L’IPOTESI DELLA FESTA

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Pubblichiamo con molto piacere questo testo che ci viene inviato e che affronta il tema della festa in rapporto a questi mesi di distanziamento sociale e restrizioni. 

Sorella maggiore della movida selvaggia, la festa indisciplinata è entrata a pieno nella categoria degli spauracchi agitati da stampa e opinione pubblica durante la pandemia, con meno frequenza dei no vax e dei negazionisti ma mantenendo comunque il suo posto nel dibattito mediatico, in particolare in Italia nei giorni dell’ormai famoso “rave di Viterbo”.

Ci prendiamo qualche riga per sottolineare gli aspetti che più ci hanno colpito e qualche elemento con cui non ci troviamo completamente d’accordo.

Fin dall’inizio della pandemia il concetto di “interesse generale”, nel quale erano comprese le giuste preoccupazioni per la situazione medica e sanitaria, ha finito per sovrapporsi completamente all’orizzonte sociale dato. Questo slittamento ha nascosto quanto le posizioni su chiusure e aperture si muovessero nel medesimo ambito, quello della sopravvivenza di un precisa organizzazione e riproduzione della vita. Di conseguenza “proteggere noi stessi o i nostri cari” ha significato di fatto la protezione di questo sistema con annesso il suo concetto di sanità e di benessere. Così si è chiusa la porta a ogni riflessione che potesse pensare in altro modo la salute di una comunità, l’accordo tra le sue differenti esigenze. Irretiti in una selva di norme su cui pesava l’ipoteca del dolore e della paura per il Covid, e con il postulato che ogni decisione era incontestabile perché derivava da indicazioni scientifiche per natura “neutrali”, abbiamo perso di vista la capacità di porre in questione la gestione della vita sotto la pandemia senza scivolare nella negazione o minimizzazione di questa. Qualsiasi comportamento – consapevole o meno, organizzato o meno – che mettesse in questione le regole imposte e il confine tra aspetti della vita superflui e necessari è finito dritto nella categoria della reazione irrazionale o dell’individualismo. 

Da questo punto di vista la “festa” può essere un buon osservatorio. Anche se le si considera momenti marginali della vita collettiva (senza dimenticare che ogni tipo di festa ha i suoi tratti caratteristici e una particolare storia alle spalle, dai rave ai carnevali fino ai festeggiamenti sportivi), di fatto in luoghi e tempi del genere  si manifestano alcune delle urgenze profonde squalificate e falsificate dal governo della pandemia, e che molto spesso anche nel cosiddetto ambito “antagonista” sono state etichettate in modo affrettato e molto semplicista come ribellismo deteriore o consumismo piccoloborghese. Le stesse esigenze che hanno portato di fatto ognuno a divincolarsi in vari modi dalle varie restrizioni nei mesi dell’inverno per coltivare la propria cerchia di affetti (sempre, però, con una sorta di dicotomia tra vizi privati e pubbliche virtù, senza mai porre apertamente il problema di come si potesse affrontare collettivamente la questione.)

Tutto ciò tocca lo sfuggente ambito della “socialità”, in cui si intrecciano libertà individuali astratte e tensioni comuni concrete, l’esercizio della propria facoltà economica e di consumo e la necessità profonda di un contatto. Una faccenda estremamente delicata, per cui ogni contributo che provi a sganciarsi da certe classificazioni facili non può che essere salutare.

Quello che meno ci convince – ma più che una critica è un abbozzo di autocritica – invece, è la visione nella festa, come in qualsiasi altro ambito, di uno spazio di pura anomia positiva, un fuori che si manifesta all’improvviso ed è per questo necessariamente gravido di possibilità. Non solo perché la festa assieme a una gestualità slegata da alcune logiche quotidiane si porta dietro altrettante scorie dell’esistente che conosciamo, e non delle più piccole (basterebbe pensare a tutto ciò che riguarda la sfera della sessualità), ma anche perché pensiamo che di rimbalzo ogni ristrutturazione della vita crei il perimetro di una zona di illegalità che non è affatto la negazione totale dell’ordine vigente quanto semplicemente il suo rovescio necessario.

Non importa che la festa appaia semplicemente senza la pretesa di tracciare una strada o indicare una possibile alternativa. Di fatto anch’essa può essere tranquillamente ricompresa da vari punti di vista nell’enorme complesso di infrastrutture del mondo così come lo conosciamo, e questo va tenuto presente tanto quanto le considerazioni che abbiamo accennato sopra.

Ad ogni modo, crediamo che riflessioni come questa possano aiutare allo sviluppo di una critica di ciò che è stato e, soprattutto, di quello che ci aspetta. Buona lettura.

«[I] passaggi da uno stato a un altro sono godimenti generati dalla mutazione perpetua del corpo. Certo, se qualcuno vi punta un’arma nel buio o se scoprite di avere una speranza di vita limitata, l’alterazione del vostro corpo genera sofferenza. Ciononostante, nessuna gioia esisterebbe senza questa instabilità fondamentale. La condizione dell’erotismo è la vulnerabilità del corpo, che per questo è soggetto alle malattie e destinato alla morte»

(Sabu Kosho et al., “Fukushima et ses invisibile” [trad. mia])

Da quando è iniziata la pandemia  due tipi di posizione si sono contese il dibattito politico sul tema delle strategie di circolazione: i chiusuristi, che  hanno enfatizzato l’importanza delle restrizioni sanitarie e del loro rispetto, e una variegata compagine di aperturisti che sottolineavano l’importanza delle attività economiche, dell’apertura degli esercizi commerciali, ecc. 

Entrambe  le posizioni si muovono all’interno di uno stesso paradigma, quello dell’ottimizzazione statistica della vita. Può sembrare strano accomunare Crisanti a Confindustria, ma in effetti nell’ottica del dibattito politico entrambi si sono riferiti alla sfera sociale come totalità da ottimizzare: se da parte padronale questo linguaggio significa tutelare gli argomenti del profitto, ciò non toglie che anche per i chiusuristi si tratta di preservare certe funzioni sociali, quindi non tanto la vita come potenzialità, ma la sopravvivenza come insieme dei modi in cui oggi la società si sopravvive, cioè si riproduce invariata coi suoi rapporti di potere, oltre le catastrofi che provoca. È fondamentale intendere questa comunione di intenti di fondo, perché ci permette di mettere a fuoco per negazione un altro modo di intendere le vite.

Non sorprende in questo senso che il “capitalista collettivo” (rappresentato per esempio dal Fondo Monetario Internazionale) abbia messo nero su bianco nel World Economic Outlook diffuso nell’ottobre 2020 che i danni peggiori alle economie vengono dai contagi e non dai lockdown e che quindi è ridicolo cercare “un compromesso tra salvare vite umane e sostenere l’economia”. Questa alleanza manifesta tra il linguaggio della Sinistra e il linguaggio del capitalista collettivo prende in contropiede i modi abituali di intendere il conflitto politico. Cosa c’è che non torna? Che cosa significa allora quella sensazione di fondo che ci stiano togliendo degli anni di vita? Che ci stiano rubando il presente? Come mai famiglie incazzate si sono mobilitate per riaprire le scuole? Come mai appena possibile siamo scesi a far festa?

Il dibattito politico sostanzialmente relega questi fatti nella categoria dei comportamenti irrazionali. Non possiamo che adeguarci alla diffusione del Green Pass, ma qualcuno da Sinistra arriverà al massimo, in modo paternalista, a giustificare le fughe in avanti, gli assembramenti illegali, perché insomma “la colpa è del capitalismo”. E giù a proporre un cambiamento strutturale all’organizzazione della salute, una ristrutturazione completa del sistema scolastico, misure che sembrano tanto urgenti quanto è velleitaria la loro richiesta in astratto, perché declamare utopie e speranze che non sono incastonate in pratiche presenti non esprime potenza, ma semmai il suo contrario. E però la declamazione astratta è tutto ciò che è rimasto della Politica dopo quest’anno. Le forme rivendicative classiche sembrano dei giochi formalistici, un modo di semplice autorappresentazione. Dire “vogliamo questo” “pretendiamo quello” non ci dà più nessuna scossa perché ormai ci ha colto un tremendo sospetto: è possibile continuare a pretendere stando dietro uno schermo, o al massimo andare a un presidio e poi tornare a casa, in assoluta solitudine, aggiungere punti esclamativi e radicalità senza fare un bel niente.

D’ora in avanti ci fideremo solo quando i nostri corpi saranno effettivamente in tensione. D’ora in avanti sarà la nostra capacità d’azione a dover sconfessare la “presunzione di inutilità” che è giustamente caduta sulle forme della Politica.

Ma torniamo alle domande di prima. Perché a volte ci divincoliamo dalle regole pandemiche? Perché la logica della precauzione ci sembra così violenta, specie nel suo prolungamento indefinito? La risposta ovvia è che tutto ciò per cui viviamo, è diventato (dal marzo 2020) indicibile o superfluo, rinviabile. La parzialità di cui siamo fatti, si mostra in una pandemia sotto la luce terrificante di una estraneità a rischio infezione: essendo ciò che siamo, potremmo partecipare a un pericolo non solo per noi stessi, ma anche per altri. Ecco perché esprimere il più banale desiderio viene interpretato nel discorso pubblico solo tramite la categoria di individualismo. Ma non tutto ciò che non si riferisce a una totalità si riferisce a un individuo: piuttosto, le categorie della precauzione e del calcolo del rischio sono ciò che ristabilisce la dicotomia Società-Individuo: quindi non stiamo “proteggendo la sopravvivenza del maggior numero possibile di persone” (locuzione senza senso se non si specifica il modo di sopravvivenza), ma proteggendo la sopravvivenza della Società, delle sue funzioni prestabilite, dell’assetto del mondo messo in crisi dalla pandemia.

L’impellenza emotiva però ci dice che il rischio di individualismo è reale e non vorremmo correrlo: la paura di infettarci o di infettare qualcuno di caro è un’esperienza percettiva molto concreta. Dove tracciare quindi la soglia? Fino a che punto “rischiare”? Si può fare del rischio calcolato – e quindi calcolato soggettivamente, rispetto a una propria scala di priorità soggettiva – un argomento di discussione? Ecco che ritorna il sospetto: pur odiato e disprezzato, forse il capitalista collettivo ci serve, perché ci ha messo in una posizione di dipendere da lui, perché organizza la salute e il monitoraggio del virus, e dunque può anche dettare delle necessità inaggirabili. Nella grande differenza tra un ricatto e un interesse comune, individuiamo una soglia: il capitalista collettivo ha organizzato i saperi medici in modo da tagliare quei legami di prossimità che permetterebbero di organizzare in altro modo le comunità, su scale più ridotte, oppure di definire diversamente una salute di comunità, una salute non sempre quantificabile, una salute per esempio che includesse anche il tema del benessere psicologico e della felicità svincolata dal benessere economico. Questo però non c’entra niente con la necessità di difendere l’organizzazione sociale.  Non c’è una totalità buona da difendere, ma semmai bisogna recuperare la capacità di definirsi oltre i discorsi totalizzanti della medicina, del lavoro, dell’organizzazione economica urbana. Come farlo? Distinguere chi ci ricatta da un alleato è un buon inizio.

Nell’idea di un orizzonte sociale da difendere (“anche a costo di allearsi con il capitalista collettivo”) risuona l’idea di un interesse generale, ma la peculiarità della pandemia di covid-19 è che questo interesse generale si esprime in forme non-politiche/pre-politiche, in forme tecniche: la medicina appunto, l’organizzazione logistica delle città, l’essenzialità di alcune funzioni sociali. Se storicamente la retorica dell’interesse generale veniva rotta dall’azione partigiana “di classe”, resta irrisolta la questione di come rompere una sintassi dell’interesse generale, che oggi è innestata nei meccanismi basilari di funzionamento delle metropoli, nei linguaggi con cui diamo senso a ciò che avviene.

Faccio l’ipotesi che alcuni fenomeni a cui assistiamo siano espressione di contraddizioni che attraversano  questa sintassi . Due esempi:

– il complottismo parte dalla percezione di un potere che struttura le vite, un potere che persiste anche se il linguaggio di riferimento è tecnico e asettico. Rimanendo dentro questo vocabolario, i sillogismi scientifici e logistici non possono essere messi davvero in dubbio, quindi ciò che viene messa in dubbio è la verità delle premesse. Esempio: se la risposta al virus prevede la riduzione delle libertà “superflue”, ciò che viene messa in dubbio non è la definizione di “superfluo” (e di “necessità”), ma l’esistenza del virus. Sarebbe superficiale trattare questo comportamento come un “errore” o una “cosa stupida”: la persistenza simbolica di certi concetti (necessario, superfluo, logico, razionale, ecc.) è mantenuta da dispositivi che strutturano in profondità la sfera del politico (i media, la scuola, il lavoro).

– l’ipocondria parte dal tentativo di cancellare il rischio. Indichiamo con non-rischio un momento ipotetico continuamente approssimabile (ma mai raggiunto) dove viene annullato lo spazio delle eventualità imprevedibili (e dunque potenzialmente rischiose). La proposta politica governamentale oggi vive sempre dentro un’aspirazione al non-rischio.

Fin dalla definizione, il non-rischio è intrinsecamente irraggiungibile, e per questo motivo le forme della governance si trovano sempre a fare management del rischio, anche quando utilizzano retoriche della sicurezza. La constatazione del fatto che il rischio non è mai 0, e che quindi “si può fare di più”, ingenera a volte l’assunzione personale alla continua migliorabilità. Se da una parte c’è una grande contraddizione (si parla di approssimare un ipotetico rischio 0 mai osservato), è interessante il fatto che non esista mediazione possibile tra ipocondria e apertura al rischio.

Che complottismo e ipocondria sembrino entrambi fenomeni “assurdi”, stupidi o irrazionali, non è un caso: trattandosi di casi limite della sintassi egemone, queste due tendenze torcono la razionalità e si proiettano “fuori dal mondo”, aspirano cioè a uscire dal mondo così com’è senza riuscirci. Guardando a questi due esempi (ma non solo) vediamo in un certo senso il limite del linguaggio che sappiamo maneggiare, e abbiamo bisogno di ipotizzare un fuori ancora innominato.

Cresce il numero di coloro

che dissiperanno ogni debito

in una festa sontuosa

(G. Cesarano, “Ghigo vuole fare un film”)

Queste parole sono state scritte sul finire del teknival Bordell23, il rave che si è svolto nelle campagne toscane vicino a Tavolaia, prima che lo Space Travel in provincia di Viterbo balzasse agli onori delle cronache nazionali, ridefinendo lo spazio della festa nelle menti di tutti. Come è stato da più parti sottolineato, la ridda di indignazione e notizie fasulle che hanno circondato questo ultimo teknival si spiega con la ricerca di un nemico, un punto di fissazione della colpa: nella successione di ingiunzioni stringenti e valvole di sfogo, il rave costituisce un’ipotesi di esternità inaccettabile, a differenza del divertimento dentro i limiti regolati della legge, del consumo di socialità che si svolge sulle riviere o negli stadi. Senza nessun moralismo contro chi esulta per gli europei di calcio o va al mare o a ballare in luoghi affollati, è chiaro però che le violazioni della razionalità pandemica vengono concesse se dentro il perimetro di un evento controllato, e proprio attorno agli eventi commerciali (sportivi in particolare) si costruisce il tentativo dei governi di ricomporre i bisogni irrazionali e la logica sanitaria.

I teknival invece hanno reso visibile la possibilità di una rottura indefinitamente prolungata, hanno messo in luce quanto della forza della Legge dipenda dall’adesione di massa, e hanno quindi addensato su di sé il rancore e la paura di chi ha fatto del “sociale pandemico”, di un’ecologia del controllo, l’unica forma di vita accettabile. Senza aspettarsi che i teknival rappresentino una rivendicazione o una forma di vita, i pensieri che provo a gettare su queste aperture festive sono prima di tutto un’esperienza di fuga dalla regolazione logica delle emozioni e dello sguardo a cui mi sento quotidianamente sottoposto.

La mia ipotesi guarda alla festa, a partire dal fatto che dei momenti festivi hanno segnato l’uscita dalla seconda-terza ondata in tutta Europa. La festa è un momento in cui la grammatica dell’interesse generale e l’adesione dei corpi a una razionalità efficientista vengono messe  in dubbio, proprio perché nella festa i gesti e la loro giustificazione logica-razionale si separano. Nella festa si afferma un’altra dimensione delle relazioni, che anticipa i poli (cioè gli individui) in relazione e può cambiare la sintassi del discorso a cui siamo abituati proprio  modificandone alcuni dei presupposti enunciativi più basilari. In una festa lo sguardo non è mai sui singoli, la massa non è una somma e la dimensione individuale viene (almeno un po’) messa da parte.

Quello che ho appena descritto non è un fenomeno eccezionale che esiste solo nella festa.   Al contrario è come se il momento festivo ci regalasse uno squarcio di verità oltre le falsificazioni dell’informazione mediatica: in una società il numero e il modo dei contatti interpersonali dipende sempre dalla topologia della circolazione, dall’organizzazione del lavoro, da una realtà che ci precede. Anche se ognuno di noi rispetta le consegne sanitarie alla lettera non saremo mai immuni da questi fatti generali, fatti che sono determinati da linee di fondo, da processi sociali carsici, dal modo in cui il nostro mondo è organizzato. Insomma, c’è una realtà pre-individuale, ci sono delle forze che cercano di perpetuarla e riprodurla mantenendo il suo assetto di poteri, e ci sono anche delle vie di fuga, che non prescindono però da questa realtà. Nella festa questo momento pre-individuale che partecipa in modo così decisivo a definire il nostro spazio vitale, ci risulta anche immediatamente visibile. È proprio questo momento che, per quanto sia materiale e decisivo, nella sfera Politica rimane invece innominato.

A partire dalla seconda ondata, le feste e i momenti collettivi si sono moltiplicati: le commemorazioni per la morte di Maradona, il rave di capodanno in Bretagna, il carnevale di Marsiglia, la Boum di Bruxelles, i molti rave nelle campagne nordeuropee ma anche italiane sono solo gli esempi più lampanti di una dinamica che non ammette mediazione e nemmeno dialettica: durante queste aggregazioni si esprimono bisogni e desideri che semplicemente non sono commisurabili con l’ingiunzione al distanziamento sociale. In un rave come in una commemorazione cultuale c’è qualcosa di non quantificabile che impegna chi partecipa, qualcosa che assume senso solo nel qui e ora, e quindi non è rinviabile. Il distanziamento sociale invece esprime un equivalente generale, trova nell’emergenza una totalità a cui non ci si può sottrarre, e rinvia ogni interesse particolare.

Nelle aggregazioni collettive si consuma un’incompatibilità esistenziale, e nella misura in cui nessuno di noi ha potuto (nemmeno volendolo, nemmeno nei momenti più duri dei lockdown) rinunciare a forme aggregative almeno in parte “insicure”, la totalità sanificata si è svelata per l’inganno che è, perché ha messo sotto al tappeto – cioè nascosto alla rappresentazione – tutte le forze particolari che la animano.

Ci si potrebbe dire che la presenza di un’urgenza dell’incontro, non ci mette al sicuro contro il suo recupero dentro la gabbia della valorizzazione economica, per esempio nel circuito del consumo-di-socialità, un circuito che è stato riattivato il prima possibile proprio per la sua funzione normativa oltre che per quella economica. Rispondiamo a questo in due modi: da una parte la presenza di dispositivi che catturino la socialità non cambia il fatto che la principale tendenza dei governi è quella di ridefinire una socialità più rarefatta, controllata, selezionata e normalizzata; ma soprattutto, c’è una incompatibilità di fondo che sembra persistere e che ha portato al moltiplicarsi di situazioni festive spontaneamente refrattarie alla cattura consumista. I rave non autorizzati si moltiplicano, sono le piazze a riempirsi nelle città universitarie italiane, debordano i dehors dei locali, a Bruxelles sono centinaia i giovani che hanno deciso di scontrarsi con la polizia per il diritto a un pomeriggio al parco, al rave di Redon, nelle campagne fuori Nantes, la polizia intenzionata a sgomberare ha dovuto sopportare 7 ore di scontri, al Teknival nelle campagne di Viterbo la polizia ha dovuto ammettere la propria impotenza di fronte a decine di migliaia di persone intenzionate a ballare.

Non si tratta comunque di fare della festa  un elemento di rivendicazione o di rappresentazione, l’espressione di un concetto separato. La festa è una situazione dove l’insensatezza delle ingiunzioni sociali riesce a sospendersi, uno spazio dove il rischio torna a essere  contrattabile. Nessuna narrazione riesce a riempire il gap tra desiderabilità immediata, e necessità sociale di rinviare ogni desiderio di contatto, di promiscuità estesa. La rappresentazione del mondo si frammenta, e i modi di definire le condizioni minime di convivenza si  rivelano attraversati da scelte,  e dunque anche dalla possibilità di essere ripensati. Questo evento mette davanti agli occhi di tanti una (rischiosa) possibilità d’azione, e quindi innesca uno smottamento esistenziale di cui abbiamo visto solo i primi istanti.

Epilogo sul Green Pass

La seconda parte della seconda estate pandemica ha visto i governi dell’occidente (in particolare quello francese e quello italiano) proclamare una nuova urgenza, assieme alla sua soluzione: l’insufficienza delle campagne vaccinali ha portato all’istituzione di un pass sanitario individuale con normative simili in vari paesi europei. Al di là degli obiettivi gestionali immediati a cui è utile tale strumento  (rendere appetibile il nostro paese ai turisti come suggeriva il Corriere a inizio agosto? Creare un caprio espiatorio? Fornire uno strumento di controllo pervasivo? Difficile dare una risposta univoca), il pass sanitario sembra perpetuare una specie di desiderio-di-emergenza, come se ogni strategia governamentale avesse bisogno di mantenere una certa predisposizione psicologica: vengono riprodotte di continuo delle misure presentate come necessarie e razionali, che qualificano come irrazionale e marginalizzabile chi non le vuole applicare. Viene costruito un obbligo in modo che chi lo rispetta si senta libero da ogni colpa, e chi non lo rispetta sia riconoscibile. Un dispositivo-pass è capace quindi non solo di definire una condotta “normale”, ma anche di catturare le condotte divergenti, condannandole alla categorizzazione di marginalità.

La lotta al pass che è emersa in queste settimane – in più paesi europei – non sembra però aderire allo spazio di marginalità che le si vuole ritagliare: in chi critica le ultime misure sanitarie, le posizioni assolutamente complottiste sono sempre meno diffuse, e si fa strada una contraddizione cogente, quella che attraversa ogni cittadino qualunque, che si aspetta qualcosa dallo Stato, si sente titolare di diritti, ma per poter esercitare quei diritti deve aderire esplicitamente a una forma aggressiva di organizzazione sociale, deve essere controllato e controllore. Immaginare le forme di sottrazione a questa nuova socialità panottica, sarà la sfida di ogni mobilitazione “no pass” che cerchi di oltrepassare la rivendicazione di “ritorno alla normalità”.