«”L’OPERAZIONE” SI CONCLUDE QUI»: GIORGIO CESARANO AL TERMINE DELLA LETTERATURA
“Quando Cesarano, di colpo, rinunciò a tutto questo per dedicarsi interamente prima al lavoro politico con un numero sempre più esiguo di compagni e poi a una riflessione teorica severamente e dolorosamente solitaria, era convinto, credo, di compiere l’ unico gesto rivoluzionario ormai consentito a un artista: sopprimere con la propria arte la sottomissione al «dominio reale del capitale» che in essa oggettivamente, inevitabilmente si incarna e si perpetua.“
1. Introduzione a «Introduzione a un commiato»
La donna e l’uomo che parlottano in francese (e poi in spagnolo) a bordo di un torrido Firenze-Pisa nel luglio 1943 sono Anna Banti e Roberto Longhi: come si fa coi bambini per non far loro capire di che si parla. Così li ricorda Franco Fortini, seduto pochi posti più in là, in La guerra a Milano (1963), scolpendo in pochi dettagli esemplari la diffusa e caparbia refrattarietà al regime – «un antifascismo sottopelle», lo definirà poi Banti stessa anni dopo [1] – da parte della frangia più intellettuale della borghesia italiana; ma anche l’abisso (e la consapevolezza dell’abisso) culturale e comunicativo che li separa senza rimedio dal resto del vagone [2]. Fortini è un sergente di passaggio a Pisa, a volantinare per il Partito d’Azione; partirà per Milano nella notte con il suo reparto. Lunga è la strada che lo condurrà nuovamente in città – dove sarà disertore, fuggiasco e profugo dopo l’8 settembre: Zurigo, la Valdossola, i campi profughi [3]. Per Banti e Longhi si apre invece il «nero pozzo» di chi è rimasto; quello della sospensione dai pubblici uffici, degli sfollati, dei bombardamenti [4].
Questa, però, non è la loro storia – benché anche questa storia prenda le mosse da quelle grandi premesse personali e collettive che, più che a una ‘resistenza’, hanno dato forme singolari all’esplicitazione e all’esperienza della guerra civile. È la storia di un ragazzo che, mentre tutto questo accade, giovanissimo, aveva preso pure lui a suo modo la decisione di combattere – ma arruolandosi nella Xª MAS e rischiando la fucilazione da parte di un plotone partigiano; e della sua coerente, ma lancinante conversione politica; e della sua poesia; e del suo addio alla letteratura. È, infine, la storia dello spettro di questa guerra civile dormiente ancorché irrisolta; e della sua invocazione (o allusione o approfondimento) per mezzo di un gesto simbolico sul crinale tra due faglie che si vogliono storiografiche e storicistiche – il «miracolo economico» e gli «anni di piombo» – e tra due eventi (il «Sessantotto» e il «Settantasette») che, si intende, nel loro senso ultimo rifiutano ogni storicismo; venendo, peraltro, scrupolosamente espunti da ogni storiografia e anzi da ogni storia che non sia la storia di una vendetta.
Franco Fortini è, di fatto, il primo critico di Giorgio Cesarano; è lui a firmare la prefazione all’Erba bianca, raccolta del 1959 edita per i tipi di Schwarz (che darà alle stampe, in quegli anni, le prime opere di Alda Merini, Elio Pagliarani, Antonio Porta). Anna Banti – che nel 1950 aveva dato vita, assieme al marito, a «Paragone», forse la rivista più di tutte rappresentativa di una società delle lettere (e delle belle arti) nella ‘prima’ seconda metà del Novecento – è, quindici anni dopo, la sua ultima interlocutrice letteraria. Sulle pagine della rivista, Cesarano aveva in effetti tenuto, nella primavera dei suoi quarant’anni, un vero e proprio diario – che sarebbe di lì a poco andato precisandosi, pur con dolorose censure, nel volume mondadoriano I giorni del dissenso; ed è in virtù della liberalità dimostrata in quell’occasione dalla caporedattrice di «Paragone» che Cesarano si rivolge a lei per sottoporle quello che vuole essere il suo ultimo testo in versi, Ghigo vuole fare un film – destinato per forme (ma forse non per contenuti) agli addetti ai lavori:
Podere al Mennucci
Pieve di Compito
19 giugno 1974
Gentile signora Banti,
da molto, essendomi dedicato alla critica radicale, e agli studi che essa comporta, non scrivo più versi. Gli ultimi che scrissi, fra il ‘68 e il ‘69, riletti oggi, mi sembra che da un lato non meritino la sepoltura nel cassetto, mentre da un altro forniscono un chiarimento sui generis intorno ai motivi per cui non ne ho più scritti. Si tratta del «romanzo» in versi che le unisco: Ghigo vuole fare un film.
Amerei vederlo pubblicato in «Paragone». Mi rendo conto che è uno scritto lungo e che occuperebbe molto spazio, e anche di come possa indurre qualche imbarazzo ideologico, coi tempi che corrono. Ma non ho dimenticato come Lei accolse Vengo anch’io, e come il testo comparve senza bisogno di nessuna delle censure che poi l’editore mi impose, e che io ebbi la debolezza di subire. Qualora il «romanzo» fosse ospitato nella rivista, desidererei premettervi poche righe di chiarimento, e aggiungervi qualche nota necessaria, riguardo agli imprestiti. Non più di una pagina in tutto.
Tra non molto uscirà, presso Dedalo, un mio Manuale di sopravvivenza, che le invierò con piacere.
Abbia, cara signora, la simpatia e i saluti
del suo
Giorgio Cesarano [5]
Una seconda lettera, inviata quattro mesi più tardi, reca le tracce di un assenso preliminare da parte di Banti, di cui però non c’è traccia nel carteggio edito; e si prefigge non solo di ripristinare alcune «stanze» espunte in un primo momento (corredando il testo delle necessarie note), ma anche di trasmetterle quelle «poche righe di chiarimento» annunciate in giugno, ora intitolate Introduzione a un commiato – dove il «commiato» sottintende non già (o meglio: non ancora) l’estremo gesto del suicida, bensì un accorato ancorché breve addio alla letteratura:
Il «romanzo» in versi che segue lo scrissi fra il ’68 e il ’69, salve talune integrazioni e varianti operate più tardi. Nel ’70 proposi all’editore Mondadori, che già aveva stampato i miei versi precedenti, di raccogliere in volume i «romanzi» I Centauri; Il sicario, l’entomologo (usciti in «Nuovi argomenti»); e questo Ghigo vuole fare un film, sin qui inedito. I responsabili declinarono il progetto, sorprendendomi e amareggiandomi comicamente. Ora non tanto guardo a questi scritti come a un libro che non si volle, quanto li vedo, del tutto idealmente, come la conclusione della raccolta La tartaruga di Jastov, mutandone il titolo in Romanzi naturali e cancellando l’indicazione, fittiziamente unitaria, di «romanzo». Ma resti pur tutto al passato.
Da vari anni, ormai, versi non ne scrivo e non ne leggo (tranne quelli di Zanzotto, tanto oltre la miseria cantata). Questi che pubblico, ultimi, credo forniscano una spiegazione sui generis. Ad Anna Banti devo l’occasione di poter chiudere così, nitidamente, i miei conti con la letteratura, senza residui e senza rimpianto. Giacomo Debenedetti mi rilasciò patente di poeta, in uno scritto che mi è ancora caro. Ma tale brevetto, cui avevo molto ambito, ho poi disatteso, per concentrare ogni mio sforzo nella critica radicale, dove, sono certo, la parole mette in campo la sua estrema guerra contro una langue fattasi di catene e d’armi. Rimando ai volumi Apocalisse e rivoluzione (scritto con Gianni Collu) e Manuale di sopravvivenza, editi da Dedalo libri. [6]
«In un certo senso, l’“operazione” si conclude qui», con quanto di non premeditato, anzi scaturito da una necessità oggettiva questo comporta. La trasmisione delle ultime variazioni al poemetto Ghigo vuole fare un film alla destinataria Anna Banti riprendono così con insistenza l’invito a leggere, nella sua adesione alla critica radicale, cause e motivazioni di questo congedo; ma continuando ad affidare alla poesia una giustificazione di questo suo agire ancora quale parte (sia pure limitrofa) della società letteraria. «Riletti oggi», dice Cesarano», «mi sembra che da un lato non meritino la sepoltura nel cassetto, mentre da un altro forniscono un chiarimento sui generis intorno ai motivi per cui non ne ho più scritti» [7]. Per dirla con Giovanni Raboni, che gli fu amico e attento critico, permane in Cesarano «un debito di sincerità e di tristezza» rispetto a ciò che non è più; e, se all’altezza della Tartaruga di Jastov (1966), si trattava del congedo del narratore dal voyeur (che tuttavia, come vedremo, sopravvive magistralmente in uno dei Romanzi naturali oggetto di queste pagine, Il sicario e l’entomologo, datato 1968), con l’invio a «Paragone» di Ghigo vuole fare un film è il critico radicale a congedare un poeta che, al di là di tutto, gli sopravvivrà fino alla fine.
Questo commiato non va in alcun modo inteso come una scelta dettata da esigenze strettamente individuali; e, d’altronde, è ancora Raboni, a venticinque anni di distanza, a fare luce su questo punto:
Quando Cesarano, di colpo, rinunciò a tutto questo per dedicarsi interamente prima al lavoro politico con un numero sempre più esiguo di compagni e poi a una riflessione teorica severamente e dolorosamente solitaria, era convinto, credo, di compiere l’ unico gesto rivoluzionario ormai consentito a un artista: sopprimere con la propria arte la sottomissione al «dominio reale del capitale» che in essa oggettivamente, inevitabilmente si incarna e si perpetua. È una convinzione che non mi è mai riuscito di condividere con lui anche se, adesso come allora, sento di non avere niente da opporgli tranne un’ evidenza più fisica che concettuale: la diversità, l’alterità, comunque, della poesia; e l’ amarezza che provo ripensandoci non è tanto di non averlo fatto (non è certo così che avremmo potuto, io o altri, indurlo a risparmiare la propria vita) quanto di non averlo fatto per una sorta di indifferenza, forse di insofferenza nei confronti di qualcosa che mi sembrava in lui una forma di integralismo ideologico ed era invece, probabilmente, la forma stessa della sua integrità intellettuale. [8]
Peraltro, Raboni dimostra così una lettura non superficiale della Critica dell’utopia capitale, opera intrapresa nel 1971 e rimasta incompiuta a causa del suicidio di Cesarano nel 1975, e citata peraltro in controluce nella lettera ad Anna Banti quale ‘motivo’ della conclusione dell’«operazione» poetica. In uno dei passaggi delle Note a margine, si legge infatti:
L’arte può rivendicare un significato liberatorio: la riconquista, per sé, nella sua separatezza e nel suo più alto grado di esoterica esclusiva (dunque di classe, essendo questi gradi non da altro determinati che da tempo-lavoro erogato, a monte), di uno specifico e particolare valore d’uso, in sé e per sé allusivo, complessivamente e pur dal di dentro della lingua inorganica, al naturale valore d’uso della lingua organica repressa, abolita, di cui è la pallida e sublimata proiezione, spettro di ricordo. […] Purtuttavia, e sempreché il «destinatario» si trovi nelle condizioni di possedere gli strumenti culturali che gli consentano di decodificare il messaggio (cioè si trovi al posto giusto nella gerarchia ancora di classe del sapere), il messaggio dell’arte può suonare a costui come il richiamo a un voler essere della lingua organica, oltreché, ma in second’ordine e per canoni prontamente recuperati e comunque deperibili, come una denuncia sui generis dello stato delle cose pronunziata con spezzoni stravolti della lingua medesima grazie al quale lo stato delle cose è. [9]
La poesia, dunque, non è più un linguaggio percorribile per chi abbia preso consapevolezza del fatto che il capitale – come si legge in Cronaca di un ballo mascherato – sia ormai «pervenuto al dominio reale di ogni forma di produzione e riproduzione dell’esistente»[10]. E tuttavia, pur senza il portato di radicalità dell’Introduzione a un commiato, già dieci anni prima Cesarano aveva provato a chiudere i conti con un certo modo di fare letteratura:
Caro Giovanni,
So di darti un dispiacere. Con la lettera che ti accludo in copia, indirizzata a Sereni, penso di aver chiuso bottega. Ci ho pensato ben bene, ho valutato tutto, ma insomma è così.
Stamperò, da ora in avanti, a mie spese, con Roversi che per identici motivi si accinge a fare altrettanto.
Ti sarò sempre gratissimo per avermi così affettuosamente aiutato, e, credimi, dispiace maledettamente anche a me. [11]
Già nel 1964, dunque, Cesarano progettava di abbandonare la grande tiratura; di ritirarsi – assieme a pochi sodali – alla pratica del ciclostilato e più in generale alla «ricerca di più dirette e meno corrose modalità d’incontro col lettore» [12]. In questo caso sembra trattarsi, più che dell’abbandono della poesia tout court, di un tentativo (che andrà poi precisandosi negli anni immediatamente seguenti) di scissione dal mondo dell’industria culturale. Questo progetto si dissolverà rapidamente, come testimonia una seconda lettera del 30 marzo 1964 in cui Cesarano, commentando con amarezza le ragioni di questo fallimento, teme peraltro che la decisione venga interpretata come un meschino stratagemma per passare da un editore a un altro:
Bel quadro, sicché: l’iniziativa cui tenevo (la cooperativa autori) va a monte; il mio atteggiamento di protesta politico-ideologica scade ad alibi di manovrette da corridoio; il libro resta nel cassetto a tempo indefinito e quel che è peggio mi trovo appiccicata in fronte l’etichetta di puttana. [13]
A ben vedere, la traiettoria tracciata da Cesarano tra questa lettera e l’Introduzione a un commiato – passando per quei Preliminari a un comitato d’azione nell’ambito dell’industria culturale, datato 1969 – descrive un progressivo specificarsi del fronte di lotta contro quello che è individuato come l’«apparato motore della cultura sistematica»: non solo, quindi, l’«industria culturale» come catena di produzione del libro, ma parte integrante di quella fabbrica che produce e riproduce l’ideologia della separazione dell’umano dalla propria vita – nominata nel suo carattere di alienazione prima e, in seguito, di vera e propria «abolizione»: «Insieme incubatrice, laboratorio di riproduzione, adulterazione, manipolazione differenziata, nastro di scorrimento e magazzino di confezione di un unico e fondamentale prodotto di base: l’ideologia del sistema»[14].
Su «Paragone», Ghigo vuole fare un film e Introduzione a un commiato non appariranno mai. Sarà ancora Giovanni Raboni, divenuto nel frattempo responsabile editoriale per Guanda, a pubblicare, cinque anni dopo il suicidio di Cesarano, i Romanzi naturali; che non rispondono per intero al progetto originario di Cesarano, ma che riuniscono i tre testi individuati dall’autore stesso sotto questa comune etichetta con l’aggiunta di una versione non censurata di quel poemetto, Pastorale, sul quale Mondadori aveva effettuato pesanti interventi editoriali prima del «visto si stampi» a La tartaruga di Jastov (1966). Ad oggi, quella di Raboni è l’ultima edizione (peraltro largamente irreperibile) dell’opera poetica di Cesarano. Ed è da qui – da questa operazione a un tempo di restituzione storica e di sostanziale rimozione da una storia – che un discorso sui suoi ‘ultimi’ versi può partire.
2. Il sicario, l’entomologo (sotto forma di nota a margine)
Del «romanzo» Il sicario, l’entomologo (1968) si è deciso – in ottemperanza al fare cinematografico di Cesarano, che accompagna nel testo le vicende intrecciate di due «persone» (definite semplicemente «persona A» e «persona B») – di riportare qui unicamente i sommarietti introduttivi che l’autore appone all’inizio di ognuno dei quaranta capitoletti (fatta eccezione per un Epilogo che sembra essere comune a entrambi i protagonisti).
1. Persona A. (Treno).
Si trasferisce da un paese del centro-Europa, da una milizia rivoluzionaria tradizionale, verso un bersaglio. È ammalato?
2. Persona B. (Interno)
Sistema un coleottero in collezione. Considera il luogo in cui si trova.
3. Persona A. (Navigazione)
Il viaggio continua attraverso l’oceano. Immagina spie. Da un senso di astratta neutralità lo traggono due segni del reale.
4. Persona B. (Zoo)
Osserva un rinoceronte in gabbia; l’animale ha un’erezione che diverte gli astanti.
5. Persona A. (Il paese)
In vista del nuovo continente è tentato dal sogno di una deviazione verso i luoghi della morte atomica.
6. Persona B. (Bacheche)
Visitando un terracquario sotterraneo indugia davanti alla bacheca del ragno Mygale.
7. Persona A. (Dongana)
Alla dogana esibisce un passaporto falso. Viene vaccinato e perquisito. Dissimula la propria destinazione.
8. Persona B. (Esterno Zoo)
Inginocchiato dietro un cespuglio cerca un ragno minatore. Sperandosi non visto spia una coppia.
9. Persona A. (Aereo)
Il viaggio continua in aereo. Dopo il breakfast rifiutato, ha ricordi di genocidio. Il paese si avvicina nell’atterraggio.
10. Persona B. (Retrobottega. Snack)
Da un negozio di libraio passa nel retrobottega dove esamina e acquista fotografie erotiche. Poi a consumare prelibatezze.
11. Persona A. (Delirio)
Nella camera di un albergo a poco prezzo ha un accesso di febbre. Affiorano nel delirio, fra altre immagini, prefigurazioni dell’agguato e ancora ricordi di genocidio.
12. Persona B. (Esterno notte)
Costeggiando un parco è attratto da suoni e figure di un’indistinta Sodoma e Gomorra.
13. Persona A. (Interno-esterno)
Ancora convalescente esce dall’albergo. La luce forse tropicale della città lo assale disorientandolo.
14. Persona B. (Interno domestico)
Arrivato a casa dissuggella e osserva con agio le fotografie erotiche.
15. Persona A. (Parco. Self-service)
Perlustra il parco: in preda a disorientamento, ancora e sfiducia. In un self-service vede una ragazza di colore, forse una prostituta.
16. Persona B. (Interno, teca)
S’accorge che nella teca il coleottero staccatosi dal fondo è scivolato con lo spillo e il cartiglio nell’incavo della cornice. Sembra vivere: ma è la vibrazione di un treno sotterraneo.
17. Persona A. (Albergo)
Ha seguito in una camera d’albergo la ragazza di colore incontrata nello snack.
18. Persona B. (Parco)
Nel parco osserva uccelli acquatici e persone. Sedutosi a leggere il giornale si trova a osservare una coppia.
19. Persona A. (Albergo)
Durante il coito con la ragazza gli si presentano immagini di violenza.
20. Persona B. (Parco)
Mentre spia la coppia e prende appunti esoterici il rimbalzo di una palla gli rivela la presenza di una bambina curiosa.
21. Persona A. (Mestieri)
Fa la maschera in un cinema. Poi il barbiere. Poi l’imballatore. Cerca altri lavori.
22. Persona B. (Oculare)
Fotografa una mantide religiosa che copula col maschio e lo uccide. Nell’inquadratura si proietta l’ombra della bambina curiosa
23. Persona A. (Nuovo mestiere. Cantina)
Fa il cantiniere in un grande albergo. Due garzoni lavorano con lui.
24. Persona B. (Non Alice)
Lo imbarazza la presenza ostinata della bambina curiosa.
25. Persona A. (Cantina)
Nella cantina ha ricordi di genocidio e di guerriglia cittadina. I due garzoni si scagliano topi a pedate gridando. Riceve una telefonata.
26. Persona B. (Parco)
Segue e spia un’altra coppia pedinato a sua volta dsalla bad,bina curiosa che finisce per prendere il suo posto.
27. Persona A. (Panchina)
Aspetta e incontra nel parco la compagna sconosciuta che gli ha telefonato. Ne riceve istruzioni o altro dentro un pacchetto di sigarette.
28. Persona B. (Taxi. Intoppo e apparizione.)
In taxi verso il quartiere delle librerie e dei ristoranti osserva le passanti figurandosele come insetti o animali. Il traffico s’imbottiglia. Fra le bancarelle di un mercato riconosce la bambina curiosa.
29. Persona A. (Museo)
Seguendo le istruzioni si reca al guardaroba di un museo per ritirare una valigia. Deve aspettare e visita il museo. Sala delle mummie e dei calchi. Tornato al guardaroba ritira la valigia.
30. Persona B. (Aperto. Apparizione-sparizione)
Lavorando all’aperto su un formicaio è ossessionato dall’idea che la bambina curiosa lo stia spiando.
31. Persona A. (Stanza e cortile)
Nella sua camera d’albergo monta il fucile a cannocchiale e prova la mira su un gruppo di ragazzi che giocano a baseball in cortile.
32. Persona B. (Sogno)
Fra le figure di un incubo gli appare il profilo della bambina curiosa.
33. Persona A. (Preparativi. Teleobbiettivo.)
S’è appostato nel parco con il fucile nascosto nella custodia di una canna da pesca. Da un lontano attico è inquadrato nel fuoco di un teleobiettivo. Aspettando il bersaglio finge di pescare.
34. Persona B. (Esterno pioggia. Allucinazione)
Sotto la pioggia le passanti gli appaiono come animali da cartone animato. Nell’allucinazione torna l’immagine della bambina curiosa.
35. Persona A. (Bersaglio)
Dall’attico il teleobiettivo inquadra in una scena di partenza il bersaglio predestinato. A un segnale luminoso il falso pescatore afferra il fucile.
36. Persona B. (Corpo o disegno del delitto)
Guarda il corpo inanimato della bambina curiosa
37. Persona A. (Colpo)
Inquadra, mira e spara
38. Persona B. (Immediatamente dopo)
Vede accorrere gente nell’allucinante terrore del linciaggio.
39. Persona a. (Immediatamente dopo)
Nel paralizzante terrore d’esser stato fotografato perde istanti preziosi mentre vede accorrere gente che gli impedisce ogni via di fuga.
Epilogo
svellono premendo
energia in direzione contraria
le fattezze con colpi
parti ossee in parte
i tessuti le beanti
degli occhielli di più
sopra i denti
finché i denti stessi,
occhi globi luogo
unghie e dita si sgusciano
scarsi capelli impugnano
onde fissare
le costole con calzature
avvertito sfondamento
e del molliccio addome e dei penduli genitali
comandamento
spontanea volontà
facile a avanzato
fine raggiunto
vuoi l’ira morire
perché sconciato
muto difficilmente
atto che insieme
pubblica opinione
a termine sommaria
vizio d’esecuzione. [15]
Queste indicazioni, vere e proprie direttive di sceneggiatura, possono essere lette – al di là della forma particolare entro la quale l’incandescenza del materiale poetico si cristallizza – come segno di un’intelligenza e di una chiarezza che ne predetermina l’«operazione». Quello che aggiungiamo di seguito non pretende di essere un commento o un discorso critico sui versi, ma note a margine che tentano di esplicitare il senso che può avere per noi una lettura di questa «operazione» poetica, apertamente sconfessata dal critico radicale. Ma qual è, dunque, l’operazione che Cesarano conduce in Il sicario, l’entomologo?
Innanzitutto, occorrerà specificare che l’intero «romanzo» si struttura a partire dal tema del doppio – di fatto già evidente nella scelta del termine che identifica i protagonisti. Nella Critica, infatti, si legge: «La prima “cosa” che il lavoro linguistico produce è la persona, la persona come maschera (vedi l’etimo) e la persona come cosa»[16].
Il tema del doppio rimanda qui a una serie di binomi: azione-contemplazione, colui che «vede»-colui che «ha già visto», soggetto-oggetto. Se l’entomologo è il voyeur per eccellenza – che con lo sguardo spia e classifica tutti i viventi prediligendo la vita immobilizzata e catturata per sempre (il coleottero nella teca, le fotografie erotiche) alla loro immagine vivente (comunque presente, nell’atto ad esempio di spiare le coppie al parco) –, il sicario è il suo passato: descritto per tramite dei suoi ricordi (più o meno traumatici e sempre sconnessi), porta avanti gesti meccanici e inspiegabili, il cui fine non ci è mai svelato. Entrambe sono, comunque, figure della separazione dalla vita – una contemplativa, l’altra attiva –, portatrici di un vuoto di senso che le rende integralmente estranee al mondo. Questo nulla di senso non è personale o esistenziale, né per questo vera e propria assenza: è, piuttosto, «vuoto» che riempie e che struttura il rapporto a un mondo fattosi sempre e comunque altro – ostile, da distruggere, da contemplare.
Entrambe le «persone» vivono l’illusione di essere soggetto, e il «romanzo» mira a mostrare come questa illusione si traduca di fatto nella più totale reificazione. L’entomologo, dopo aver a lungo pedinato, è (o immagina di essere nel delirio?) oggetto di pedinamento da parte della bambina sulla quale sfogherà le sue ossessioni di possesso; il sicario, invece, soccombe alla stessa violenza di cui si è macchiato forse anche a causa di quell’«attardarsi» per paura di essere stato fotografato – sperimentando dunque una condizione, quella di oggetto, alla quale – in virtù del suo esistenziale inserimento in un complesso di azioni volte a un fine ma senza apparente significato – pensava forse di essere sottratto da sempre e per sempre.
Allo stesso modo, se la «curiosità» della bambina – attributo non innocente di un’infanzia tuttavia ancora non intaccata – si scontra con l’aperto voyeurismo della «persona B», il rapporto tra storia e presente perviene al suo punto di fuga nell’istante in cui il proiettile del sicario manca il bersaglio; in entrambi i casi, a entrare in gioco è la fissazione della vita e il suo pretendere da tutti, anche da chi ne è strumento attivo o contemplativo, il proprio tributo. Nell’Epilogo,alcuna specificazione interviene a discrimine delle due «persone» se non un identico «terrore»: quello del linciaggio.
Nonostante i molti spazi aperti, va osservata la tendenza ad ambientare le varie scene in luoghi per lo più chiusi o che rimandano alla prigionia, alla detenzione, alla conservazione o alla cristallizzazione: zoo, teche e bacheche entomologiche, musei, scaffali di fotografie. Ed è, a ben vedere, la medesima tendenza a «fissare» quanto più possibile nella sostanza poetica il contenuto tanto dell’immagine quanto del suo essere trattenuta che si riverbera anche a un livello più strettamente metrico-prosodico. Lo stile di Cesarano volge verso quello che si potrebbe definire la pura evocazione dei realia per tramite di una lingua che si disarticola, si agglutina, si risemantizza continuamente nel suo protendersi verso il puro verbo o il puro nome – vero e proprio aut-aut sul quale Cesarano andrà, d’ora in avanti, consegnando la sua esperienza al tentativo di «verbalizzare» la separazione della vita e di «nominare» la possibilità di esprimerla altrimenti. E, se Il sicario, l’entomologo descrive la condizione materiale di separazione dalla vita, l’ultima speranza di trovare una lingua che sappia esprimerla senza separarsene viene invece raccontata in Ghigo vuole fare un film. Raccontata due volte, come vedremo: nel film «militante» che tra il ’68 e il ’69 Ghigo vuole girare, e nel «romanzo» che ne racconta fondamentalmente lo scacco.
3. Ghigo vuole fare un film
a)
o il reale come lingua
in debito di rivoluzione, o della lingua
come il debito, l’espropriazione. [17]
È questo l’aut-aut che, sin dall’incipit, Cesarano sembra rivolgere tanto alla poesia quanto a se stesso come poeta. L’enunciazione del progetto propriamente politico e, insieme, della dichiarazione di scacco contribuiscono ad alimentare la sensazione di assistere a quello che, per dirla ancora con Raboni, è «l’ora affascinante e sinistra della non-speranza» [18]. Sul piano dell’espressione poetica, Ghigo è di fatto l’ultimo tentativo di cercare tra il linguaggio poetico e la realtà storica un rapporto che non abbia mediazione: l’enorme dispiegamento di citazioni (tra cui spicca la «torre grattacielo», simbolo dell’irrealtà trionfante, del «pertinente nulla che autoprolifera in quantità»in omaggio a Luciano Bianciardi, dedicatario del poema)[19] e riferimenti, tanto a fatti di cronaca (i morti di Avola, la strage di Battipaglia) che a un preciso contesto (il periodo di lotte compreso tra il ’68 e il ’69), contribuiscono a ricreare attorno al poema l’immagine di una realtà che attende di esprimersi nel suo movimento organico, che attende di insorgere o meglio di emergere (o che sta già insorgendo ed emergendo) per rompere le catene del dominio reale del capitale. La ‘trama’ di questo «romanzo» è enunciata a Cesarano stesso nella prima delle Note che avrebbero dovuto accompagnare, su «Paragone», la pubblicazione:
a) Ghigo e il tema del film: il riferimento è a un personaggio reale, e al film «militante» che fra il ’68 e il ’69 egli intendeva realizzare. Ma nel «romanzo» il pretesto assume altre implicazioni, che spero si evidenzino da sé; come il film diviene il racconto, mentre il racconto entra nel film. L’impianto dell’intiero scritto mima quello di una sceneggiatura. [20]
Anche in questo caso, lasciando emergere dall’esperienza vissuta i connotati minimi dell’«impianto» narrativo, Cesarano sembra operare nella direzione del «romanzo trovato». L’espressione è, ancora una volta, di Raboni – capace già nel 1966 di vaticinare la vocazione di Cesarano all’«illuminazione a posteriori sulla propria volontà» e all’«autodecifrazione critica»[21].
Tuttavia, se in un testo pressoché coevo come Il sicario, l’entomologo Cesarano portava in scena due «persone» per tramite di una lingua (de)strutturata sulla base di una sceneggiatura, l’esempio di Ghigo è invece quello di una lingua biforcata tra poeta e personaggio, tra espressione e mimesi cinematografica-giornalistica-colloquiale, tra rappresentazione filmica per tramite della lingua e riflessione sull’operazione linguistica stessa: come si fa a scrivere in termini non speculativi?
Questo quesito, vero tormento generazionale, altro non è se non la riproposizione di quella ricerca di un linguaggio capace di esprimere una vita abolita che resta presente nonostante la griglia linguistica che contribuisce a imprigionarla; e, in definitiva, la tensione in seno a una lingua che vuole aderire completamente a una realtà che sta esplodendo (e nella quale sembra poter affiorare la vita), mentre tenta di portare a conclusione «l’operazione» di raccontarla, questa vita. Questo ultimo tentativo, a ben vedere, è doppio – se il romanzo in versi è la storia di un progetto di film “militante”, e i linguaggi che rincorrono la realtà sono dunque due. Da subito, Cesarano ne esplicita il rovescio: se l’«operazione» non si può portare a termine, la lingua resta strumento di scissione dal movimento della vita, prima alienazione dell’uomo da se stesso e dal suo senso, gioco di specchi e catena infinita di rimandi senza un termine, di vuoti senza pieno. Come si legge, poco più avanti, nella sezione b):
l’universo prodotto è un latente
discorso totale, l’agglomerato di codici il niente
sistematico, il ferreo irreale [22]
Già nelle prime delle 19 sezioni che compongono il poemetto si avverte l’impellente esigenza (quasi rivolta a se stesso, come un’indicazione di «sceneggiatura») di forzare quanto più possibile la versificazione contro la gerarchia postulata dal predicato. Il verbo – macchina ordinatrice della produzione, che crea le cose nel momento in cui le nomina e ne postula la gerarchia – è quanto in definitiva va distrutto; e i versi recano i segni di questa battaglia, se solo se ne osserva più da vicino la forma. Talora – come nell’estratto appena citato – il predicato per eccellenza viene utilizzato per rimarcare la condizione di «essenza» dell’«universo prodotto», permettendo ai versi che chiudono la sezione di svilupparsi senza ulteriori specificazioni verbali. Talaltra, la tendenza alla nominalizzazione del dettato va invece intesa come opposizione a ogni determinazione, resistenza alla necessità di un senso e tentativo di ripristinare la natura sorgiva delle cose, portatrici di un senso non separato dal movimento della vita. Ma Cesarano opera anche in direzione di un maggiore approfondimento di questo rapporto; come quando, ad esempio, decide di esporre il verbo in posizione forte:
e/2)
Immane specchio, alterità che ti tiene.
Immane fallo, corporeità che ti scorpora.
Immane gabbia, verbo che t’ammutolisce.
Simbolo, Monumento: Niente in cui svanisci.
i)
Mondi di tutto il Proletario unitevi, non
avete che da concatenare le vostre perdite (ribalta
vecchio ribalta i predicati i genitivi brucia
ragazzo brucia il sostantivo,
annichilisci il Verbo!). Sarà che siamo a zero
con questa maledetta
politica che ti scheda a vista d’occhio.
i/2)
È.
Tutto quello che fai.
È la chiave del tempo.
È la realtà.
Della gente che sa.
Della gente che vive.
Tempo di cocacola. [23]
Ghigo racconta lo scacco, la sconfitta, perché il film non si farà, anche se si fa il poema (per raccontare il fallimento del film). Non si sa nemmeno se il reale attenda una lingua; questa lingua non sembra essere, comunque, quella della poesia. La consapevolezza, comunque, è il «dispiegato mancare» di qualcosa, la certezza che non sarà attraverso l’arte che passerà un processo rivoluzionario. Tutto questo è ben riassunto in uno dei dialoghi tra Ghigo e Stefano, suo compagno e aiutante in quest’impresa:
h)
«Ma secondo te è proprio il caso di fare un film?»
Stefano ride duro nel fuoco (è fotografare)
«Se me lo domandi ti dirò di no, se fai che si faccia
mi darò anch’io da fare, in assenza dell’altro
che da un bel pezzo mi piacerebbe essere a fare,
poiché è questo già l’altro nel dispiegato mancare»
f)
Solo una provvisoria scaletta.
Ho paura nessuno darà soldi,
per chi vuoi faccia gioco questa storia
che la storia mette fuori gioco. [24]
La Storia (ovvero il sistema organizzato di produzione e riproduzione) tende a espellere la storia raccontata – quella della vita che emerge. Al tempo stesso Ghigo vorrebbe raccontare una storia che aspira a farla finita proprio con il sistema della Storia. In entrambi i casi, disperazione o speranza, la domanda resta: perché raccontarla?
Tutto il poema oscilla tra speranza e sensazione del fallimento, certezza sensibile del venire all’essere di una volontà di vita e costante minaccia che quest’apertura possibile si richiuda. Forse da questo nasce l’impellenza del racconto. L’evidenza che il “film” non sarà cosa e nemmeno linguaggio fa sì che Cesarano rivolga lo sguardo agli eventi futuri – che saranno opera della specie – e in essi veda la sostanza reale che, nel suo manifestarsi, si sostituirà a una tensione al racconto ancora prigioniera di quel sistema di produzione di senso alienato. Ma la certezza di una comunità umana latente che preme per spezzare le proprie catene non è abbastanza per scommettere sulla durata di questa insurrezione. La separazione sarà abolita per un istante o per sempre?
o)
Non si sa dove sia finito Ghigo.
Trafficava tra qui e Roma per finanziamenti permessi.
Si dice che Stefano sia stato incarcerato
oppure è una spia della polizia, fa lo stesso.
Se il film verrà fatto in qualche modo lo si vedrà.
Anche il discorso che Stefano voleva fatto:
nel film non poteva entrare per questioni materiali
o tecniche di capienza di incompatibilità strumentale,
ma appunto non essendo cosa di mero linguaggio
non essendo cosa non finendo nel linguaggio
sarà intanto la piega che eventi prenderanno
a mano a mano che flash si faranno
con fuochi accesi per collera da persone separate
nel limpido degli incendi ritrovate
per un istante intiere
con una strangolante rabbia
voglia di vivere voglia di non morire
molto banalmente così, siccome è così banale
voler vivere voler non morire.
Per un istante intiere nei limpidi incendi.
O per sempre: dipenderà dalla qualità,
la qualità che duri nella luce
là dove sbianchiranno ultimi film. [25]
4. Pastorale
Nonostante non faccia parte dei Romanzi naturali prospettati da Cesarano (alla cui analisi, anzi, manca in questa sede il primo dei tre, ossia I centauri), Pastorale viene accluso al volume quale «seconda sezione»: Giovanni Raboni reputa infatti importante ripristinare la lezione originale di un poemetto che, nella sua edizione a stampa all’interno di La tartaruga di Jastov, era stato pesantemente censurato dalla casa editrice Mondadori.
Pastorale è un poema d’amore. Ma bisogna sempre tenere presente che ruolo giochi l’amore, in qualsiasi forma, nel pensiero di Cesarano. Il tema della passione è affrontato in particolare in Manuale di sopravvivenza ma anche questo passo tratto dalla Critica è utile per avvicinare quest’altro “romanzo” e il suo raccontare lo scacco, il fallimento dell’operazione amorosa.
La concentrazione del desiderio sulla icone del partner è a sua volta una restaurazione riduttiva del desiderio di comunione organica con la totalità dell’Altro organico, con l’organicità universale.
Questa restaurazione en miniature, nella sfera genitale, di un modo di comunicazione originariamente esteso a tutto l’esserci corporeo – a tutta la vita, dalla parte del soggetto, e alla totalità dell’universo organico, dalla parte dell’oggetto – è già il prodotto di un’economia, è il persistere della «vita» lavorata, dell’essenza primaria della vita come esserci organico, ma ridotto a giacimento, e per processo d’estrazione evidenziata come materia prima del valore «oro», preziosità essenziale, matrice della produzione e sua «quantità di qualità referenziale» (tallone aureo, appunto). [26]
L’amore appare come traccia, residuo o nostalgia di una separazione antecedente, di un amore antecedente che riguarda la specie e il movimento organico della vita. Una tensione all’unione di cui al tempo presente sembra sopravvivere solo il suo residuo, l’erotismo della coppia. È un amore imprigionato, compresso nella produzione di icone-immagini, perimetrato da un contratto di scambio. Anche all’interno di questa gabbia, tuttavia, cova «la profonda, seppellita competenza di ciò che l’essere vorrebbe essere se gli fosse consentito di manifestarsi scopertamente e per intiero […]. Ciò che si mostra in questi momenti è la prepotente denudata rivendicazione della vita come valore in quanto “uso” (espressione, manifestazione) di se medesima, contro ogni valorizzazione e contro ogni accumulazione»[27]. Il poema è diviso in due sezioni: Due – il cui argomento è lo scacco della coppia –, e Altri, che mette in scena una serie di vuoti erotici di varia natura. Due si apre così:
Fermo qui vicinissimo
amandoti con molto mio,
mentre, tuo, tutto il tuo,
– ferma qui vicinissima –
diminuire, rimpicciolirti,
con strazio non so (piccolo?)
mi sgorga per te via. [28]
L’amore gira a vuoto, in una confusione di aggettivi possessivi. Sotto il dominio reale del capitale la passione rientra ancora nel possesso, e al cuore del possesso c’è il vuoto. Gli amanti sono vicinissimi l’uno all’altra, ma l’altra diminuisce, si rimpicciolisce, e sfugge. Uno ama, ma ama con molto mio, quindi solo con se stesso, e l’altro risponde con il suo. Non c’è incontro:
«Come tutto che è secondo natura
e non può ferire»
ma secondo natura feriti sediamo
ammutoliti tenendoci per gli occhi con sorrisi (e disarmato
il dancing nudo di paglie ammainate
padiglione deserto che mi fa vedere
quella grande capanna di Lévi-Strauss
ma da secoli lasciata e ivi)
suona
nostra colonna sonora:
«Uno, due:
Ah!»
(quest’ultimo giuro un lamento
di medio tono
s’accorda così con noi)
«uno, due: Ah! »
stereofonica
voce di sentimento, prova
«Prova, uno due ah»,
accordata, di nessun senso.
Secondo natura feriti, perché la natura alienata è separazione o falsa unione. Non perché l’amore tra i due non ci sia, ma perché manca il contatto profondo, il contatto di specie irreplicabile per gli individui isolati. E la colonna sonora di questa scena di quotidiana mancanza è composta dai suoni disarticolati e privi di senso delle prove foniche di un locale. «Uno, due»: la coppia, fosse pure sinceramente accordata, resta comunque priva di senso, incapace di superare il proprio stesso vuoto.
Con educata e toscana voce e per eufemismi
dici la tua imperfezione.
Dici dei due mariti dici dei genitori
Mi spaccherei le mani per passarti
un grano verosimile d’amore.
Ma l’armoniosa cosa che sopra la tovaglia
(e in una sua intimità con l’aria buia
dove splende) risplende: l’armoniosa
testa, l’armonioso viso – che mi commuove
e mi angustia e che mi frena
nella bocca il più delle parole – troppo
deboli, o troppo, ancora, intense
d’un mio dentro di me che quanto a me t’include
ma quanto al tuo sentirti qui di fronte
e al mio fissarti e nominarti altra
da me, esclusa, e con tutta la tua
vita – ecco la fitta
illogica che addolora i miei occhi:
il non averti fatta
io, non averti io generata come questa cosa
amabilmente intima dell’aria
buia e dei suoi suoni, dei quali, remissivo
patisco d’essere fin sulla pelle vestito e fino
alla pelle dentro nudo
in un gelo lampante, irrefutabile [29]
Un grano verosimile è il desiderio di una reale comunione di vita, che comunque persiste anche all’interno di un rapporto degradato (degradato come tutti i rapporti erotici in questo presente). Le parole restano troppo deboli o troppo intense, in ogni caso sempre al di là o al di qua della comunione, in uno scacco che ricorda da vicino quello già visto della poesia. L’interiorità – che resta proprietà privata – racchiude, sì, l’altro, ma sempre come altro, e dunque come oggetto separato. Da qui allora la fitta illogica, in cui si mescolano tanto desiderio di fusione quanto brama di possesso (come è inevitabile quando restano separati soggetto o oggetto). Questa cosa amabilmente intima dell’aria buia e dei suoi suoni è una traccia di passione che tuttavia si perde, o meglio non riesce mai ad arrivare alla pienezza. E se di questo amore si è al tempo stesso vestiti e nudi, quello che rimane però un gelo – un’assenza – alla quale non si sfugge. Due è il romanzo di una coppia e quasi un’iniziazione amorosa al contrario, la scoperta nel rapporto di un’impossibilità fondamentale a toccare l’anima dell’altro. I protagonisti sono costretti a misurarsi con una distanza profonda, percorsa da gesti che invano cercano di colmarla.
Nei versi che aprono la seconda sezione, Altri, il poeta torna voyeur, ma questa volta per osservare la meccanicità e l’assenza. Non sembra quasi esserci disperazione quanto calma, un’atmosfera ovattata in cui l’atto sessuale si trasforma in uno scavo nel nulla, che va a perdersi in vuoto – lo stesso del poeta che guarda – di cui la donna coinvolta nell’amplesso sembra avere, nel suo mancare a se stessa, una sorta di intuizione.
Questi occhi che guardano in su
Senza cercare niente sono gli occhi di lei
che tranquilla
la schiena solida puntellata al tronco dell’albero,
nella destra pendente la borsetta,
la gonna rimboccata e dai fianchi potenti
abbassati fino a metà coscia gli slip,
guarda serenamente in su.
Flesse
le ginocchia tremanti e stornato
il capo a spiare a destra
e a sinistra lui si scuote arcuato
caninamente, nel ventre
di lei scivola continuamente,
si corregge, spia, tribola, picchia
in lei vuota, accelera, le ginocchia
fino alla fine reggenti.
Né spenti
né accesi, miti gli occhi di lei guardano
al vuoto dove io mi trovo, piamente. [30]
Uomini e donne sembrano restare veri solo nel dolore – o nostalgia – della vita perduta; l’amore però, è inguaribile, speranza sempre riposta nell’insorgere della vita, necessaria, forse, a scoprirsi fatti di tanto niente. La stessa scissione, lo stesso commiato dalla letteratura è allora un commiato dall’amore. In cui resta la medesima tensione a cercare di realizzare nell’amore «privato» (pur riconosciuto come mezzo di separazione, esattamente come la lingua) un impossibile contatto privo di mediazione: uno scacco sempre ripetuto, ribadito nell’Epitaffio che conclude il poemetto:
Gli altri che t’amano e io
– «è finita, finita, finita» –
gli altri che t’amano e tu e io
giustamente per sempre feroci,
noi che ci perdiamo sempre
apparendoci in lunghi corridoi,
noi siamo – tu bene della terra
inguaribile e noi di tanto niente
gli eroi, vivi le anime del niente –
siamo noi, gli altri che t’amano e io
– «così finita finita finita» –
i morti della vita, e tu la tersa
faccia, che ci trattiene veri di dolore,
della sorte, della vita che è persa,
ultimo crampo di inguaribile amore. [31]
[1] A. Banti, Recensione a A. Benedetti L’esplosione, «Paragone», 224, 1967, p. 130.
[2] F. Fortini, La guerra a Milano, in Sere in Valdossola (1963), Venezia, Marsilio, 1985, p. 32 (27 luglio 1943).
[3] Cfr. L. Lenzini, Cronologia, in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, pp. lxxv-cxxix (in particolare pp. lxxxvi-xcv).
[4] Cfr. G. Izzi, Lopresti, Lucia (Anna Banti), in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. 65 (2005). Curiosamente, ma nemmeno troppo, tutte le notizie relative alle vicende umane della coppia sono contenute nella biografia di Banti, mentre si tacciono in quella di Longhi.
[5] G. Cesarano, Lettera ad Anna Banti del 19 giugno 1974, ora in Romanzi naturali (d’ora in avanti RN), a cura di G. Raboni, p. 111. Il brano Vengo anch’io fa riferimento a Id., I giorni del dissenso, Milano, Mondadori, 1968, p. 99 (1º aprile 1968).
[6] G. Cesarano, Introduzione a un commiato (1974), in RN, p. 113.
[7] G. Cesarano, Lettera ad Anna Banti del 19 giugno 1974, in ivi, p. 111.
[8] G. Raboni, Cesarano, la rivolta del poeta che rinunciò ai versi, 23 dicembre 2000 (https://web.archive.org/web/20151111033236/http://archiviostorico.corriere.it/2000/dicembre/23/Cesarano_rivolta_del_poeta_che_co_0_00122311023.shtml).
[9] G. Cesarano, Critica dell’utopia capitale (d’ora in avanti CUC), Milano, Colibrì, 2003, pp. 53-54.
[10] G. Cesarano, Piero Coppo, Joe Fallisi, Cronaca di un ballo mascherato (1974), Milano, Varani, 1983 (http://www.nelvento.net/pdf/Cronaca-di-un-ballo-mascherato.pdf).
[11] G. Cesarano, lettera a Giovanni Raboni del 9 febbraio 1964, ora in G. Cesarano, G. Raboni, Carteggio 1961-1971 (d’ora in avanti Carteggio), a cura di R. Zucco, «Istmi», 27, 2011, p. 176. In nota, si legge che «la lettera [a Sereni] non è compresa nel plico, ma è chiara la decisione (in seguito superata) di rinunciare alla pubblicazione de La tartaruga di Jastov presso Mondadori».
[12] Cfr. G. Raboni, Il Vietnam di Roversi, in Poesia degli anni Sessanta (d’ora in avanti P60) Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 190.
[13] G. Cesarano, Lettera a Giovanni Raboni del 30 marzo 1964, ora in Carteggio, cit., p. 177.
[14] CUC., p. 16
[15] G. Cesarano, Il sicario, l’entomologo (1968-1969), in RN, pp. 21-69.
[16] Ivi, p. 67.
[17] G. Cesarano, Ghigo vuole fare un film (d’ora in poi Ghigo), in RN, pp. 71-85.
[18] G.Raboni, Il libro di Cesarano, in P60, p. 154.
[19] Cfr. Ghigo, pp. 76-77.
[20] Ghigo, p. 85.
[21] Ivi, p. 152.
[22] Ghigo, p. 74.
[23] Ghigo, pp. 77, 81-82.
[24]Ghigo, pp. 77-78, 80.
[25] Ghigo, p. 84.
[26] CUC, pp. 70-73.
[27] CUC, p.73
[28] Pastorale, in RN, p. 89.
[29] Ivi, pp. 90-91.
[30] Ivi, p. 97.
[31] Ivi, p. 107.