IL CASO LUCANO: UN’EQUA CONDANNA
Il fatto che un amministratore locale noto a livello nazionale rivendichi in pubblico la superiorità etica della legittimità delle sue azioni a prescindere dalla legalità o meno delle medesime è assolutamente intollerabile per chi sull’astratto principio di legalità costruisce e giustifica il proprio potere.
La sentenza di condanna a 13 anni e 2 mesi pronunciata contro l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano ha creato un coro di polemiche, specie a sinistra, indignate per l’abnormità della pena rispetto alle condotte oggetto di processo, e da una sentenza che raddoppiava le richieste avanzate dall’accusa, già pesantissime. Lo stesso pm titolare dell’inchiesta, che aveva chiesto 7 anni di carcere, si dice “umanamente dispiaciuto” per la condanna finale (bontà sua), ma il tutto ci dice qualcosa sull’indifendibile proporzionalità della pena. In parte ha ragione chi si lancia in impietosi paragoni con altre sentenze di condanna che sembrano restituirci qualcosa su quale sia la bussola morale che guida la magistratura italiana nella sua amministrazione della giustizia.
Vorremmo fare qui una piccola digressione dal tema principale, che può tornare utile come strumento quando ci si trova a commentare e a ragionare su vicende simili.
Nella vita quotidiana è argomento ricorrente, almeno da parte delle persone più relativiste e liberali, il non voler paragonare due comportamenti, due modi di vita, due stili o qualunque altra cosa possa avere un senso nel suo contesto o incontri il gusto e il piacere di chi la fa, senza per forza dover stabilire un rapporto del tipo migliore/peggiore fra due o più oggetti e/o modalità.
Di solito questo genere di discorsi viene fatto per dare un argine razionale all’automatica tendenza umana a giudicare e a stabilire rapporti valoriali con ciò che si vede intorno a sé. Non sappiamo bene quanto convinca intimamente le persone (e noi stessi) questa argomentazione, ma almeno, ricordandoci che esistono altri modi di essere e di stare al mondo, smorziamo la tendenza di fare di noi stessi la pietra angolare di misura di tutto il resto. Ci si ricorda di questo perché la vita è terribilmente complicata, piena di variabili al di fuori del nostro controllo e, se siamo minimamente onesti, in gran parte completamente ignote.
Richiedere a un sistema di potere, qual è l’amministrazione della giustizia, finezze filosofiche volte a valutare le condotte umane è sicuramente troppo, ma non troviamo inutile gettare un po’ di luce su quest’aspetto spesso trascurato. I processi, nella loro essenza, sono infatti determinazioni quantitative di pena rispetto alla valutazione di condotte. Non diversamente da quanto fa un organo di potere politico o economico, usano il mezzo matematico per scomporre la complessità delle condotte e ridurle a un dato numerico che è molto più maneggevole e d’immediata comprensione. Ci rendiamo conto che questa riflessione possa apparire di una banalità assoluta, ma a ben pensare non lo sono le sue implicazioni.
In primo luogo ci dice qualcosa sulla ipersemplificazione che un organo di potere opera sull’inquieto mare dell’essere e che, a ben vedere, è obbligato a operare, pena la sua inefficacia. È bene ricordarsi, almeno di quando in quando, che controllare, valutare, gestire sono sinonimi di semplificare nella realtà concreta dei fatti, specie se lo facciamo tramite numeri.
In secondo luogo ci dice qualcosa riguardo all’enorme quantità di arbitrio che giocoforza chi applica tali numeri possiede. Chi conosce la quotidianità dei processi, specie penali, sa bene quanto poco tempo sia dedicato alla traduzione numerica in anni e mesi di carcere che viene fatta al termine di dibattimenti che magari si sono protratti per decine di udienze. Spesso i giornali riportano le ore spese dall’accusa nel formulare la requisitoria: cinque ore, sei ore, sette ore o magari anche intere giornate passate a parlare delle condotte dell’imputato. La richiesta pena effettiva (che è anche la cosa che interessa di più all’imputato…) viene espletata in una manciata di secondi, giusto il tempo sufficiente a pronunciare le cifre che sembrano opportune all’accusa per interpretare meglio la gravità dell’accaduto. Visti i ventagli di pena abnormi che il codice italiano prevede per i reati si capisce facilmente quale libertà abbiano gli accusatori nel richiedere, e i giudici nell’irrogare, le pene suddette. Un reato semplice come quello di resistenza a pubblico ufficiale ha un ventaglio di 12 anni nei quali collocare la richiesta, quello di rapina ne ha uno di quasi 15. Anche senza conoscere la requisitoria del pubblico ministero che, dispiacendosi umanamente per il malcapitato, ha richiesto per Mimmo Lucano 7 anni di carcere possiamo dire con ampi margini di sicurezza che pur non cambiando una virgola del suo discorso finale di anni ne avrebbe potuti chiedere magari 6 e mezzo, o magari 8… Quando sono scritti su un foglio non sembra cambiare poi molto, ma se ci si trova a doverli vivere in carcere un giorno dopo l’altro la differenza è più che significativa.
A corollario di questa digressione possiamo dire un’ultima cosa. Comparare le sentenze utilizzando come metro della loro severità le pene irrogate non è un automatismo ignorante, o una deriva da chiacchiericcio del bar: al contrario, è formalmente corretto dal punto di vista matematico. Traducendo in numeri le condotte umane l’operazione statistica soggiacente è la trasformazione di variabili qualitative in cardinali discrete, cioè numeri naturali in tutto e per tutto, ai quali possiamo applicare tutte le operazioni aritmetiche che vogliamo.
In forza di questo fatto, e tornando alle vicende del sindaco calabrese, possiamo tranquillamente dire che la giustizia italiana valuta le sue condotte doppiamente gravi (cioè dannose per la società) rispetto alle negligenze di alcuni manager di una multinazionale tedesca che, per ragioni di risparmio, hanno lasciato un impianto senza le dovute manutenzioni facendo sì che bruciassero vivi 7 operai. La stessa magistratura valuta poco più grave l’uccisione del proprio fratello e della propria madre da parte di due minorenni in quel di Novi Ligure. Curiosamente le pene irrogate nel caso dell’ultimo esempio corrispondono perfettamente invece a quelle più gravi date ai manifestanti in occasione del g8 di Genova del 2001… Gli esempi qui abbondano e invitiamo il lettore e la lettrice a cercare i suoi secondo il proprio gusto.

È su simili ragionamenti e comparazioni che il coro dell’indignazione si è levato nei confronti della sentenza calabrese. Ciò non di meno vorremmo provare ad andare un po’ oltre e cercare di capire quale sia l’effettivo cuore della vicenda. Nonostante ci si trovi concordi nella metodologia che porta a fare tali equiparazioni fatichiamo a unirci ad un simile coro di lamentele che sembrano non voler capire cosa abbia portato all’attuale situazione. Le comparazioni fra sentenze sono formalmente corrette (almeno dal punto di vista matematico) e ci danno effettivamente la misura di quali siano gli ordini di priorità dell’attuale sistema di potere, ma a pensarci bene chi fa simili rimostranze versa lacrime di coccodrillo e non comprende quale sia il bene giuridico che tale sentenza mira a proteggere.
Sono state soprattutto le forze di sinistra a scandalizzarsi di questa sentenza ma, e non ci stancheremo mai di ripeterlo, sono proprio quelle stesse forze che hanno legittimato, sostenuto e aumentato negli ultimi 20 anni la potenza di fuoco del corpo sociale che amministra la giustizia. Se da una parte le forze di destra hanno costruito intere campagne elettorali sull’aumento delle pene per i reati predatori tentando di cavalcare il becero populismo della sicurezza, e quelle dei 5 stelle hanno fatto altrettanto sulle fattispecie corruttive, la sinistra ha invece contribuito più di ogni altra forza nel legittimare a prescindere le azioni della magistratura. Slogan quali “Resistere, resistere, resistere”, “Intercettateci tutti!” e “Le sentenze non si commentano, si rispettano” hanno costruito la narrazione politica di cui si fa forte la magistratura, rendendola nei fatti incriminabile. Dopo anni di inchieste che hanno devastato carriere politiche in un po’ tutti gli schieramenti oggi la simpatia per quest’organo è ai minimi storici all’interno della classe politica, ma non è così per la popolazione che bombardata da questo tipo di slogan e da anni di fiction su inquirenti family-friendly fatica a comprendere come la neutralità politica di un simile apparato sia solamente una pia illusione liberale.
Ritoccare tali dissestati equilibri sarà un osso piuttosto duro per la dirigenza politica italiana, che si è accorta molto in ritardo di quale mostro senza freni si sia alimentato nelle procure grazie a decenni di narrativa giustizialista. È assai probabile che assisteremo a uno scambio di colpi bassi fra ognuna delle parti in gioco nel prossimo futuro, stanti i progetti di legge attualmente in atto volti a limitare il potere giudiziario e la facilità con cui si possono alternativamente aprire o chiudere inchieste nei confronti di amministratori locali e nazionali. Detto per inciso, la manifestazione più plateale di questo arbitrio in senso “positivo” si è avuta qualche anno fa a Milano con l’incredibile blandezza con cui la magistratura ha vegliato sulle operazioni di Expo 2015. Una morbidezza che è valsa agli inquirenti sfacciate parole di ringraziamento per la comprensione dell’importanza economica dell’evento per il paese da parte di Renzi durante la cerimonia inaugurale. Non è inutile ricordare questo episodio e non solo per la sua sfacciataggine, ma anche perché il diretto beneficiario di tale mite metro di giudizio è stato proprio il rieletto sindaco di Milano, che si sa ben fare interprete dei bisogni dei grandi gruppi finanziari e immobiliari che stanno rendendo la città una costosa boutique alla moda, ma fa parte anche di una coalizione che fatica a comprendere il dissestato equilibrio di poteri statali che si è venuto a creare.
Chi scrive guarda dall’esterno un simile conflitto, convinto com’è che l’unica reale possibilità di equilibrare dei poteri sia quella di ridurli al minimo, anzi, auspicabilmente sarebbe quella che non ce ne fossero del tutto. Ma viviamo in tempi che sembrano lasciare poco spazio politico alle utopie…
Ad ogni modo, per concludere l’analisi delle vicende calabresi, non possiamo unirci all’indignazione per la flagrante sperequazione fra pena emessa e bene giuridico perché crediamo che il bene giuridico tutelato da questa sentenza non sia tanto espresso dai capi d’imputazione ai quali Lucano ha dovuto rispondere, ma vada letto in filigrana nel suo approccio alle accuse. Lucano ha osato svelare un segreto di pulcinella: le politiche securitarie sull’immigrazione hanno volutamente creato una situazione in cui l’illegalità diventava la norma del procedere amministrativo. Chi lavora concretamente con quella sacca di esclusione e povertà di cui è composta la compagne migrante sa bene che gli illeciti amministrativi sono semplicemente inevitabili. La breve parentesi salviniana come ministro dell’interno non ha fatto che peggiorare una situazione normativa già parossistica ben prima della sua discesa in campo. Stante l’impossibilità di dar seguito al suo “ributtiamoli a mare!”, sia per effettiva impossibilità pratica e un po’ anche per non dover finire un domani di fronte al tribunale dell’Aja, la soluzione all’italiana è stata quella di costringere all’alegalità se non direttamente all’illegalità i soggetti che intendevano fare accoglienza. Conosciamo personalmente svariati esempi più minuti di questo fenomeno: amministratori di campi di accoglienza che hanno usato la propria casa per iscrivere decine di residenze data l’impossibilità di ottenerle per i migranti, carovane che hanno passato frontiere in spregio alle norme europee sulla ricezione dei migranti e molto altro. Le autorità, non dubitiamo, sono pienamente consce di tali situazioni e decidono di non reprimerle finché tali zone di grigio rimangono al di fuori dei radar dell’opinione pubblica.
Il peccato capitale del sindaco di Riace, e qui risiede il bene giuridico che una tale pena voleva tutelare tramite la repressione, è stato quello di pubblicizzare le sue violazioni di una legalità ingiusta e – non pago – di rivendicare il suo operato una volta finito sotto accusa. Il fatto che un amministratore locale noto a livello nazionale rivendichi in pubblico la superiorità etica della legittimità delle sue azioni a prescindere dalla legalità o meno delle medesime è assolutamente intollerabile per chi sull’astratto principio di legalità costruisce e giustifica il proprio potere.
Dire che legittimo è superiore a legale non è solo uno schiaffo per chi comanda proprio in virtù del principio contrario, ma insinua anche il sospetto che legale non equivalga a giusto, e questo corrisponde a una lesa maestà. E inoltre la posizione dell’imputato non permetteva la solita costruzione narrativa mediatica dei pazzi isolati e pericolosi che viene di norma utilizzata in questi contesti; posto che chi solitamente cerca di insinuare questo dubbio fa parte di sparutissimi gruppi contestatari ai quali possano tranquillamente essere applicate le categorie dei violenti rivoluzionari quando non dei terroristi…
In questo senso la condanna di Mimmo Lucano appare perfettamente equilibrata, visto che ciò che la sua condotta danneggiava è molto più di qualche regola amministrativa sulla residenza, l’utilizzo di risorse pubbliche o la celebrazione di falsi matrimoni. È il principio stesso su cui si basa il potere di chi presiede l’astrazione legale e pretende che essa si chiami giustizia.