ATLANTE (META)FISICO – Parte I

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Di post in post andremo ad illustrar territori: ci siamo stati, li abbiamo visti, ne abbiamo studiato, e con la modellizzazione del mondo apportata dai GIS, ci navigheremo ponderatamente, come dalla navicella di una mongolfiera, soppesando argomenti a varie quote, a varie scale.

Percorreremo carezzevoli il corpo della penisola. 

Si vuole imbandire quell’artefatto che è la cartografia o la veduta a volo d’uccello; che non è rappresentazione fedele del territorio ma evocazione di suoi aspetti scelti per una flânerie da interni. Satelliti puntigliosissimi hanno campionato la superficie della penisola e ce ne hanno restituito la radiografia. E qui la si ripropone imbellettata perché il nostro immaginario si arricchisca delle rubate forme e dimensioni di questi luoghi, ambienti, regioni. Rubate perché il territorio lo si esperisce e pensa dal suolo, nel percorrerlo; pur avendo la cartografia più dettagliata possibile, sapremmo raggiungere l’equilibrio con cui i greci ponevano i loro templi nel paesaggio? Ci manca lo sguardo, per non dire delle divinità da metterci…  

Inizieremo così illustrando i luoghi nella loro forma primigenia, come fossimo i primi venuti, per poi integrarli delle opere degli uomini. Li descriveremo a modo nostro, con lo sguardo dell’architetto. Meglio sarebbe quello dell’architetto-urbanista ma l’urbanistica dalla sua nascita è un sapere tecnico quasi sempre privo di incanto, allorquando avendo la responsabilità di strutturare il mondo, di incanto ne avrebbe tanto tanto bisogno. In effetti potremmo proporci come urbanisti dell’incanto. Siamo sempre stati perdutamente attratti dalle forme del territorio perché nell’intimità di certi luoghi o nell’ampiezza di altri possiamo accomodare nostri stati d’animo; magari accordati all’ambiente da qualche soccorrevole elemento architettonico.

Abbiamo infatti anche perlustrato tanta letteratura per trovare chi si fosse preso la briga di descrivere un territorio e di farci sapere cosa gli suscitassero quelle forme. Questo è già un tema, come a voler fare un atlante delle sensazioni territoriali, che combinato ad un altro atlante, quello di un’Italia corposamente fisica, darebbe un insostituibile atlante d’Italia metafisica! Ne varrebbe davvero la pena e il tentativo progressivamente si farà; nell’illustrare aspetti oggettivi, non si vorrebbe infatti mancare di evocare una qualche sostanza lirica del territorio, una sua metafisica, appunto: una volta illustrato per esempio un sito nella sua forma e come in questa una città si è seduta, ci piacerà speculare discretamente di quel che si sentì e portò a stabilircisi, a porvi ninfe e santuari per collocarvi i suoi numi. Un po’ per allenarci anche noi a porre numi nel territorio, numi nostri di esseri consapevoli passati attraverso la scienza e la psicologia; in fondo di rappresentare qualche nostro stato d’animo in spazi di mondo farebbe bene a noi, e all’incanto del mondo. Per far sì che l’unico nume che oggigiorno potremmo permetterci non sia qualcosa come il Wifi. 

Ma di immagini saremo comunque parsimoniosi, perché per come stanno andando le cose, la prossima civiltà potrebbe, e forse dovrebbe, essere iconoclasta. La nostra ne ha certamente abusato. E anche per lasciar parlar la parola, pur nella sua pochezza nel descrivere i fenomeni, ma anche nella sua presa nello strutturare immaginario. Si volesse approfondire, il telefonino che abbiamo in tasca supplìrà generosamente.   

Ho sempre pensato che del territorio avrebbe titolo di parlarne chi lo conosce intimamente, chi lo coltiva con passione, chi ne ha consuetudine responsabile. Ma l’ispirazione di poterne dare qualche nuova rappresentazione, anche solo di un libro dei sogni, da chi se ne lascia continuamente incantare, forse dà titolo per parlare.  

Cominceremo dal tratto della SS n.7 Appia, da Cisterna di Latina a Terracina

Uscendo da Roma, la via Appia risale le pendici dei colli Albani, ne segue l’orlo, e a Velletri scende nell’Agro Pontino che attraversa fino al suo termine, a Terracina. In questo ultimo tratto, ai due lati della grande strada, due mondi diversissimi. 

  1. Il lato a monte
  2. La palude e il lato a mare (di prossima pubblicazione)

L’allestimento del theatrum

Un fondale marino precipitato di gusci e conchiglie che tempo e forze tettoniche hanno compresso in calcari ed eretto come Monti Lepini e Ausoni. Distaccato dirimpetto il Circeo, che fu isola, condiziona le correnti e porta la deposizione di cordoni sabbiosi lungo la costa. Spunta a nord il vulcano laziale, quello dei Castelli romani. In mezzo, un ex braccio di mare: tra le montagne calcaree che trasudano acqua, le pendici del vulcano che la sversano e la duna che la contiene, la palude.

Il theatrum: in primo piano il vulcano laziale, con i laghi di Albano e di Nemi. Sulla sinistra i monti Lepini, in secondo piano, un po’ più chiari, gli Ausoni e in fondo la penisola di Gaeta. Tra i Lepini e gli Ausoni, la conca di Priverno. Al centro la linea retta dell’Appia, il cui sedime prosegue in primissimo piano tra le pendici del vulcano, e l’area delle paludi bonificate. Le macchie scure entro quest’area rappresentano le superfici ancora sotto il livello del mare mantenute in secco da sistemi di pompe. Sulla destra la grande duna, i laghi e la duna costiera, e il Circeo.  

L’Agro pontino lo si coglie in un’occhiata da Velletri. E da Velletri lo si raggiunge tra pini domestici altissimi che esaltano le prospettive della via Appia in discesa. L’occhio è attratto dal punto di fuga, come in un manifesto di Cassandre, ma distogliendone lo sguardo, attorno la pianura si delinea mentre l’Appia vi si adagia orizzontale e rettifila fino a Terracina con una sola curva: questi 40 km di rettilineo senza centri urbani, un’eccezione nel territorio italiano, prendono il nome di Fettuccia di Terracina; un gustosissimo cinegiornale Incom del 23 marzo 1951, la illustra, orlata di pubblico, con il pilota Piero Taruffi che come un grumo di vento conquistava il record mondiale dei 5km lanciati a bordo della sua bisiluro raggiungendo i 313,5 Km/h [1]. 

L’Appia ti dà l’idea della statale dei tempi andati, quelle con le pietre miliari o i paracarri con la pittura catarifrangente, le case cantoniere rosse con l’intitolazione della strada e la progressiva chilometrica a caratteri maiuscoli neri in un rettangolo bianco; insomma, la strada strada, il viaggio, le distanze, il compluvio territoriale senza rotonde e tanti incroci. Sorpassi, Diavoli rossi e Topolini amaranto… 

Si viaggia in quota entro un piano cartesiano di cui l’Appia è ascissa mentre le traverse, le migliare, sono le ordinate che si ripresentano con numero progressivo ogni circa 1500 m, l’occhio purtroppo non se ne avvede, ché il ritmo con cui compaiono è troppo lento. È il paesaggio delle bonifiche delle paludi Pontine, ricalca in parte quello settecentesco e quello antico. L’Appia tiene qui il suo sedime da duemilatrecento anni, ma è stata percorribile solo per mille, nei momenti in cui il regime delle acque resta sotto controllo. Venendo questo meno, l’Appia scompare dai percorsi principali della penisola e con essa si eclissa l’intera pianura. La Regina Viarum nasce per necessità di controllo e strutturazione del territorio, con una netta impronta di celerità, disponendosi appena possibile in lunghi rettilinei tra i centri principali, saltando quelli minori. Come oggi, accanto ad essa scorreva da Cisterna a Terracina un canale navigabile. Ne racconta Orazio, che vi viaggiò.

Riponendoci sul sedime della strada troviamo in fondo alla pianura, sulla destra, la mole distesa del Circeo. È il suo versante nord, il quarto freddo. In ombra e coperto di boschi, da lontano il Circeo perde consistenza e diventa una grande silhouette territoriale che segna il termine dell’Agro. Così compare in moltissimi dipinti. Piacerebbe poi parlare di Circe e di Ulisse, ma le indicazioni topografiche dell’Odissea che descrivono un’isola con un’ampia pianura al centro, nulla hanno a che vedere con un monte dalla forma di un gianduiotto. Ciò premesso il culto della maga Circe fu diffuso in zona nell’antichità con un tempio anche sul Circeo stesso. 

I monti Lepini sono un paesaggio complesso, carsico, con più catene parallele, altipiani e valli interne. I loro strati calcarei si frantumano in versanti tempestati di schegge di pietra. O anche, negli Ausoni dietro Terracina, in interminabili sbeccate scalinate. Non cresce granché, ma le vibrazioni di luce dei frammenti di pietra chiara possono essere molto belle. 

Verso la pianura pontina si alternano solchi vallivi a pareti quasi verticali. E in questo paesaggio complesso, molte antichissime città diversamente siedono: sfilano quindi Cori conica nel suo anfiteatro di vallette, Norba e Norma sull’orlo di una rupe, Sermoneta di punta su un crinale a metà quota, e Sezze su un pianoro raddoppiata dalla sua propaggine moderna. Poi l’interruzione delle colline basse e dolci che coprono Priverno. Infine, incombono i monti Ausoni, aridi quanto mai, che l’Appia scansa con una curva. Sulla destra, la tacca del Circeo lentamente esce di scena, mentre approssimandosi il piano impercettibilmente inclinato sul quale si è viaggiato allo zero del mare, i canali che si scavalcano hanno l’acqua a raso. Sono quelli che portano le acque alte, quelle che aggirano la piana alla quota maggiore. E ora, su un terrazzo ai piedi della rupe, Terracina.

Cori ariosa e megalitica 

Arrivandoci dalla campagna romana, Gregorovius vedeva in questi territori della Roma preistorica, Troia e l’Ellade richiamate dai versi di Virgilio. Scrisse che più ci si avvicina a Cori, più l’atmosfera si fa ellenica [2]. Virgilianamente ellenica o meno, Cori è città nobilissima. La sua situazione è quanto mai felice: sta su un colle conico entro una raggera di valli minori che una sella lega alle montagne sul retro, ma sul fronte la sua forma è netta. Affaccia sbieca sulla pianura pontina davanti alle propaggini del vulcano laziale, travertini erosi in infinite strette parallele vallette. 

Il cono di Cori nel suo contesto. In primo piano i travertini erosi del Vulcano Laziale.

In tempi antichi di cui molto si discute [3], si ricavarono mura e terrazze sorrette da blocchi megalitici incastrati con tale perfezione, che le pietre non vi paiono poste dall’arte (…) ma dalla natura[4]. Queste opere, così come i resti romani, in particolare un tempio detto di Ercole, dalle esili, slanciate e inconsuete colonne doriche impressionarono architetti e viaggiatori, tra cui il Piranesi. Il retro di una cartolina del dopoguerra edita da Corsetti Raniero, Tabacchi e Profumeria – Cori, reca un passo di tale A. Accrocca che oppone in mirabile sintesi l’arioso del tempio al megalitico delle mura: il tempio dal pronao tetrastilo, profondo per tre intercolumni, si eleva alto sull’acropoli come librato in aria, a fastigio della città ciclopica, tutta a terrazzi, conclusa nella sua cinta poderosa [5]. Che nostalgia di quell’Italia, quella dell’odorosa tabaccheria-profumeria che editava la cartolina e prendeva dall’opera dello storico locale una citazione un po’ dannunziana… Il tempio si è conservato nei secoli perché divenne chiesa e si è salvato dai bombardamenti dell’ultima guerra che gli hanno comunque lasciato attorno un ambiente frammentario. Sulle sue proporzioni, Pavel Muratov, uno tra gli ultimi viaggiatori di Grand Tour, scriveva: con le sue mura di travertino [in realtà è calcare] grigio-azzurre, i profili dritti e quasi poveri, che trasmettono la tipica esitazione dell’architettura latina da poco iniziata alla civiltà greca produce un’impressione di purezza e giovinezza [6]. Tornando invece al Piranesi, questi pubblicò Le Antichità di Chora, rilevandole e offrendo anche uno spaccato piranesianissimo delle famose mura, che la didascalia dell’immagine qui sotto recita fatte con ismisurati macigni (…) che abbracciavano lo scosceso del monte.

Queste strutture megalitiche strutturarono l’intero cono e vi impressero un percorso di salita fino alla cima, ricavarono nella parte bassa un’amplissima terrazza per il foro e altri gradoni a varie quote del colle, fino alla sommità. Nonostante le rappresentazioni del sito al ricco museo della città non ne è chiara l’antica potenza scenografica, complete di templi ed altri ornamenti. E si specula volentieri sul pantheon della città, su quali divinità ne presiedessero ed articolassero il percorso di salita, compiacendocisi in una sbrigativa interpretazione dell’opportunità di un presunto tempio di Giano, tra alte mura ciclopiche, orientato perfettamente a sud, con alle spalle un vallone in ombra, su un tornante che articola la città e quella bassa… Sul sedime del tempio vi è oggi la chiesa di Santa Oliva, con il suo importante ciclo affrescato. 

Se la carica scenografica rimane incerta, resta comunque una più comoda morfologia della collina a disposizione delle generazioni successive. Dal medioevo le terrazze sono state infatti occupate seguendo i tracciati malcerti del passo tra disiecta membra della città antica, con le mura ciclopiche che tengono alte e silenti il monte tra il minuto tessuto urbano. La gravità di questo silenzio è forse il tratto che più risuona del centro di Cori; essendo stata per secoli feudo del Senato e del popolo di Roma, la città non vanta l’orgoglio comunale in un venerando palazzo con annessa centrale e animata piazza. Molte sono invece le piazzette, strette e aperte a ovest, sulla pianura: hanno pertanto tramonti eccellenti.  La piazza, se così si vuol chiamarla, è fuori dal centro, sulla sella che lega il cono al monte. Più uno snodo dietro alla collina, con un’urbanità ancora confusa, senza che nessuno degli edifici che vi affacciano, in particolare quelli recenti, si prenda la responsabilità di darsi un portamento da piazza. L’impresa è peraltro assai difficile e abbisogna di molta convinzione: essendo uno spazio informe, non basta darsi una bella facciata accanto ad altre; sono proprio interi corpi edilizi che occorre pensare.

E quindi si torna ai gravosi silenzi del centro. Nell’angusta piazza San Salvatore, due colonne corinzie rimaste del tempio dei Dioscuri alte quasi nove metri, con la dedica a maiuscole incise sul tratto breve di fregio superstite, appoggiano su un muro sopra un alto basamento. Dietro, i ruderi delle celle del tempio sotto una parete megalitica e davanti, oltre ad un parapetto massiccio, la vastità della pianura e del mare. Sporgendosi, un’altra terrazza sottostante, sgombro spiazzo minerale, sordo e deserto, con un nome evocatore: piazza del Pozzo dorico. Era la zona del foro, qui nel Rinascimento venne rinvenuta la statua in porfido della Minerva Capitolina oggi al Campidoglio a Roma; si intuisce lo spazio che fu e il tutto trova un suo sublime.

Cori ebbe poi una vita culturale tutt’altro che trascurabile tra medioevo e rinascimento. Ricca di palazzi nobili, e sede di un importante monastero agostiniano, ebbe tra altre e non poche cose due ampi cicli affrescati di grande effetto. Nel secolo scorso si è poi voluto dotare l’intero versante di una strada carrozzabile; operazione un po’ brutale, ma mai quanto il coevo edificio delle scuole, incastrato tra la città alta e quella bassa, burocratico, rigido e completamente fuori scala. Eppure, l’idea di una fascia pubblica a metà quota non era cattiva, anzi. Avrebbe potuto sortirne un nuovo spazio urbano, centrale e panoramico, una nuova terrazza, anch’essa ovviamente con tramonti eccellenti. 

Norba, il solstizio e il pianoro 

Il sito di Norba. Al centro dell’immagine l’acropoli minore punta al vallone sullo sfondo.

Altre estesissime muraglie megalitiche, con una porta protetta da un raro e altrettanto megalitico baluardo tondo, sono al sito dell’antica Norba. Un pianoro vagamente circolare, dolce, ondulato e difeso per lo più da scarpate di centinaia di metri sulla pianura e comunque da qualche metro sul più ampio terrazzo dei Lepini cui appartiene. Norba è oggi un sito quantomai ameno: ci vengono colorati e fluorescenti entusiasti da tutta Europa a lanciarsi coi deltaplani da un ridentissimo prato sul precipizio. Si è condotto qualche meritevole restauro, ripulito qualche domus e dovuto mettere un’inopportuna scala sull’acropoli minore, probabilmente per ascendervi a norma… Un tempo il sito suscitava pensieri più gravi, e pronti erano gli occhi mentali: gli appennini torreggianti che si innalzano immediatamente dietro alla città esibiscono un simbolo della storia dei Norbani: le loro alte cime sono coperte dalle nuvole ma le loro pendici scoscese sono terribili e sublimi. Le dense nebbie dell’antichità circondano le origini dei norbani nell’oscurità, ma quelle parti della loro storia nelle quali l’occhio mentale può guardare, ci ispira rispetto e ammirazione [7]. 

Norba venne pianificata con arte. I rilievi principali ospitano due delle tre aree sacre, mentre l’asse principale della città sembra ricalchi l’alba del solstizio d’inverno o il tramonto di quello d’estate [8]. Per alcuni popoli antichi il sole non ancora del tutto sorto era in comunicazione sia con il mondo celeste che con quello infero, era il momento dei segni, l’aruspicio osservava e interpretava. Ed era in momenti significativi del ciclo stagionale, per esempio all’alba del solstizio d’inverno che i sacerdoti etruschi, guardando verso est, l’orientamento propizio, con il primo raggio di sole impostavano i lineamenti della struttura urbana [9]. A Norba il cardo punta verso uno dei rilievi del pianoro, l’acropoli minore, che ha una profonda incisione valliva tra le montagne sullo sfondo. Da lì, il primo raggio di sole. Così nel percorrere l’andamento concavo del cardo, mentre si intuisce sulla destra la fine del pianoro e la rupe che lo delimita -senti il baratro prossimo- si ha di fronte la chiostra di montagne in lontananza interrotta in primo piano dall’acropoli sulla quale svettava un tempio. Dietro, il cielo. 

La cosa è orchestrata alla perfezione, una sintesi di dimensioni spaziali diverse, di lontananze e vicinanza, con il tempio sulla sua piattaforma figurativamente rialzata rispetto al terreno su cui si trova che solo si confronta con la vastità del cielo. La dimora del dio cerca qui un altrove. A rendere il contrasto più forte con questa dimensione cosmica, il cardo ha marciapiedi e attraversamenti pedonali in quota, ricorda Pompei e la sua quotidianità tanto vivida.

Sull’acropoli i templi erano due, il maggiore di testa, il minore di taglio. Fino al tardo pomeriggio si mostravano alla città in ombra, ma al solstizio d’estate il tramonto ne colpiva in pieno la facciata. Non si conosce l’intitolazione dei due templi, ma è certo suggestivo pensare a quali divinità potessero proiettare l’ombra del loro tempio sulla città per quasi tutta la giornata, per poi invece illuminarsi al tramonto.

Dettaglio del disegno alla pagina precedente: il cardo di Norba verso l’acropoli minore. Il rilievo dell’acropoli in primo piano gioca con le cime sullo sfondo. 

Ma torniamo con i piedi per terra: nell’antichità questa scenografia era tuttavia un po’ diversa, la strada era bordata di case che quantomeno in vicinanza dell’acropoli coprivano la vista delle montagne. L’innalzare il tempio al cielo era verosimilmente più importante dell’inserimento nel contesto. L’emozione di spazio che vi si prova è forse una combinazione tra lo stato di rudere di questo complesso e la sensibilità contemporanea. Ma l’architettura d’oggi è tanto rozza, tanto avara di forti mediazioni col paesaggio che queste epifanie fortuite ci sono ancor più care!

Dall’altra parte della città, su un piccolo terrapieno che trattiene l’ultima orizzontalità sul pianoro che s’incurva a diventare rupe, stava il tempio di Giunone Lucina, protettrice del matrimonio e dei parti. Vi si son trovate statuette votive in metallo e uteri di terracotta. E in alto, dall’acropoli maggiore, con dietro i monti e le selve, Diana dal suo tempio sordo, un volume chiuso privo di colonne, vegliava l’intero abitato. Subito al di sotto, il foro e le terme. Insomma, Norba sembrerebbe un luogo ricco e confortevole; racconta Tito Livio che non la pensavano così degli ostaggi cartaginesi lì confinati che si lamentarono della scomodità del soggiorno. Chiesero, e pure ottennero, il trasferimento in altre sedi… [10]

Norba fece una brutta fine. Durante la guerra civile sillana, assediata, i suoi abitanti preferirono il suicidio e l’incendio piuttosto che la resa. 

Rinacque poi come Norma, su uno sperone roccioso a poca distanza. Tanto Norba era distesa e dolce, tanto Norma è angusta, concentrata su sé stessa, non esiste né nella città medievale, né nella successiva addizione pontificia, una qualche terrazza, loggia, uno spazio aperto sul vastissimo panorama dell’Agro, del Circeo e del Tirreno. Purtroppo, Norma è deflagrata dal dopoguerra oltre l’abitato storico risalendo il versante alle sue spalle, per singoli modesti episodi, di villetta in villetta, in una costipazione destrutturata inesorabile. Come dappertutto, senza un piano per accordarsi alle dimensioni e alle forme del suo sito. 

Sermoneta 

Il paese gravita attorno all’inespugnato castello dei Caetani, che furono potentissimi feudatari dell’Agro e di molti centri Lepini; venne infatti acquisito da Papa Bonifacio VIII Caetani. 

Occupa un crinale disteso, a metà quota, a presidiare lo sbocco della valle dell’usignolo [11], diversamente da Cori che si ritrae entro il suo anfiteatro o da Norma che svetta sul suo sperone. Come offerta alla geometria dell’Agro dal crinale che vi si allunga, si vorrebbe dire che Sermoneta vi plani. Ma visto il castello possente e fermo, dire che vi gravi è meglio. Le facciate del castello hanno murature perfette, costruite in pietra calcarea a piccoli conci perfettamente posati; sono lunghe, piene, scandite a passo lentissimo da poche grandi finestre e da quello fitto dei merletti sulla gronda. Torri basse, tarchiate. Una partitura lenta nobilissima regola così il minuto sottomesso tessuto medievale [12]. 

Pur gravitante attorno al castello, Sermoneta ha un tessuto urbano articolato, con una piazza principale da quello discosta, una loggia per gli affari del comune, e in altro ambiente ad essa dedicato, la cattedrale. 

Sermoneta è bello vederla non solo dall’Agro, ma spiarla mentre appunto vi grava dal Convento di San Francesco. Edward Lear da qui la ritrasse più volte. 

Il castello di Sermoneta visto dal Convento di San Francesco preso da un dipinto di E. Lear. In secondo piano a destra, i ruderi di Ninfa con l’ampio specchio d’acqua delle sorgenti del fiume omonimo.

Due parole anche sulla verzicantissima Ninfa, sorta nel medioevo allorquando l’Appia divenne impraticabile e la strada per Terracina si spostò ai piedi dei monti. Situata presso la copiosa sorgente dell’omonimo fiume, ai piedi della rupe di Norma, fiorente nel Trecento ma rovinata per lotte intestine dei Caetani, restò diruta per secoli finché, complice anche il suolo particolarmente fertile e umido, non divenne meta di turisti estasiati dalle rovine e dagli affreschi stinti coperti di fiori sgargianti. Venne trasformata nell’attuale giardino botanico da Marguerite Chapin Caetani. Animatrice e fondatrice della rivista letteraria Botteghe Oscure, usava ricevere i collaboratori al castello di Sermoneta e a Ninfa. Tra di essi, Giorgio Bassani vi era particolarmente affezionato: In questo giardino ho scritto non solo le prime bozze del Il Giardino dei Finzi-Contini, ma anche tutte le parti del romanzo che reputo le migliori, le più piacevoli, quelle che mi sono costate meno fatica, meno dubbi. E anche meno correzioni”[13]. 

Il luogo generava sentimento: dagli antichi, sensibili a queste cose, che vi avevano posto un tempio delle Ninfe – pare ricordato da Plinio -, ai viaggiatori ottocenteschi bramosi di struggimento, a Bassani, che in un secludente giardino vedeva qualche parallelo tra certe originalità dei Caetani e quelle dei Finzi-Contini. 

Sezze

Sezze ha anch’essa natali antichissimi, Setia, e la città storica occupa un pianoro simile a quello di Norba. Ma Sezze ha continuato a vivere e della città antica resta poco. Oggi è un centro medievale fitto con un paio di chiese importanti e qualche piazza raccolta ma ingombra di automobili. Dalla pianura Sezze si vede raddoppiare in un nuovo disordinato agglomerato sul colle accanto a quello della città vecchia. E nemmeno lo slargo che li separa riesce a darsi e darci una qualche convincente urbanità. 

Terracina 

Si dice che oltre Terracina inizi l’Italia meridionale, che la piana di Fondi è considerata già campana. Era infatti questo il confine tra lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie. 

Il primo tracciato dell’Appia, nel procedere verso sud risaliva le cime dietro alla città per poi ridiscenderne. Ai tempi di Traiano si volle sveltire il passaggio e venne tagliato il Pisco montano, una delle rocce a strapiombo sul mare cosicché ci potesse passare l’Appia. Il taglio alto circa 36 metri è visibilissimo ancora oggi, così come le quote raggiunte, scolpite nella roccia a numeri romani in un bel cartiglio ogni 3 metri circa.

Le cifre romane con il cartiglio sulla parete del Pisco montano. 

Terracina ha una posizione ottima. Un basso crinale si distacca dal monte, si allunga scendendo dolcemente sulla pianura. Salirci è la cosa più naturale del mondo, come fosse una rampa. E poi diventa un terrazzo tra il monte e la piana. Forse avamposto etrusco, poi la volscia Anxur, passò ai romani cui il sito dovette parer ideale: vi condussero l’Appia in linea retta sul colle, le fecero scartare la piazza del foro e dopo il taglio del Pisco, la fecero ridiscendere dall’altra parte senza fare una piega. In effetti un paio di aggiustamenti prima della porta c’erano, che l’Appia non aveva la stessa giacitura ma i romani erano gente pratica: si loci natura permittit ratione servare debemus; sin autem, proximo rationem [14]. Un bel saggio sulla storia delle comunicazioni spiegava che tanto più la strada era rettilinea tanto più il centro di potere che la tirava era potente [15]. E qui c’era un impero: l’unica vera deviazione era per aggirare il tempio principale. Per costruire un ampio foro, aperto con una terrazza alla pianura e un teatro appoggiato alla collina retrostante, i romani modificarono profondamente il sito con poderose sostruzioni. Terracina se ne giova ancora oggi, mostrandosi alla pianura con lunghi, ampi e distesi corpi edilizi, in primo piano davanti al tessuto medievale di piccola scala. Il lato posteriore della città quello rivolto agli Ausoni, ha invece conservato la sagoma delle torri delle fortificazioni tardo antiche, che richiama all’immaginario una qualche nobile città bizantina. 

Ma dal Circeo, da una finestra di San Felice, così Massimo Bontempelli la descrive: bianchissima, allucinata, vigilata dal Pisco Montano ottuso e balordo, dominata dall’alto dai dodici archi del tempio di Giove; dietro, un grande incombere di pietre bianche e di pietre rosse. [16]

La piazza centrale di Terracina è esemplare per l’avvicendamento di edifici e monumenti, di scavi, restituzioni e ripristini. Un lavorio incessante, ancora oggi in corso, sulle sue memorie, che porta non meno trasformazioni di quando una città si ripensa nuovamente, nel proprio tempo. A Terracina si cammina sulle lastre originali del foro romano, sgomberate nel 1846 delle stratificazioni soprastanti. Fu necessario abbassare l’intera quota della piazza, il che spiega oggi le gradinate anche davanti ai negozi. 

La piazza del municipio di Terracina: a sinistra il palazzo comunale (1959), con la loggia aperta al paesaggio, la torre Frumentaria, il campanile e la cattedrale (con il portico medievale e la facciata soprastante del rifacimento settecentesco), accanto Palazzo Venditti (XIII s.) l’arco passante, che prosegue l’asse della strada che attraversa la piazza aggirando la cattedrale. Sulla destra le scale che portano alla cavea del teatro.   

Con l’avvento del cristianesimo il tempio principale diventò cattedrale, alta sulla gradonata di questo, e che si scalina in recedenti articolazioni architettoniche accanto al grosso campanile piantato nel portico; piantato sì, ma alleggerito dal ritmo fitto delle archeggiature, variate lungo lo sviluppo in altezza. La piazza nel medioevo si restrinse e chiuse -la veduta non era necessaria e comunque il panorama era il Signore- perdendo l’affaccio sulla pianura che aveva il foro antico e il tessuto urbano si estese nella cavea del teatro. Venne l’epoca comunale con la sua torre Frumentaria e il suo bravo palazzo, distrutto poi dai bombardamenti dell’ultima guerra. Non tutto il male venne peraltro per nuocere: una foto d’anteguerra dell’odierno sito del comune mostra un paio di case sorde, grevi e vetuste. L’architetto Giuseppe Zander che si trovò a richiudere la piazza che le bombe avevano aperto al paesaggio giocò abilmente con le memorie della città e i suoi stili architettonici in un mirabile saggio di ambientamento, peraltro attualissimo nel 1959 [17]. Con l’ultimo piano rivestito ad opus reticulatum -una tecnica dei romani antichi-, il giusto ritmo di un’archeggiatura che occhieggia a quelle del campanile, radi merletti in gronda, al piano terra una loggia leggermente sopralzata con sgraziati archi poligonali aperta sul paesaggio, e infine una scala ad arco, degna di un fondale di Otello, che richiama quelle del Mazzoni a Littoria, sarà anche un tantino piacione, ma il risultato resta ottimo. La piazza ha così lo scabro delle costruzioni medievali ma anche la vista aperta. Lo Zander era tutt’altro che improvvisato, studiò con attenzione l’edilizia storica di Terracina, della quale pubblicò un articolo corredato da moltissimi schizzi, e terminò la sua carriera dirigendo l’ufficio tecnico di San Pietro…  Oggi si è riusciti a liberare interamente la cavea del teatro delle ultime case sopravvissute ai bombardamenti. Si ambisce a rimetterlo in funzione, sarebbe interessante dargli una qualche facciata. 

Ai piedi della città vecchia si trova il Borgo Pio, l’ampliamento di Terracina dei tempi della bonifica di Pio VI. Centro del Borgo Pio è la chiesa del Santissimo Salvatore, un saggio di altissima architettura, un neoclassico perfetto in ogni dettaglio [18], insolitamente caldo e voluttuoso. 

Le fondazioni dello stato pontificio configuravano delle internità urbane chiuse i cui assi principali erano presidiati da edifici religiosi [19]. Il borgo Pio si innestò sull’Appia riaperta, che ormai solo lambiva la città storica, con una strada trasversale che da una parte ha la piazza emiciclica davanti alla chiesa del Salvatore, e dall’altra la piccola collina la cui altezza avrebbe potuto dare luogo a un’altra scenografia con chiesa. Gli edifici sull’angolo mostrano che doveva esserci un arco di collegamento. Ma di questa strada ci si dimenticò presto. 

Il Papa teneva alla rinascita della città e si visitò Terracina quasi tutti gli anni. Risiedeva a palazzo Braschi, un volume disteso a far da prospetto alla città storica, affacciato sulla città nuova e sull’esedra del porto canale. Un bel dipinto di Hackert ci mostra il Papa dalla loggia del palazzo benedicente il popolo terracinese e le truppe schierate [20]. Il borgo Pio fu opera importante inquadrata nel grande progetto di riscatto delle paludi ad opera dell’Ingegner Rappini [21]. Opera di bonifica e opera viabilistica, il ripristino della via Appia sul sedime romano al centro della pianura, opere urbanistiche con il nuovo quartiere e il grande edificio della dogana, e rinnovamento delle attrezzature portuali con la linea Pia, il canale accanto all’Appia che doveva servire anche alla navigazione. Questo aveva un porticciolo, interrato nel 1960, nel punto in cui ai piedi del centro storico di Terracina si distaccava dalla via Appia. 

La strada per Napoli ormai passava di qui togliendo la città da un lungo isolamento. Durante l’Ottocento Terracina e le paludi diventarono meta di gite da Roma a ritrovare paesaggi e genti di un mondo arcaico cui conduceva una moderna e comodissima strada. Questo anche perché le bonifiche non avevano avuto l’effetto sperato; qualche deficienza del progetto e soprattutto usi impropri e mancata manutenzione riportarono molte delle terre alla palude, alla sua economia e alle sue genti. Scriveva nell’Ottocento il De la Blanchère: A Terracina l’aria era buona paragonata a quella della palude ma non era certamente sana. Uno degli effetti dell'”aria grossa” è quello di dare digestioni lente e lunghe sonnolenze e quindi il sistema muscolare s’indebolisce, quello nervoso si altera e la diminuzione delle forze dà il disgusto del lavoro. Dei colpi di scirocco veramente africano snervano gli organismi e la beltà stessa di un sito perfido per le sue insidiose attrattive produceva effetti di languore. Il cielo, le montagne e i grandi orizzonti pontini inducevano ad una calma contemplativa: tutto invitava piuttosto a godere che affaticarsi, e vi era qualche cosa di voluttuoso fin nelle notti stellate, negli effetti di luna sulle rocce e sul mare, in tutto questo corteo di seduzioni comune a molti paesi malarici, che lo straniero solo analizza e che l’indigeno subisce inconsciamente [22].

Come in tutte le città e in particolare nei centri costieri, a partire dal secondo dopoguerra, anche Terracina è dilagata lungo la costa fino a raggiungere il Circeo. Non mancano anche edifici in cui un occhio esperto riconosce perizia compositiva entro quartieri con un qualche disegno. Ma sono gocce perse nella grande conurbazione. 

Il monte Sant’Angelo, che incombe su Terracina, ha invero peculiarità suggestive per l’immaginario degli antichi: sulla terrazza del tempio emerge un blocco di calcare della rupe che, poi rivestito e monumentalizzato, mostrerebbe un foro circolare in comunicazione con gli strati sotterranei di una montagna sibilante piena di fessurazioni, che insomma mutatis mutandis ricorderebbe Delfi, con un lago sotterraneo pare ritrovato e distrutto ai tempi della costruzione della galleria autostradale. La cima bersagliata da innumeri fulmini, alla base copiose fonti di acque venefiche, arsenicate, dette acque neptuniae…  

Il tempio alla sommità del monte è notoriamente dedicato a Giove Anxur, benché la bibliografia su questo tema sia vastissima e contraddittoria. Il termine Anxur, che declina il culto di Giove ad una sua identità giovanile, imberbe, starebbe invece per la stretta e non per il rasoio. Terracina, dove è la stretta tra terra e mare. Un culto le cui origini si perdono nella notte dei tempi su quella vetta eccelsa del monte, (…) montagna sacra che conosciamo poi meglio nella personificazione di Giove connaturato nel mondo latino come il dio del cielo, della luce e della folgore, quegli che dall’alto tutto vede e tutto sa. Proprio le vette dei monti, infatti, erano viste come sede del dio, il luogo ove si sentiva più in particolare tale presenza. Questa coincidenza celeste sulla vetta di Anxur fu sentita anche dal cristianesimo, che la dedicò a S. Michele Arcangelo: messaggero divino che si manifesta dall’alto dei cieli con la folgore e il cui culto ha spesso, specificatamente come qui, sostituito quello pagano [23].

Inutile poi sottolineare la presenza paesaggistica, ultimo importante rilievo, accanto al Circeo, con al di sopra il grande tempio, per chi navigasse lungo la costa da sud, prima della foce del Tevere e Roma.

In conclusione, l’immagine speculare a quella iniziale. 
Terracina con il monte Sant’Angelo, il pisco montano, e sotto, il lungo colle San Francesco con la città vecchia attraversato dalla strada principale che vi sale e ne ridiscende. In primo piano il porto circolare traianeo. Il materiale di riporto del suo scavo ha formato il basso colle alle sue spalle. Al centro dell’immagine la linea Pia e l’Appia che corrono verso Cisterna e i colli Albani sullo sfondo, dopo aver doppiato con una curva la sporgenza del monte Leano. Oltre, il monte che si sporge sulla piana nasconde Sermoneta. In fondo i colli Albani, l’antico vulcano laziale. Le aree più chiare sono quelle sotto il livello del mare. 

Tornando sull’Appia, all’inizio del nostro viaggio, poco dopo la partenza, sull’altro lato si sarà passata Latina, assai distante, ma avvertibile per qualche confuso edificio alto. È una delle città di fondazione fasciste. A me però Latina pare città infondata, nella sua organizzazione planimetrica. Ma di questo, delle plaudi e delle vicende della bonifica tra i Romani, Teodosio, Pio Vi e il fascismo, nonché delle città che stanno dall’altro lato dell’Appia parleremo nella prossima puntata. 

Compagni di strada (in ordine di apparizione)

Ferdinand Gregorovius (1821–1891) è stato uno storico e medievista tedesco famoso per i suoi studi sulla Roma medievale confluiti nella sua monumentale Storia di Roma nel medioevo. I suoi noti Wanderjahre in Italien –Pellegrinaggi in Italia-, i resoconti dei suoi viaggi in Italia pubblicati tra il 1856 e il 1877, in cinque volumi, descrivono località, curiosità e personaggi. 

Pavel Muratov (1881-1950), scrittore e critico d’arte russo, partecipò a vario titolo alle prime iniziative culturali dello stato sovietico, ma lasciò la Russia già nel 1922. I due volumi delle Immagini dell’Italia, usciti inizialmente negli anni Dieci, sono stati pubblicati recentemente da Adelphi. 

John Izard Middleton (1785-1849), è considerato il primo archeologo americano. Fu molto interessato alle strutture ciclopiche del Lazio, pubblicando numerose opere corredate da disegni sull’argomento. Uno dei suoi libri qui indicato alla nota n.7 è disponibile online, con le sue splendide tavole a colori. 

Edward Lear (1812-1888), epilettico, asmatico, nato in una famiglia difficile, passò la gran parte della vita lontano dall’Inghilterra, in luoghi per lui più salubri, pubblicando cronache e disegni dei suoi viaggi. 

René Marie du Coudray de la Blanchère (1853-1896), archeologo francese, soggiornò nelle paludi pontine e ne studiò i sistemi di drenaggio e bonifica antichi.

Giuseppe Zander (1920-1990), architetto. Aggiungiamo a questa lista di viaggiatori stranieri, anche questo architetto e professore universitario per i suoi studi sulla storia dell’architettura del Lazio e in particolare sull’edilizia storica di Terracina corredati da moltissimi disegni, pubblicati in Terracina medievale e moderna attraverso le sue vicende edilizie, «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura», XXXI (1961), 48, pp. 315-330.

Ringraziamenti

L’occasione di scrivere su questi luoghi viene da una fortunata coincidenza: per due semestri sono stato collaboratore in un laboratorio di progettazione del Politecnico di Milano tenuto dalla Prof.ssa Pallini che verteva su alcuni edifici del tempo della bonifica fascista, mentre nell’estate del 2021 ho avuto occasione di conoscere Casale Rappini, ultima proprietà dei discendenti dell’ingegnere che iniziò la bonifica alla fine del Settecento. Il corso universitario, attraverso le lezioni della prof.ssa Pallini e del suo gruppo, mi ha permesso di meglio conoscere il territorio e di entrare in contatto con diverse personalità che lo hanno a cuore, come Maria Teresa Accattino presidente della sezione di Italia Nostra di Latina e l’archeologa Carmela Anastasia per le lezioni e i materiali forniti su Cori e Norba. Ringrazio infine Raquel Rappini per i materiali che ha voluto lasciarmi. 

[1] https://www.youtube.com/watch?v=EDTmuZf16PA

[2] Ferdinand Gregorovius, Passeggiate per l’Italia, vol. 3 (Lazio e Abruzzo), Avanzini e Torraca editori, Roma, 1968

[3] Si legge che le mura ciclopiche delle città del Lazio risalgono ai secoli VII-II avanti Cristo, quindi romane, così come che siano del tutto estranee alle consuetudini dei romani stessi e quindi antecedenti.

[4] Così scrive il Piranesi ne Le Antichità di Chora (p.4), riportando un passo di Procopio riferito alle pietre della via Appia.

[5] Non sono riuscito a scovare questo A. Accrocca. Il libro da cui proviene la citazione è questo: Cori storia e monumenti, Roma 1933, pp. 38-40. Forse parente o addirittura padre di Elio Filippo Accrocca (1923-1996), importante poeta, scrittore traduttore nato a Cori.

[6] Pavel Muratov, Immagini dell’Italia II, Adelphi, Milano, 2021, p. 161

[7] John Izard Middleton, Grecian Remains in Italy: a description of cyclopian walls, and of Roman antiquities, Londra, 1812, p. 37. La traduzione è mia. https://archive.org/details/gri_33125008562700/mode/2up

[8] Questi due articoli indicano uno il solstizio d’estate, l’altro quello d’inverno, che sembrerebbero qui allineati: 

Guido Magli, Non orthogonal features in the planning of four ancient towns of Italy

https://link.springer.com/content/pdf/10.1007/s00004-006-0030-x.pdf

Amelia Carolina Sparavigna, The Ancient Norba and the Solstices

https://www.researchgate.net/publication/315075726_The_Ancient_Norba_and_the_Solstices ;

[9] Traggo queste nozioni dai tre volumi di Antonio Gottarelli qui presentati: https://templa.online/

[10] Tito Livio, Ab urbe condita, XXXII. 2.

[11] Così sembra poi essere diventata Valvisciolo, quella dell’omonima abazia.

[12] Può parere davvero ozioso chiedersi se un’architettura o un insieme urbano gravino o planino su un ambiente, ma è per entrarvi in relazione concreta, soppesandone l’apporto paesaggistico effettivo, ed evitando il trito delle ammirazioni passive, dei superlativi vuoti, quello di parole ricercate e quasi sempre fuori luogo, come per esempio i borghi incastonati tra le colline… 

[13] http://www.valeriosordilli.com/2016/06/02/giardino-di-ninfa-giorgio-bassani-finzi-contini/

[14] Così scriveva Igino Gromatico, agrimensore romano vissuto ai tempi di Traiano: se la natura dei luoghi lo permette dobbiamo rispettare la regola, altrimenti dobbiamo avvicinarcene.

[15] Saggio di cui assolutamente non riesco a ricordare autore, titolo e collocazione.

[16] Massimo Bontempelli, Il figlio di due madri, Utopia Editore, 2021, p. 52. Il romanzo fu pubblicato nel 1929.

[17] Anno di completamento dell’edificio così come della Torre Velasca di Milano, e dell’enorme dibattito che suscitò sul rapporto tra l’architettura moderna e le cosiddette preesistenze ambientali.

[18] L’architetto Sarti (1797-1880) usava curare scupolosamente i dettagli, giammai lasciati all’arbitrio del capo mastro, e la volontà di trovare un equilibrio tra borghese volontà di decorazione e rispetto di un ordine classico.

https://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-sarti_%28Dizionario-Biografico%29/

[19] È così a San Lorenzo nuovo sulla Cassia, appena prima del lago di Bolsena, nell’ampliamento di Norma, dove la vista non è contemplata in nessun modo – eppure si è sull’orlo di una rupe alta 450 metri-, e a San Felice Circeo.

[20] La benedizione di Pio VI alla popolazione di Terracina e alle truppe schierate, durante l’Ascensione del 1795. Jakob Philipp Hackert. Resindenz Galerie Salisburgo

[21] Gaetano Rappini, ingegnere (Bologna, 1734 – 1796).

[22] R. de la Blanchère, Terracine, essai d’Histoire locale, Parigi, 1884, citato e tradotto in Arturo Bianchini, Storia di Terracina, Libreria Giuseppe Bizzarri, Terracina, 1952, p. 294

[23] Il paragrafo riassume e riporta parte dell’articolo di Lorenzo Quilici, A proposito del tempio di Giove Anxur a Terracina, in OCNUS, Quaderni della Scuola di Specializzazione in Archeologia n.13, 2005.