(STRA)ORDINARIA AMMINISTRAZIONE – Appunti sul Greenpass
Pubblichiamo con molto piacere questo contributo che ci arriva da alcuni amici e ha suscitato con loro una bella discussione, che proviamo brevemente a riassumere qui, a mo’ di nostra introduzione e commento.
Lo scivolamento del modello di governo verso un paradigma amministrativo – che ha, aggiungiamo, oltre alle caratteristiche ben descritte nel testo anche il privilegio di mostrarsi oggettivo, neutro, necessario di fronte a un evento come, ad esempio, la pandemia – si intreccia perfettamente con la situazione di catastrofe permanente (vecchio tema, lo sappiamo, ma è difficile non leggere ciò che accade e probabilmente accadrà in questi termini). Così abbiamo un sistema che si fa amministratore della catastrofe che lui stesso è, per potersi assicurare la propria sopravvivenza, con tutto quel che ne consegue in termini di lento accantonamento di vecchie formazioni quali, ad esempio, il diritto (al quale nessuno di coloro che scrivono è, lo diciamo a scanso di equivoci, particolarmente affezionato).
In quest’ottica il green pass non nasce dal nulla e sicuramente ha dei predecessori in altre forme di selezione, controllo, esclusione. Non si tratta, ovviamente, di un piano pre-ordinato a tavolino da qualche spectre malvagia, ma di una tensione rintracciabile da anni nell’apparato di produzione e riproduzione delle cose. La gestione sanitaria (anch’essa, e già ci era capitato di parlarne, si presenta a senso unico come se il concetto di salute fosse già dato e insindacabile) si sovrappone e si confonde alla gestione sociale, e concorre a creare o rafforzare una popolazione, una falsa comunità tenuta insieme dal rovescio deformato di un’astratta solidarietà, mentre di fatto è costretta a collaborare a una sorta di co-gestione del disastro facendosi guardiana di sé stessa in nome di una sopravvivenza di tutti che in realtà è sopravvivenza di questo modo di vivere.
Il green pass non è un’operazione solamente repressiva nei confronti di un corpo di per sé libero da altri condizionamenti. Perché la comunità fittizia è effettivamente intessuta di quella vita quotidiana che tutti, indistintamente, mirano a riprodurre, e che è parte integrante della stessa catastrofe. Non c’è un potere che agisce da un lato e un popolo che subisce dall’altro, ma un intreccio di volontà di sopravvivere in questo mondo su cui si innestano operazioni come la certificazione verde. E anche se non condividiamo in nessun modo le visioni miopi e stereotipate che liquidano le proteste di questi mesi come sommovimenti individualisti piccolo-borghesi, troviamo innegabile che dentro di esse si trova anche (a questo proposito rimandiamo anche noi al testo di Endnotes pubblicato il mese scorso) la nostalgia per una serie di garanzie e libertà proprie di questo sistema che il capitalismo stesso ora non può o non ha più intenzione di garantire. Il che non è un impurità di fronte alla quale storcere il naso, ma un punto di partenza da comprendere.
Probabilmente, e ce ne siamo resi conto nella discussione, le prospettive cambiano anche a seconda di quanto da vicino o da lontano abbiamo preso parte ai movimenti contro il green pass di questi mesi. Ad ogni modo è quantomai importante continuare lo sforzo per guardare al nostro presente, perché, nella forma o nella sostanza, le innovazioni gestionali e amministrative di questi mesi sono venute per restare, e con esse dovremo tutti scontrarci. Buona lettura.
«Il periodo attuale può rappresentare una sorta di metanoia (una conversione o svolta) delle popolazioni contro tutta la serie di apparati e costumi che non possono più plasmare con successo la nostra specie per farne un animale che non ha altro habitat che il lavoro salariato e il capitale», abbiamo letto su Endnotes [1]. Che questi tentativi di “plasmare” la nostra specie non abbiano successo è un’affermazione discutibile: i dispositivi che tentano di governare sempre un po’ di più la vita di ciascuno si moltiplicano senza sosta, e generano ogni volta meno ostilità. La mole dei dati che emanano da ogni nostro comportamento come fossero feromoni [2] – anche una volta spenti tutti gli apparecchi elettronici, quando camminiamo per le vie della città, nutriamo involontariamente le videocamere di sorveglianza, e i programmi di intelligenza artificiale, che con quelle immagini si esercitano –, e finisce accumulata in enormi data center per essere analizzata dalle macchine di certo non ci toglie il sonno. Il “governo delle vite” avviene infatti attraverso un accurato e quasi impercettibile lavoro di tracciamento, selezione, filtraggio, inclusione ed esclusione, previsione e valorizzazione, che sfugge al nostro stesso controllo. D’altra parte, è chiaro che non ci sia possibilità di vita se non al di fuori di questo “governo” che, facendo della prevenzione dell’incertezza in sé il suo obiettivo, cristallizza il movimento della vita stessa.
Il rapporto al mondo che genera le emergenze prevede anche la loro catastrofica gestione. Si governa, cioè, il caos per mezzo dell’anomia (la deficienza della legge), a cui si apre la via proprio quando si annuncia che è in corso una catastrofe (una situazione eccezionale che richiede la deposizione delle leggi ordinarie). Il green pass ha un lignaggio illustre: è solo l’ultimo di una serie di restrizioni, ideate e sperimentate in occasione della diffusione del virus covid-19 – dal confinamento in casa al coprifuoco –, che a loro volta già si inseriscono nel solco dei dispositivi utilizzati ben prima della pandemia per suddividere e governare il territorio secondo il paradigma dell’emergenza, come le “zone rosse”, i “daspo”, o i controlli massicci, e sempre più arbitrari, della polizia in alcune aree della città. Ad accomunare questi dispositivi e le “norme anti-covid” (e le loro sanzioni), sono non solo gli obiettivi – il governo del territorio attraverso la frammentazione, la catalogazione, la divisione, la modellizzazione –, ma anche la natura: ibrida, amministrativa, poliziesca, in una parola arbitraria. “Perché invece di introdurre il passaporto sanitario, non è stato previsto dalla legge un obbligo vaccinale?”, si chiedono in tanti. Pensare la differenza profonda tra norma e legge – perché le multe in tempo di quarantena avevano come fonte non una legge, ma un decreto amministrativo del governo, e perché il decreto-legge sul passaporto sanitario, introduce di fatto uno strumento di controllo, un dispositivo, e non un divieto o un obbligo – può aiutarci a rispondere a questa domanda. La legge è una formulazione astratta, a cui va ricondotto un caso concreto. Essa prevede una sanzione a posteriori per un comportamento che era stato vietato. Non solo il governo attraverso il diritto prende, per questo, già da sempre in considerazione che una parte della popolazione non rispetterà le leggi, ma le infrazioni gli sono assolutamente necessarie: se le persone non infrangessero la legge, e nessun processo avesse luogo, non ci sarebbero neppure i giudizi – cioè la giurisprudenza – che sono ciò che permette al diritto di evolvere. La norma, invece, è caratterizzata da un’immanenza radicale: se prendiamo il caso specifico del passaporto sanitario, la norma viene in essere solo nel momento del tentativo di accesso a un luogo per il quale è previsto il requisito del possesso del pass, e del conseguente controllo. Questo significa che, senza più bisogno di fare lo sforzo di ricondurre il caso concreto alla formulazione astratta (dimostrazione che richiede, per l’appunto, un processo), la norma si adatta già perfettamente ad ogni situazione, perché è dalla situazione stessa che sgorga. L’altra differenza fondamentale è che, sebbene il diritto possieda la categoria della prevenzione, essa non è mai declinata dalla legge nel senso dell’accesso e del filtraggio preventivo, attraverso cui invece la norma opera: per mezzo del dispositivo che la norma istituisce si può, cioè, intervenire sulla possibilità stessa di tenere un comportamento – che non è neanche più necessario definire come penalmente rilevante, perché a monte del divieto c’è la condizione di possesso del requisito. Una fitta rete di controlli e barriere tende ad azzerare la possibilità stessa di delinquere e di confrontarsi con la legge. Del resto, per una governamentalità che vuole annullare qualunque scarto, accidente, imprevisto, il diritto fa troppo “vecchio mondo”, è troppo lento e rigido, troppo procedurale, e troppo poco predittivo e preventivo. È così che il «modo amministrativo»[3] sta diventando, nella nostra epoca, predominante – dove con “amministrativo” non si vuole indicare solo una divisione interna al diritto, ma un modo che può contrapporsi, in un certo senso, al diritto stesso: in un’amministrazione perfetta, in cui si compisse pienamente il governo di tutti su tutti, non ci sarebbe neanche più bisogno di legge.[4] Per “amministrazione” intendiamo dunque una «struttura pratico-burocratica che opera come un agente collettivo della forza pubblica». Prova dell’affermazione crescente del “modo amministrativo” è la diffusione sempre più ampia, al di fuori dell’apparato poliziesco, della funzione di polizia, che ormai qualunque cittadino può assolvere. Un cameriere che chiede il green pass agli avventori ricopre di fatto il ruolo di agente della forza pubblica, supplendo così alla mancanza di effettivi nella polizia, dato dall’aumento smisurato del numero dei controlli.
Fondendo la disciplina delle multe amministrative e del codice della strada, è stato possibile, durante la pandemia, sanzionare in Italia chi usciva a passeggiare, chi si riuniva, e soprattutto tentare di dissuadere ogni forma di incontro e di organizzazione – dai più spontanei fino agli scioperi sindacali e ai picchetti dei lavoratori. Se la formulazione delle norme anti-covid è contraddistinta dalla vaghezza, l’utilizzo che ne è stato fatto oltrepassa largamente la dissuasione e la sanzione di condotte pericolose dal punto di vista sanitario, per farsi strumento di controllo sociale e territoriale. Un caso su tutti, le multe inviate a casa dei partecipanti ad alcune manifestazioni in tempo di quarantena. In questo caso, si è preferito ricorrere ad una sanzione amministrativa, comminata grazie al ricorso ai mezzi di sorveglianza destinati formalmente al mantenimento dell’ordine pubblico (il materiale video o fotografico registrato dalla Digos), piuttosto che perdersi nelle lungaggini procedurali di un processo per manifestazione non autorizzata, da cui spesso gli imputati risultano peraltro assolti. Una torsione estrema della legge ha, cioè, permesso l’“indagine” (la visione del materiale video o fotografico registrato), senza che alcun tipo di reato fosse contestato. Le ragioni di questa condotta sono evidenti: la sanzione amministrativa snellisce le procedure e permette di evitare le formalità e il dibattimento che il processo penale invece prevede.
La violazione delle norme anti-covid è stata utilizzata anche per sostanziare altre misure di natura amministrativa-preventiva-poliziesca, come l’avviso orale, il foglio di via, la richiesta di sorveglianza. In questo modo, si compie pienamente lo scivolamento dalla pericolosità sanitaria alla pericolosità sociale.[5] Chi non rispetta (forse, dato che le norme sono vaghe e sostanzialmente tutto può rientravi, e non ci sono passaggi formali atti ad appurarlo) le norme anti-covid, crea un pericolo di “diffusione” del contagio (senza che alcun nesso tra le due sia effettivamente valutato e provato), quindi – in sostanza, e ben più importante – è pericoloso socialmente. L’intreccio tra ragioni sanitarie e controllo del territorio, tra repressione e ricorso a divieti amministrativi ed ammende, è manifesto nel caso di Trieste: dopo le proteste contro il passaporto sanitario, il centro della città è diventato una grande zona rossa fino al 31 dicembre (per assicurare le compere natalizie), e sono state annunciate multe salatissime per gli eventuali manifestanti. Che tutti e ciascuno siano un potenziale nemico e che questo giustifichi una serie di misure repressive e di controllo non è una storia nata con la gestione della diffusione del covid-19. Altre “emergenze” l’hanno sperimentata e incentivata, basti pensare alle politiche post-2001, e all’uso della categoria del “terrorismo”.
Chi viola le norme anti-covid è pericoloso per la società: l’assunto è molto netto, e solo leggermente coperto da un discorso pubblico dai toni moralistici – si parla di egoismo, irresponsabilità, indifferenza verso una presunta comunità. Una patina moraleggiante ricopre ancora una volta la gestione della vita e il governo del territorio: il concetto di decoro già veniva a giustificare l’allontanamento delle persone sgradite dalle città, lo sventramento dei quartieri “popolari”, l’installazione di telecamere all’angolo di ogni strada, i TSO. La retorica si è intensificata con l’introduzione del passaporto sanitario: averlo ed esibirlo è un gesto di responsabilità; di più, di altruismo, di presa in carico (di chi? dell’intera popolazione? Sarebbe interessante rifletterci; l’indifferenza totale per chi invece – ma è solo un esempio – è deceduto a causa del vaccino ricade, probabilmente, nel “male necessario” del mondo davanti al quale tutti scrollano le spalle), ma soprattutto la dimostrazione dell’essere e poter essere cittadini. Ancora una volta, dall’inizio della gestione della pandemia, il governo (qualsiasi governo) chiede alla popolazione (che s’illude d’essere “popolo”) “chi ci sta?”, “chi è dentro?”.
Proprio perché la questione di fondo è la gestione del territorio, a cui è funzionale la creazione della categoria di pericolosità sociale, il passaporto sanitario deve essere letto, come dicevamo, sulla scia di altre misure che lo hanno preceduto, come il DASPO [6]. Quando questa misura amministrativa è uscita dai confini dello stadio per essere applicata a tutta la città [7], il DASPO è stato utilizzato per allontanare i senzatetto dalle vetrine del centro per le vacanze natalizie, e l’estate scorsa – la stessa in cui si lavorava all’introduzione del passaporto sanitario – per colpire a Milano persone colpevoli di “ubriachezza e richieste moleste di denaro ai turisti” e i giovani trapper di San Siro [8].
Il DASPO, in maniera non dissimile dalle norme anti-covid, suddivide il territorio in zone e gestisce la vita tramite il concetto di accesso e divieto: non si può entrare allo stadio, trattenersi in certe parti della città, entrare in alcuni locali pubblici. Scorrendo la lista dei luoghi il cui accesso è stato interdetto dal “Daspo Willy” ai trapper di san Siro (tra cui i rivenditori di latte e dolciumi), non si può fare a meno di notare le evidenti sovrapposizioni con le norme sanitarie; a riprova del fatto che i nuovi dispositivi (che raramente scalzano i vecchi, e più spesso si intersecano con essi) vengono prima sperimentati su una parte della popolazione (gruppi specifici, immigrati, detenuti, giovani, ultras etc.) per poi essere estesi a tutti gli altri.
Anche il passaporto sanitario è un requisito per accedere, e soprattutto è un dispositivo di controllo e selezione. Si crea così, al di là di ogni considerazione di carattere medico-scientifico, una divisione nella popolazione: il passaporto sanitario diventa il requisito fondamentale per accedere alla cittadinanza piena, per entrare a far parte di quella fetta della popolazione a cui, sola, sono garantiti tutti i servizi. Del resto, non si faceva che ripetere lo stesso ritornello, dopo l’inizio della pandemia, come dopo la crisi del 2008: “Non si poteva continuare così”, “Vivevamo al di sopra delle nostre possibilità”. Nonostante tutti gli annunci, e i gridolini entusiastici per il ritorno dei delfini nella laguna di Venezia, la ristrutturazione non è andata esattamente nella direzione di un ripensamento profondo della società “per vivere in maniera più giusta e in accordo con il pianeta”: una parte della popolazione risulta da tempo soprannumeraria, in eccesso, e i governi hanno già previsto che a queste persone non saranno garantiti gli stessi servizi che al resto dei cittadini. I governi si preparano ad “abbandonare” in maniera ancora più sistematica alcune filiere, alcuni percorsi, alcuni spazi della città, per preservarne altri: oasi a cui si accederà solo rispondendo ai requisiti richiesti.
La creazione di spazi sempre più chiusi, a cui si deve accedere, e l’esistenza di dispositivi di regolazione dell’accesso, e di controllo, fanno in modo che ad un requisito possa sempre sommarsene un altro. La rete logistica e la collaborazione della popolazione necessarie a attuare i controlli del passaporto sanitario, ora che sono state messe a punto ed attivate con successo in tutto il territorio, potranno sempre essere riattivate. Ma soprattutto, ora che questa logica dell’accesso e del possesso del requisito si è installata comodamente tra noi, non se ne andrà tanto facilmente. In questo senso, l’epidemia è stata un enorme laboratorio, un campo di gioco e di sperimentazione di una gestione epidemica delle crisi che non ha niente a che vedere con la questione sanitaria. Per questo, il passaporto sanitario potrà essere abolito (o, meglio, sospeso), ma la fitta maglia di controlli, e lo scivolamento verso il “modo amministrativo” – un mondo intessuto di norme, che hanno come obiettivo la prevenzione del rischio in sé – resteranno.

[1] Onward Barbarians, Endnotes, dicembre 2020. Tradotto su Teatro di Oklahoma, Avanti, barbari!, ottobre 2021, http://teatrodioklahoma.net/2021/10/22/avanti-barbari/
[2] Come dice Antoinette Rouvry, nella sua conferenza «La gouvernamentalité algorithmique, ou l’art de ne pas changer le monde», in cui racconta il modo in cui questi dati sono raccolti e trattati. Si può ascoltare qui: http://ekouter.net/la-gouvernementalite-algorithmique-ou-l-art-de-ne-pas-changer-le-monde-avec-antoinette-rouvroy-a-l-ecole-normale-superieure-4679
[3] Di «modo amministrativo» parla Paolo Napoli, in Naissance de la police moderne. Pouvoir, normes, société, La découverte, Paris 2003.
[4] In «Societas», Emanuele Coccia, parla della società degli angeli come della prima e della più perfetta forma di società, in cui, per l’appunto, il governo di tutti su tutti rende la legge inutile. «Una società perfetta non ha mai bisogno del diritto o di uno stato per potersi conservare, così come non ha avuto bisogno di un contratto per potersi costituire. Gli angeli, continua Guglielmo, non hanno bisogno di un capo o di un qualche re che governi la loro vita: «qui ogni trasgressione è impossibile e non vi è alcun bisogno di un governatore (rector) o di un comandante. E là dove non vi è pericolo di errore o deviazione», «la legge non è necessaria né, di fatto, esiste». La città angelica è una società pura, una città senza diritto senza legge e soprattutto senza istituzioni». «Società anomica, ma per eccesso di perfezione e non per difetto, «la città delle sostanze santissime e beatissime» è sì priva di stato, ma piena di burocrazia. Tutti i suoi cittadini sono in realtà, come recita la Lettera agli ebrei, degli «amministratori spirituali (administratorii spiritus) inviati a servizio di coloro che riceveranno l’eredità della salvezza» (Ebr. 1, 14); insomma dei burocrati, o nel linguaggio tecnico di allora, dei leitourgoi. La liturgia (leitourgeia) era una prestazione di lavoro obbligatoria compiuta dal cittadino per l’interesse pubblico solo talvolta legata ad una copertura finanziaria».
[5] Questa totale, e strumentale, linea di continuità è esplicitata con un candore quasi sorprendente in un articolo comparso sul Corriere il 21 ottobre. «Durante la fase acuta della pandemia erano stati vietati i cortei e consentiti soltanto i sit-in all’aperto con mascherine e distanziamento, comunque in casi davvero particolari. Adesso che la situazione sanitaria sembra uscita dalla crisi grave si era deciso di accogliere alcune richieste di svolgimento dei cortei. Un “allentamento” che si è deciso di rivedere drasticamente. E anche le autorizzazioni alle manifestazioni statiche potranno essere rilasciate soltanto con garanzie reali di rispetto delle regole da parte degli organizzatori. Si dovrà valutare se il luogo richiesto sia adeguato, se ci siano possibili vie di fuga in caso di scontri e possibilità di presidiare le vie limitrofe in modo da impedire a chi protesta in maniera violenta di andare altrove».
[6] Il Daspo urbano è una misura amministrativa introdotta con il decreto Minniti del 2017 e modificata con i decreti sicurezza del 2018 e del 2020. Il decreto Minniti ha demandato alla potestà regolamentare di polizia urbana la possibilità di ampliare il novero dei luoghi pubblici ove può essere applicata la misura in oggetto, includendovi istituti scolastici e universitari, aree museali, siti archeologici, complessi monumentali, aree adibite a verde pubblico e luoghi di interesse culturale o comunque interessati da considerevole afflusso turistico. Tale elenco è stato integrato dal c.d. decreto sicurezza o decreto Salvini (d.l. 113/2018, conv. in legge 132/2018), che vi ha incluso anche i presidi sanitari e le zone che ospitano fiere, mercati e spettacoli (art. 9 del decreto).
[7] Il Daspo urbano deve il suo nome a una misura affine, cioè il Daspo vero e proprio (acronimo di Divieto di accedere alle manifestazioni sportive), misura di prevenzione “atipica”, introdotta nell’ordinamento giuridico italiano con la l. 13 dicembre 1989, n. 401.
[8] “I 6 Daspo Willy emessi dal Questore di Milano inibiscono l’accesso ai locali di pubblico trattenimento (discoteche, locali notturni, sale da ballo, luna park, disco pub, ovvero ogni locale pubblico o aperto al pubblico in cui abbiano luogo attività di trattenimento) e agli esercizi pubblici di somministrazione di alimenti e bevande (esercizi per la somministrazione di bevande, comprese quelle alcooliche di qualsiasi gradazione, nonché di latte, di dolciumi, compresi i generi di pasticceria e gelateria, e di prodotti di gastronomia – in particolare bar, caffè, gelaterie, pasticcerie ed esercizi similari), nonché di stazionare nelle immediate vicinanze dei locali e degli esercizi pubblici sopraccitati per le seguenti durate negli indicati territori”.