IL GIORNO IN CUI LA PROCURA ARRESTÒ LA STORIA

Pubblicato da admin il

L’8 giugno 2021 la polizia sequestra l’archivio personale dello storico Paolo Persichetti e lo pone sotto accusa di associazione terroristica. La linea dell’ortodossia sull’interpretazione storica degli anni ’70 si scaglia direttamente contro la ricerca. Qualcosa di cui avere molta paura

Poche settimane fa, commentando la notizia degli arresti a Parigi di un pugno di vecchi militanti per faccende di 40 o 50 anni prima, tornavamo a sottolineare come nella ricerca di una verità su quelle vicende sia auspicabile cedere completamente il campo alla storiografia piuttosto che alla magistratura. Intendevamo riferirci metaforicamente a due modi di intendere il nostro recente passato. Da una parte l’atteggiamento di chi ancora – dopo mezzo secolo – brandisce fantasmatici teoremi e snocciola odiose bugie al fine di fare avanzamenti di carriera e/o giustificare l’esistenza di normative liberticide e d’eccezione che ancora perdurano e si moltiplicano nell’attuale codice penale. Dall’altra c’è l’atteggiamento di chi riconosce che quella fase della nostra storia recente sia immancabilmente chiusa, che gli attori principali siano fuori dai giochi – foss’anche per sopraggiunti limiti d’età – e che sia il caso di chiudere le porte al giuridico nell’interpretazione dei conflitti sociali degli anni ’70.

Il riferimento era metaforico, uno degli espedienti che chi scrive usa per catturare l’attenzione di chi legge e veicolare con maggior agio i propri convincimenti. E invece ci sbagliavamo.

Il giorno 8 giugno 2021 la magistratura veste direttamente i panni di un luddista terrorizzato dal fatto che dei macchinari possano rendere obsoleto il proprio lavoro e lancia un sabot negli ingranaggi della storiografia. La maschera della magistratura è vestita da Eugenio Albamonte, pubblico ministero romano implicato nell’opaca vicenda del sequestro Shalabayeva, per il quale sono state emesse pesanti condanne di primo grado per gli ufficiali che eseguirono quello che la medesima sentenza di condanna definisce un “sequestro di Stato”. Albamonte ha preso recentemente una posizione pubblica contro i referendum promossi dalla bizzarra alleanza Lega-Radicali che mirano a ridimensionare lo strapotere degli inquirenti, specie per quel che riguarda il corporativismo interno e la mancanza di seri meccanismi di controllo e responsabilità individuale delle toghe. Lo storico è invece impersonato da Paolo Persichetti, ex brigatista che, dopo aver subito un’estradizione con stratagemmi degni di una spy-story, ha scontato per intero la sua pena e che da diversi anni si occupa di ricerca storica sui conflitti degli anni ’70 con una particolare attenzione al rapimento e all’uccisione di Moro. La qualità della sua ricerca è testimoniata non solo dai puntuali interventi pubblicati sul blog insorgenze.it, ma anche di accademici di livello come Marco Clementi – storico e docente universitario – che ha espresso la propria solidarietà e preoccupazione per quanto accaduto.

Ciò che è successo è di inaudita gravità dal punto di vista politico e spudorato sul piano giuridico. Da una parte si attacca un lavoro storiografico con l’evidente fine di rivendicare il dominio assoluto della magistratura sull’interpretazione e sull’analisi di fatti ormai compiutamente storici. Sul piano giuridico invece si fa un uso spregiudicato e sfacciato delle fattispecie penali partorite in quello stesso periodo, dimostrando quanto questi strumenti siano potenti e pericolosi. L’articolo di legge contestato a Persichetti è il famigerato 270bis – associazione sovversiva con finalità di terrorismo – che arriva a punire fino a 15 di carcere i promotori dell’associazione. È uno degli strumenti preferiti dalle procure, che negli ultimi 20 anni ne hanno fatto un uso smodato ampliandone l’utilizzo de facto per reprimere ogni minima situazione conflittuale. Va detto che molto spesso nel corso dei processi l’accusa è caduta nei vari gradi di giudizio, ma il fine di chi avanzava queste contestazioni non è mai stato portare a compimento quest’accusa, quanto più utilizzare le ampie possibilità che questo articolo offre nel reprimere il conflitto sociale. Nei molti mesi che separano gli arresti dall’istruzione di un processo, e da questo alla sentenza, si fanno scontare ai malcapitati di turno lunghe detenzioni preventive, si sequestra materiale e si mette sotto intercettazione ogni contatto personale degli inquisiti. Nel passato, però, le procure si premuravano quantomeno di coprire queste operazioni dando nomi fantasiosi alle organizzazioni che dicevano di aver scoperto (a principale uso e consumo di roboanti articoli di stampa ricalcati da veline di questura), indicando nomi e fatti concreti riferibili all’operato di questa o quella organizzazione sovversiva.

Nel caso di Persichetti nulla di tutto questo ci è dato conoscere. L’organizzazione sovversiva di cui sarebbe partecipe non ha un nome, non ci sono documenti prodotti dalla procura che disvelino dei progetti sovversivi come programma, ma questo è il meno. Non si indicano nemmeno i partecipanti, o quali azioni avrebbe compiuto l’associazione. Ma c’è di più: ancora al 19 giugno gli avvocati dello stesso indagato non hanno avuto accesso all’informativa della polizia che allertava la magistratura dell’esistenza dell’associazione e dalla quale è scaturito il sequestro.

Il lato tragicomico dei fatti è che Albamonte stesso, nel sopracitato intervento pubblico, lamentava il fatto che la magistratura stia attraversando una fase di scarsa credibilità presso l’opinione pubblica. Per emendare ciò dev’essergli sembrato opportuno inviare una dozzina di uomini e donne della DIGOS – evidentemente non impegnati in migliori offici – per sequestrare l’archivio personale di uno storico (e, già che c’erano, anche la documentazione sanitaria del figlio disabile….), “giustificando” il tutto con la mera asserzione di aver scovato una pericolosa associazione eversiva di cui non si sa nulla e di cui non si vuole rilevare nemmeno come se ne sia venuti a conoscenza e in che termini.

Non sappiamo fino a che punto i mandanti di questa operazione siano consapevoli dell’assoluta chiarezza e verità di cui si stanno facendo portatori. Al di là delle risibili giustificazioni che verranno addotte in sede processuale (ammesso che si arrivi a processo, viste le premesse) pensiamo che questo modo di agire sia cristallino. Ciò che è sovversivo, infatti, non è tanto il supposto possesso di materiale riservato, ma il mero atto di ricercare una verità storica su quelle vicende attraverso una metodologia che non sia quella dei mandati di cattura e delle carte processuali. Portare fuori dalle aule di tribunale (e da quelle delle commissioni d’inchiesta) questa ricerca è a tutti gli effetti un atto di sovversione in un paese che si ostina ancora a carcerare ultrasettantenni e non smette di fantasticare di trame e complotti internazionali dietro al fenomeno armato che coinvolse in quegli anni anche l’Italia. L’idea che tale fenomeno fosse spontaneamente stato generato dalle condizioni sociali e politiche dell’epoca e – quel che è peggio – che delle persone si siano prese la responsabilità di agirlo, mettendo in gioco la propria vita e la propria libertà senza essere eterodirette da una qualche forza statale o parastatale, è semplicemente impossibile. Gli anni ’70 sono utilizzati dalle procure come un’inesauribile fonte di legittimità per il proprio operato, e difendono tale risorsa con la stessa tenacia con cui l’Armata Rossa protesse i pozzi petroliferi del Caucaso. Perdere una simile riserva di carburante sarebbe un colpo fatale e pertanto va difeso anche al costo di superare i limiti della vergogna e del ridicolo. Limiti che tali procure non sembrano conoscere affatto.

Si può fare affidamento sui formidabili strumenti repressivi che la legislazione d’emergenza ha creato per ribadire, anzi allargare, l’ambito del proprio imperio senza nemmeno più darsi il disturbo di verniciare di credibilità delle operazioni nate morte. L’unica preoccupazione in questo caso è stato scegliere un indagato i cui precedenti penali – riportati in tutti gli articoli di giornale – fungessero da vaga giustificazione per il controllo pervasivo della sua vita. Questo dimostra ancor di più come l’attenzione dei magistrati in questi frangenti sia rendere mediaticamente spendibile un’inchiesta per il breve lasso di tempo in cui la stampa se ne occuperà con qualche trafiletto sparso. Il fatto che a un eventuale processo queste accuse siano destinate con ottime probabilità a finire nel nulla d’altronde non preoccupa nessuno. Nel mentre, si è messa a soqquadro la vita di una persona, poste sotto controllo decine di altre e bloccato di fatto un lavoro storiografico che stava mettendo in imbarazzo le insulse ricostruzioni dei fatti pronunciate da ben 5 commissioni d’inchiesta sul solo sequestro Moro e un’infinità di processi penali. Obbiettivo facile e centrato a costo zero, perché ciò è permesso proprio dalla legislazione d’eccezione che funge da asso pigliatutto mettendo al riparo da qualunque responsabilità chi fa uso di questi strumenti.

In conclusione, l’ennesima ardita operazione mediatico-giuridica serve principalmente a mantenere un’esperienza storica nel perimetro del trauma indigeribile, da rievocare alla bisogna ad uso e consumo di questure e redazioni. Farne storiografia e non materia da tribunale potrebbe forse renderlo non tanto un fantasma finalmente acquietato ma un evento con una sua propria consistenza, “citabile all’ordine del giorno” come memoria collettiva invece di essere perennemente lo strillo dell’ultim’ora della cronaca nera…