoria per un uso futuro le fantasie sulla cameriera si è rimesso in cammino, diretto ad una fermata dell’autobus. Lo stesso autobus sul quale viaggia l’Altro. Le loro sono due traiettorie ortogonali, un cattivo clinamen li fa tendere ad un incontro, senza che ve ne siano ragioni, senza che da questo possa scaturire nulla.
Dallo spazio cavo sotto terra il contadino bernese sosteneva di avere ricevuto la notizia che il mondo sarebbe crollato, in futuro, e la notizia derivava da una non meglio precisata “forza cattiva”. Egli riusciva a restare in rapporto con gli uomini smarriti sotto terra, e per mezzo di una stazione trasmittente poteva comunicare con loro. Essi erano adirati con lui, perché avrebbero voluto tornare a casa loro e non potevano. “Gli uomini non vogliono più riapparire, non mi vogliono più vedere”. Alla domanda che cosa pensa con la parola crollo (untergang) risponde: “Quando gli uomini non sono al loro posto giusto”. Ma non soltanto gli uomini non sono al loro posto giusto, ma anche gli alberi, le case, tutte le cose in generale. “Ha avuto luogo un cambiamento” (wechsel) La gente dunque non soltanto si allontana ma acquista un aspetto ostile per il malato. Il mondo si è fatto insicuro e caotico.
Il Nostro è arrivato alla pensilina e per un attimo sente tutta la stanchezza del giorno, concentrata in un unico punto, lì alla fermata, e chiude gli occhi. Ha un momento di debolezza fisica, vacilla, si siede. D’improvviso non si sente bene. Potrebbe essere la digestione, il sonno, lo stress, una causa qualunque. Cerca di calmarsi, ascoltando il proprio respiro. Prende il telefono, per guardare qualcosa, per distrarsi.
Sull’autobus ora non c’è molta gente. L’Altro apre la bocca, come per parlare, ma subito la richiude.
Espressioni tipiche del malato di Berna sono “la terra è più piatta”, “i mari non ci sono più”, “i monti sono sprofondati”. Disegnano quindi in generale un globo terrestre mutato nella sua stessa forma, un paesaggio dove diventa impossibile trovare segni di orientamento e punti di riferimento. Nella sua psicosi, l’esistenza abbandonata alla mancanza di delimitazione di questa spazialità priva di possibilità di articolazione non è più in grado di ritrovare un luogo determinato in cui si collochino e cui appartengano gli uomini e le cose. Il malato fa continuo riferimento al fatto che la gente, le case, le cose, le vie non siano più “al loro giusto posto”. Tutto pare diventato per lui un altrove non familiare in ogni parte della sua composizione e struttura.
Il quadrante della pensilina indica il tempo d’attesa. Solo due minuti, l’autobus è in arrivo. Le condizioni del Nostro sono leggermente migliorate ma il malessere comparso così repentinamente non sembra volerlo abbandonare. Scorre distrattamente le notizie sullo schermo del telefono. Il cielo si è fatto torpido e lattiginoso, intorno a lui ci sono altre persone che aspettano. Il resoconto in questo punto si smentisce, perché ecco fare capolino la morte – contrariamente a quanto affermato in precedenza – e proprio attraverso il telefono. Non con una chiamata ma con una notizia, strillo dell’ultim’ora sull’home page di un quotidiano. La morte sul lavoro, il lavoro della morte. Qualcuno è stato ucciso, molto lontano o molto vicino dalla città dove il Nostro aspetta l’autobus, qualcuno è stato assassinato da un macchinario in fabbrica, la macchina lo ha risucchiato, il corpo schiacciato, le membra distrutte, qualcuno è stato ucciso dal lavoro e se ne diffonde la notizia, il cordoglio del mondo tutto, il cordoglio del mondo del lavoro, il cordoglio del mondo della morte che si rammarica e porta un fiore sulle carni che ha straziato e in compunto dolore nei prossimi giorni anche il ministro del lavoro e il ministro della morte si recheranno nella città della tragedia a testimoniare la propria vicinanza, ma questo accadrà più avanti, ora è solo una breve di cronaca cui seguiranno aggiornamenti. Comunque questa morte non crea smagliature nel tessuto, non disarticola l’orizzonte del mondo, anzi ne è parte integrante. Nel frattempo è finalmente comparso l’autobus, lo si vede a pochi metri dalla fermata, il Nostro ripone il telefono e si alza ancora un po’ malfermo sulle gambe. L’autobus si arresta e apre le sue porte con uno sbuffo pesante, una signora grassa attraversa di corsa la strada per non perderlo, il Nostro che ancora si sente poco bene sale sul predellino e varca la soglia del mezzo proprio in corrispondenza del sedile dove giace l’Altro, un macchinario si è mangiato un corpo vivo e lo ha restituito materia inorganica, occhi su occhi valutano avidamente le tette la bocca e il culo della cameriera del Lounge Bar Cafè con i vari usi che se ne potrebbero fare e Storch e Kulenkampff scrivono che il contadino bernese durante il ricovero ripete continuamente che gli uomini non sono più nel loro luogo, sono spaesati, che anche lui non è più al posto giusto e alla domanda su quale sia il posto giusto risponde “Dove si è a casa” (Wo man zu hause ist).
VI
L’autobus è una capsula grigia, ovattata. Percorre la città muovendosi nella pura separazione, un corpo estraneo in un contesto di corpi estranei. Non c’è nessun piano di consistenza, al suo interno come all’esterno. I passeggeri sono pochi e sfibrati, non alzano la testa. La dondolano, sembrano dormire, i corpi ciondolano al ritmo scandito dalle frenate e dalle ripartenze. Regna il silenzio, e il Nostro sta sempre peggio. Ascolta i suoi sintomi, nervoso, ossessivo.
Potrebbe spaccarsi il cuore. Il muscolo involontario che senza preavviso interrompe il corso dei suoi battiti, smette di irrorare sangue, e infatti va troppo veloce, o troppo piano, non va affatto, bisogna cercare il suo suono, il suo ritmo. Forse le vene sono ostruite, in esse si sono accumulati agenti nocivi, particelle maligne che impediscono la circolazione, la soffocano. E appunto soffocare si sente anche il Nostro, sente di respirare poco, manca l’ossigeno, non c’è aria che entra, l’aria si è fatta gassosa e azzurra, rarefatta come lo era per il povero contadino all’ospedale di Munsingen. Il viaggio e la sua destinazione hanno per ora perso importanza, il Nostro non guarda più le fermate, né lo schermo del telefono, né il panorama deserto e geometrico che scivola al di là del finestrino, non guarda più nulla. E’ completamente amministrato dall’angoscia, la paura ha assunto il governo provvisorio dei pensieri e delle sensazioni, delle fitte che ora lo percorrono da capo a piedi, ovunque, indistinguibili, ambigue. Cosa sono quelle macchie che gli si agitano davanti, cosa questa debolezza frenetica, gli duole la testa, un chiodo che si è piantato nell’arcata sopracciliare, tra l’occhio e il naso, e preme forte. Se perdesse conoscenza. Se crollasse sul pavimento sporco lurido dell’autobus, grigio di lordura accumulata nei suo giri notturni e diurni, battendo forte la nuca o la fronte, su cui si aprirebbe una ferita, un lieve rivolo di sangue di certo meno importante degli spasimi le fitte o l’arresto cardiaco che lo coglierebbero alle 15.12, nel primo pomeriggio di un giorno qualunque. Si è seduto, raggomitolato quasi, non si accorge di stringersi forte le braccia, a malapena si rende conto di emettere un altro peto, non come quello denso col quale aveva salutato il ritorno alla vita, ore fa, al mattino, nel suo letto, prima di sciogliersi nella visione nitida di una vivente calda lontana e oscena oltre la sua finestra – questo è un peto flebile, che viene assorbito dal silenzio agonico dell’autobus.
Per cercare un rifugio il Nostro si è seduto sul primo sedile che ha trovato – in scomodo controsenso rispetto alla marcia del mezzo – che è esattamente dirimpetto a quello occupato dall’Altro. Pochi centimetri li dividono, forse preso dal panico del malessere il Nostro non ha nemmeno notato il suo compagno occasionale, ma l’Altro sì, l’Altro si è accorto di quel suo simile ben più distinto comparso quasi per magia, inaspettato, di fronte a lui. Per l’Altro questa è un’occasione. E’ il momento di mendicare.
Apre la bocca e attacca bottone. Parla a macchinetta, parla di continuo, impastato, lucido, ammiccante, pietoso. Parla e chiede, e implora, e l’aspetto da impiegato fresco alla menta, l’aspetto dinamico del Nostro – che contrasta con il decadimento improvviso che sembra attanagliarlo interiormente, nella sua interiorità più concreta, ma questo l’Altro non può saperlo – gli suggerisce che su questo interlocutore potrebbe per ottenere l’elemosina fare presa con un discorso sulla crisi, sulle conseguenze della crisi, che hanno devastato la sua propria vita di Altro facendolo cadere così in basso. Inventa un suo passato l’Altro che non ha passato, non può averlo, solo questo presente indurito, però si inventa un passato. Un’attività commerciale andata in malora, una figlia poco più giovane del Nostro, un declino inesorabile che tocca anche quelli dello stesso paese, perché sono connazionali il Nostro e l’Altro, e anche questo potrebbe essere un buon tasto su cui puntare.
Parla e parla l’Altro, si parla sopra, si parla addosso nell’autobus che scivola lungo un pomeriggio dal cielo ormai decisamente coperto e soporifero. Quelle parole hanno, inaspettatamente, un effetto balsamico sul suo interlocutore. La genuflessione, l’atto di sottomissione implicito ed esplicito dell’Altro, la sua stessa figura sgraziata colta nell’umiliazione di chiedere sono come uno specchio in cui brilla per converso la sopravvivenza assicurata, media, slanciata del Nostro, ed è come un tonico e un calmante, un farmaco per i nervi e il cuore sentire di appartenere al mondo e di durare in esso, sentirlo e vederlo negli occhi bovini di quel povero. E il cuore sembra decelerare il ritmo, la gola si riapre e torna il respiro, è passata, è stato solo un attimo, un po’ di stanchezza.
Il Nostro ha ritrovato le forze, necessarie per arginare questo flusso di parole unte e viscose dell’Altro, e mentre gode appieno della sensazione bellissima di sentirsi riavere risponde a quelle suppliche con un gentile scuotimento di testa – sì sì sì ad indicare formale e assolutamente non veritiera partecipazione alle sue sventure e poi no no no a mettere in chiaro che non vi sarà elemosina a concludere la trattativa. Per quanto ad essere sinceri l’Altro abbia effettivamente svolto un servizio per il Nostro, perché per lui è importante, di più, fondamentale ottenere riconoscimento, anzi valorizzazione in qualche modo della propria immagine, e cosa di meglio di quest’opera di umiliazione e potere tascabile, come uno snack a portata di mano a metà giornata, quando si ha un buchino nello stomaco da tappare.
Ma non ci saranno soldi, e del resto il Nostro non ha dietro moneta spicciola.
La sottotrattativa riguarda allora una sigaretta, che invece arriverà, perché il Nostro fuma – il resoconto non ne aveva fatto cenno prima ma in questo punto recupera dando anche una media delle sigarette fumate in un giorno, una quindicina a scendere, nel senso con l’intenzione di scalare e prima o poi addirittura smettere – il Nostro fuma e decide che una sigaretta è il compenso giusto per quello sketch di autodegradazione a suo uso e consumo. Una volta avvenuta questa transazione l’Altro comprende che la sua funzione storica sull’autobus si è per quel giorno esaurita, decide di scendere alla prossima fermata, una piazza ampia e squadrata in una striscia di confine tra periferia e zona residenziale.
E dopo che l’Altro è sceso con il suo passo goffo, e con aria di ottuso dolore si è acceso la sua sigaretta – è proprio soltanto un grasso miserabile che fuma stolido per la strada – per un attimo solo sembra balenare un lampo di odio puro nei suoi occhi, rivolti all’autobus che riparte, dietro il fumo della sigaretta appena accesa, rivolti forse verso il Nostro cui sembra di scorgere gli occhi dell’odio viscerale nell’Altro mentre l’autobus riprende la corsa, ha visto per un secondo, ma proprio per un secondo, una maschera spaventosa, ma poteva essere un’impressione, di certo lo era, che l’Altro lo osservasse con quegli occhi, non può certo tornare indietro a verificare. L’autobus supera vari semafori e nel Nostro sembra tornare il panico, anche questa è un’impressione o forse no, il Nostro sembra sentire di nuovo quella stessa debolezza, l’irregolarità nel ritmo cardiaco, il formicolio, le fitte, l’oppressione al petto, ma potrebbe passare a breve anche questo malessere, di nuovo come è venuto, o invece al contrario è un segno, un sinistro presagio come lo fu la macchia sul muro all’inizio di questa giornata, il segno della catastrofe, o non è niente e la vita può continuare imperterrita, e purtroppo non sapremo mai cosa avvenga in seguito perché il resoconto in questo preciso punto si interrompe, ritiene di avere detto abbastanza, ringrazia i lettori per la pazienza di essere arrivati fin qui ed augura loro, di cuore, un buon proseguimento del corso delle proprie cose.