RIOT! George Floyd Rebellion 2020 – a cura di Calusca City Lights e radiocane.info

Pubblicato da admin il

Pubblichiamo alcuni estratti del libro Riot! George Floyd rebellion 2020, curato da Calusca City Lights e radiocane.info e edito da Colibrì. Vi sono raccolti testimonianze, riflessioni e analisi rispetto alla sollevazione americana avvenuta in seguito all’omicidio poliziesco di George Floyd, nel maggio dell’anno scorso. Buona lettura

Presentazione

Il tempo di ora è il tempo della(e) rivolta(e). In quell’ora che è sempre. In America come altrove, da ultimo in Colombia e nelle città dello Stato di Eretz Israel.

All’indomani dell’uccisione di George Floyd si è prodotta una sollevazione estremamente violenta e distruttiva, come non si vedeva da svariati decenni, con una partecipazione complessiva stimata tra i 15 e i 26 milioni di persone, in oltre duemila città, dalle più grandi alle più piccole e pressoché sconosciute. La consistenza della Floyd Rebellion si dà esattamente nelle interconnessioni fra le molteplici espressioni della protesta, nel loro fitto embricarsi che ha fatto saltare in aria identità, binarietà e altri regimi della separazione sociale, anzitutto le identità tracciate dalla linea del colore.

Niente è più pericoloso per la borghesia americana d’una lotta proletaria multirazziale. E niente è più insidioso per la lotta di classe negli Stati Uniti dell’alleanza che il proletariato bianco ha storicamente stretto con il capitale e lo Stato. Benché le basi materiali di quest’alleanza si stiano sgretolando, la whiteness continua a fare da collante per la società statunitense. Nondimeno, il 2020 ha aperto uno squarcio nella chiglia di questa galera infame.

Tutte le testimonianze narrano del carattere multiforme, multigenere e multigenerazionale dei partecipanti agli scontri, alle manifestazioni, ai saccheggi: giovani proletari black, latini, indigeni, bianchi, ragazze e ragazzi, mamme e veterani dell’esercito, lesbiche, gay e trans di vari colori. Non già una rivolta razziale, ma il superamento della questione razziale nella rivolta, nel luogo più controrivoluzionario del Pianeta e nel bel mezzo della decomposizione generalizzata del Progetto Occidentale. E se c’è una centralità della questione razziale in questi eventi, stante la centralità di tale questione nella storia statunitense, essa manifesta la centralità della rivolta in questa storia.

L’autoattività del proletariato nero è stata la forza trainante di un processo in cui non c’erano capi, ma bensì una dinamica scatenante e diffusiva. Mentre il proletariato bianco in gran parte non partecipò ai riots urbani dei neri negli anni Sessanta, oggi una nuova generazione di millennials bianchi e di proletari Gen Z combatte e muore insieme ai proletari neri nelle strade, al punto che nelle ribellioni di Atlanta, Minneapolis, Los Angeles e New York City i bianchi sono in maggioranza; nei centri nevralgici dell’Impero americano, le frazioni più disparate del proletariato si sono unite per attaccare la polizia e dare l’assalto alle arterie commerciali in dozzine di città, nel mentre riorganizzavano collettivamente la propria vita quotidiana. Oltre a non essere riducibile ad alcuna categorizzazione sociometrica, quest’insorgenza ha ottenuto più risultati in un’estate che decenni di attivismo, trasformando un’intera generazione. A muoversi, a dire Basta! non sono state le ong, la sinistra e neppure la sinistra rivoluzionaria, ma migliaia di giovani coraggiosi che hanno agito di propria iniziativa.

Le ultime parole di George Floyd, «I can’t breathe», sono state raccolte e rilanciate, per esprimere la consapevolezza che gl’interi destini del proletariato bianco e di quello nero sono stretti nel cappio del capitalismo razziale, fino a soffocare.

La Floyd Rebellion fornisce gli strumenti per abbattere finalmente non solo la prigione del capitalismo razziale, ma anche la prigione della Storia. E, lungo il phylum d’una guerra sociale che invera e trasforma le nozioni di solidarietà, politica e organizzazione, andare per non segnate vie.

Se una prassi rivoluzionaria emergerà, sarà nel fuoco di situazioni come questa. «Diamo il nostro benvenuto al mostro proletario.»

Da Una Tempesta perfetta. Una corrispondenza da Minneapolis

Una settimana fa a Minneapolis, George Floyd, un afroamericano di 46 anni, viene ucciso da uno dei quattro agenti del locale dipartimento di polizia che lo stanno arrestando. I video che mostrano la sua morte hanno avuto immediata e ampia diffusione sui social network. E così il giorno dopo, martedì 26 maggio, migliaia di persone sono scese per le strade a protestare.

Il primo giorno di protesta è stato quasi calmo: qualche vetrina infranta, un concessionario di automobili dato alle fiamme, alcuni danneggiamenti, e la giornata termina con la polizia che disperde la folla, usando lacrimogeni e pallottole di gomma.

L’indomani, però, le cose cambiano: mentre le proteste si estendono ad altre città, a Minneapolis le frotte di persone scese in strada s’infoltiscono e i manifestanti si fanno meno disciplinati. Le persone si assembrano numerose un po’ ovunque, ma si concentrano soprattutto a ridosso dei commissariati e dei dipartimenti di polizia, mentre i saccheggi dilagano e gl’incendi si moltiplicano. Nel giro di due giorni, tra mercoledì e giovedì, sono appiccati una cinquantina di roghi solo a Minneapolis, molti dei quali nella zona sud della città, vicino al luogo dell’uccisione di George Floyd.

Giovedì notte un commissariato del Terzo Distretto di Polizia viene circondato, assediato e infine dato alle fiamme. Sì, proprio così! I manifestanti, i ribelli, si sono impossessati dell’edificio, con gli sbirri che se la davano a gambe prima che venisse incendiato! Sempre giovedì notte, il governatore dello Stato del Minnesota ha dichiarato che la città era fuori controllo e che la polizia non era più in grado di gestire la situazione, ragion per cui ha chiesto l’attivazione della Guardia Nazionale.

Venerdì, nonostante l’arrivo in città di quasi un migliaio di questi soldati, i saccheggi e gl’incendi si sono susseguiti per tutta la giornata. Un tentativo di espugnare il commissariato del Quinto Distretto di Polizia è stato respinto, dopo che i manifestanti erano riusciti ad appiccarvi parzialmente il fuoco. Al calar della notte, disordini e saccheggi sono ripresi un po’ ovunque.

Sabato è il giorno dell’invasione: arrivano all’incirca quattromila uomini della Guardia Nazionale, mentre sono mobilitati anche i cosiddetti State troopers, ovverosia la Polizia di Stato, che comunque lasciano la gente manifestare e sfilare in corteo. Sono grandi marce, molto partecipate, ma in generale l’operazione di contenimento funziona. Anche perché gli agenti sono dappertutto e operano fermi, mentre fra i manifestanti serpeggia il timore di una violenta rappresaglia da parte della polizia in caso di scontri. In questo modo la rivolta è stata sedata, almeno in parte.

Grandi manifestazioni si sono ripetute in città pure la domenica, anche dopo il coprifuoco proclamato il venerdì precedente a partire dalle otto di sera, quindi a un’ora molto anticipata. Per fare un confronto, giusto per intendersi: in occasione dei riots di Ferguson il coprifuoco era stato inizialmente fissato a mezzanotte, e stavolta gli sforzi per farlo rispettare sono stati davvero notevoli, con una imponente militarizzazione serale delle strade, sia a Minneapolis sia nella vicina St.Paul.

La notte scorsa si sono avuti altri saccheggi, stavolta a opera di gruppi ben nutriti, e nelle retate di polizia sono state arrestate circa duecento persone. Mentre oggi, martedì 30 maggio, è tutto molto calmo e ancora non è per nulla chiaro cosa potrà succedere.

Da How it might should be done di Idris Robinson

Per cominciare, bisogna dire che gli schiavi africani e i loro antenati sono stati l’avanguardia di ogni cosa in questo Paese. Non c’è una cultura in America, in questa terra desolata che è l’America, senza i neri. Non esiste la musica classica, c’è il Jazz, e l’abbiamo inventato noi. Oltre a ciò l’America non ha nulla da offrire al mondo e non l’ha mai avuto.

Ho usato il termine avanguardia in un senso preciso: non c’erano capi, non siamo stati i capi della rivolta, ma bensì l’avanguardia che l’ha diffusa, dopo averla iniziata. Ne è derivata una sollevazione selvaggiamente multietnica e i riformisti faranno di tutto pur di cancellare questa verità. Chi è stato in piazza sa di avervi visto persone d’ogni tipo. Corpi diversi, forme diverse, generi diversi hanno manifestato insieme nelle strade.

Si è fatto tanto parlare, specialmente nei circoli imprenditoriali e accademici, di come porre fine al razzismo. La fine del razzismo l’abbiamo vista nelle piazze, subito dopo l’assassinio di George Floyd.

Solo quando la dinamica degli eventi ha cominciato a esaurirsi, i becchini e i vampiri della rivoluzione hanno potuto cercare di ripristinare la linea del colore e imporre un nuovo ordine alla sollevazione. La versione più sottile di questo processo si deve proprio agli attivisti. I nostri nemici peggiori sono sempre i più vicini. Siete stati tutti a quelle marce ridicole con “i bianchi davanti, gli afroamericani in mezzo”: un modo sofisticato di reintrodurre la separazione. Dissolvere questi confini, come si è cominciato a fare nei primi giorni, dev’essere invece la nostra ambizione.

L’esempio più sconvolgente di questo ripristino della linea del colore ci viene dalla vicenda di Natalie White, la compagna di Rayshard Brooks. Questa donna è stata chiamata in causa dai cosiddetti attivisti “attenti” di Twitter per il suo coinvolgimento nelle proteste seguite alla morte del compagno. Alla fine, è stata inquisita per il rogo del Wendy’s davanti al quale Rayshard è stato ucciso. Non dobbiamo convalidare le logiche borghesi di colpa/innocenza: se abbia avuto o no un ruolo in quel rogo non è affar nostro, siamo comunque solidali con lei. Il mio biasimo va tutto a quei pretesi benefattori, a quegli attivisti “consapevoli” che l’hanno tirata in mezzo; stigmatizzo solo loro, e Rayshard Brooks fa lo stesso dalla tomba.

L’ordine sovrano classifica minuziosamente le persone per gruppi, come fanno i poliziotti e i secondini. Estremamente istruttivo è l’esempio di John Brown, che fu spesso criticato dai suoi sedicenti alleati e amici per il suo modo, ai loro occhi inaccettabile, di entrare in rapporto con i neri. Ciò che in realtà gli veniva rimproverato era di rivolgersi ai neri come a esseri umani. Ogni volta che oltrepassiamo la linea del colore per incontrarci come esseri umani veniamo criticati, in special modo dalle ali più avanzate della controinsurrezione. John Brown fu duramente attaccato per avere propugnato le pratiche militanti, compresa l’insurrezione, e tra i suoi più accesi critici ci fu anche Frederick Douglass, prima di cambiare idea. La storia avrebbe poi dimostrato che l’unica via per abolire la schiavitù è l’insurrezione violenta, dando ragione a John Brown e in un certo senso riscattandolo. Domandiamoci però: che ne sarebbe di lui se vivesse ai nostri giorni? Sarebbe perseguito penalmente, come Natalie White, per avere oltrepassato la linea del colore.

Da Da Wendy’s. Lotta armata alla fine del mondo

Le rivolte e le insurrezioni, benché siano parti importanti dei processi rivoluzionari di lunga durata, non ne sono necessariamente il culmine apocalittico. Tutti i movimenti, proprio in quanto nella loro essenza sono organismi viventi, sono destinati a estinguersi, nonostante i nostri tentativi di impedirlo. E le strutture che permettono a un senso di gioia e di festosa celebrazione di accompagnare lo scioglimento dei nostri movimenti possono fornire le basi per la crescita di una forza rivoluzionaria sostenibile sul lungo periodo. Contrastare le ricadute negative di tali grandi rotture richiede un enorme dispendio di energie. Molto impegnativo è anche sfuggire a quel senso di disperazione che ci porta a compiere determinate azioni pur di rivivere le emozioni provate all’interno del movimento, come per esempio la gioia della distruzione collettiva. A causa del loro carattere ripetitivo e oramai individuale, tali azioni mancano però del potenziale necessario per inaugurare nuovi e significativi percorsi di lotta. Se vogliamo evitare di cadere in un fatalismo attivistico, dobbiamo essere capaci di impegnarci al massimo nella rivolta, dandovi il meglio di noi, e al tempo stesso dobbiamo sapere riconoscere quando il suo potenziale si esaurisce, quando il movimento “muore”. “Essere fluidi” significa innanzitutto riuscire a capire quando non siamo più noi a determinare il terreno dello scontro. Mentre ultimamente si è preso a discutere intorno alla desiderabilità o meno di una guerra civile, continua a mancare un’idea significativa di rivoluzione. Nel Novecento, la rivoluzione proletaria si era immaginata come un processo nel quale la classe dei lavoratori sarebbe cresciuta esponenzialmente fino a un livello critico, raggiunto il quale sarebbe diventata politicamente egemone, avrebbe preso il potere e creato un mondo nuovo sulle macerie del vecchio. Oggi una prospettiva del genere non è più concepibile: stiamo collassando sotto le macerie del vecchio mondo senza aver scoperto come salvarlo. Di conseguenza, i partigiani d’oggigiorno dovranno essere, negli anni a venire, assai flessibili quanto a speranze, desideri e possibilità.

Oltre alla lotta intestina in cui la nostra specie è impegnata, c’è da affrontare la minaccia di estinzione causata da una catastrofe planetaria di dimensioni inimmaginabili. Questo ci fa pensare, con le parole di Gunther Anders, a un'”apocalisse che è una semplice caduta, che non rappresenta l’inizio di un nuovo, positivo stato delle cose” – un'”apocalisse senza regno”. Per fortuna, non siamo i soli a dovere fare i conti con la difficoltà di instaurare un nuovo modo di vita. In futuro, le élite di governo dovranno fronteggiare sfide crescenti per mantenere stabilmente ciò che esse chiamano Law and Order. Gli orizzonti della governabilità si ridurranno, lasciandoci sempre più spazio e permettendo di avviare sperimentazioni su territori via via più ampi al di fuori del controllo dello Stato. Wendy’s ci ha offerto un saggio del caos prossimo venturo. Ora dobbiamo raccogliere le sfide lanciate da questa esperienza e trasformarle nelle linee guida necessarie per attraversare l’abisso che incombe.