CIÒ CHE NON SI PUÒ AVERE (GIUSTIZIA-AMORE-VERITÀ)

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Ancora su Giorgio Cesarano, la poesia e la critica radicale.

“Una parola che non suoni come l’ipotetico verbo della salvezza pronunziato dal di fuori del disastro, non si ponga come ricattatorio e falso modello d’un “altrimenti” che non può darsi; ma suoni invece, compromessa, distorta, a malapena riconoscibile, dal di dentro del disastro (non dalla parte del disastro) dove tutti stiamo, ugualmente dannati, e finisca per valere come pegno — come uno dei pegni — di resistenza, d’oltranza, d’irriducibilità all’inumano.”

Vogliamo dedicare questo testo a Paolo Ranieri, compagno dell’esperienza comunista radicale, scomparso nel dicembre 2021

1. La specie e le rovine

Noi non temiamo le rovine. Erediteremo la terra, questo è certo.

Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce.

Sta crescendo proprio adesso che sto parlando con voi.

(Cronaca di un ballo mascherato, p. 28)

Con queste parole di Buenaventura Durruti si concludeva Cronaca di un ballo mascherato, scritta da Giorgio Cesarano nel 1974 assieme a Piero Coppo e Joe Fallisi. È un’affermazione che riassume molto dell’atteggiamento proprio della critica radicale: la certezza ardente in una tensione potenziale interna alla specie, sempre pronta a evadere dalla prigione in cui la costringe l’«accesso del Capitale al dominio reale» — ovvero il momento in cui il modo sociale di riproduzione perviene a «rimpiazzare tutti i presupposti sociali o naturali che gli preesistono con forme di organizzazione specificamente sue, che mediano la sottomissione di tutta la vita fisica e sociale ai propri bisogni di valorizzazione». [1] Spacciando quindi, una volta di più (anzi: nelle intenzioni, una volta per sempre), il contingente per l’eterno.

Gli uomini e le donne non hanno più, quindi, un rapporto immediato con la vita e la natura, ma soltanto con alcune mediazioni: la proprietà come natura mediata, il lavoro come attività mediata e il capitale come mediazione universale. Questa interiorizzazione delle mediazioni, tanto profonda da generare l’illusione di un rapporto immediato, è definita antropomorfosi del Capitale. [2]

Ricorrente, in vari scritti di Cesarano, è l’utilizzo del termine “colonizzazione”per riferirsi al processo di antropomorfosi del Capitale. Esempi come «la storia della colonizzazione economico-politica della vita umana», o «l’economia capitalista scopre nel “terreno da detriti” del tempo inutile proletario un processo di colonizzazione di nuovo tipo» non possono esaurirne le occorrenze, ma aiutano a coglierne l’importanza. [3] Il termine, infatti, evidenzia la presenza dell’organizzazione dell’economia politica in un territorio (quello della specie) che le rimane comunque esterno o estraneo — sia pure solo in parte, sia pure sempre più oltraggiato, catturato e in pericolo. E quindi ostile in modo latente o manifesto. [4]

Certo, per garantire la propria sopravvivenza nel momento in cui si palesano i limiti che Cesarano definisce termodinamici, ovvero quando la contraddizione giunge a minacciare la sua stessa possibilità di esistere in quanto sistema, il Capitale approfondisce sempre più il dominio sulla corporeità organica della specie, fino al punto estremo — giungendo cioè a integrarne la vita allo stesso modo in cui integra e asservisce a sé ogni elemento “naturale” del pianeta:

Lo sviluppo del capitale non tanto va letto come la storia di un’espansione «orizzontale» (a macchia d’olio) d’un processo per sé identico, quanto come l’escalation del modo d’essere di una società specifica e particolare — la «società industriale» nata dalla rivoluzione borghese – dal grado infimo di una lotta economico-politica scatenata tra le classi al grado massimo, misurabile in termini quantitativi di espansione planetaria, e qualitativi di «modo di vita», della gestione globale delle sorti della specie, sia nel suo equilibrio problematico con le possibilità di sopravvivenza della biosfera, sia nell’equilibrio altrettanto aleatorio del proprio modo di sopravvivere quale specie umana con la sostanza reale dell’umanità quale specie. [5]

Questa è la nuova conquista del capitale antropomorfo: avere colonizzato al valore ogni tratto della convivenza sociale, essersi ricomposto al di là della soglia di esplosione dei suoi vizi organici nella composizione organica del capitale-vita; l’essere transcresciuto dal regno intossicato di merci-rifiuto dell’esteriorità al regno sopravvivente dell’interiorità, tanto più degradata quanto più disseppellita e sollevata a nuova area di mercato. [6]

La tendenza al completo addomesticamento della vita umana, proprio nel momento in cui il Capitale sta per ottenere la sua vittoria totale (l’Apocalisse), disvela la presenza di una irriducibilità che è prima di tutto corporea, biologica. Nell’ora dell’ombra più corta — perché il trionfo del Capitale coincide con il pericolo concreto della scomparsa della vita — la specie può trovare la consapevolezza della propria insopprimibile alterità, del proprio desiderio di vita rispetto all’organizzazione capitalista della realtà che si rappresenta come unica realtà concreta, e rovesciare completamente il banco. È quello che Cesarano definisce come momento della rivolta del senso vivo: l’umanità possiede già nella sua materialità una tensione che non è semplice insorgenza individuale (né tantomeno meramente esistenziale), bensì negazione di ogni forma fittizia di organizzazione del mondo. Deve però acquisirne totale coscienza — una coscienza che non può tuttavia darsi dall’esterno, ma solo sorgere al proprio interno. Per dirla con le parole di un bel testo uscito qualche tempo fa: 

L’”antropomorfosi del capitale” non è mai un processo senza ritorno: per quanto le rappresentazioni capitalistiche si incarnino nel «popolo del capitale», queste rimangono rappresentazioni, schermi, e come tali possono essere distrutti. Il Capitale diviene, certo, «comunità fittizia» che incorpora i soggetti, ma non è mai a sua volta il «Soggetto» assoluto del divenire storico. C’è sempre un residuo corporale che resta fuori, c’è sempre un bacino di rivolta dei sensi finché la specie non viene biologicamente distrutta». [7]

Il Capitale, attuando la propria opera colonizzatrice sull’«intiero pianeta, come sull’intiera specie e sull’intiera vita di ciascun uomo», li rende terreno di scontro. [8] Non vi è differenza qualitativa: ogni gesto del quotidiano si può incardinare in una catena di riproduzione del sistema, oppure portare alla luce un mondo nuovo, l’inizio della storia della comunità umana contrapposta alla preistoria della comunità del capitale.

Ciò trova un’eco particolare oggi, dove effettivamente ogni piano di sopravvivenza di questo sistema in perenne agonia si basa su una ulteriore ristrutturazione della normalità della vita, consapevole di come la specie umana sia effettivamente — nel suo rapporto con sé stessa e il pianeta — prigioniera delle proprie stesse condizioni minime di riproducibilità. Qualsiasi aspetto della nostra vita è vittima e parte in causa della catastrofe, prigioniero nel dominio della morte e attore preoccupato di garantirsi una possibilità di durare al suo interno. [9]

In questa prospettiva, il capitalismo realizzandosi come comunità materiale fa coincidere come in un gioco di specchi la propria sopravvivenza a quella della singola esistenza privata, dando (benché a immagine e somiglianza del vuoto) forma e sostanza a una vita che ne è al tempo stesso il combustibile e il parassita, costretta ad accettare questo legame tossico e indissolubile. “Io ti creo e tu mi nutri, non puoi vivere senza di me”. È, di fatto, così; a meno di non diventare altro, o meglio: essere l’altro che in realtà già si è

Il capitale è il «discorso» reificato della controrivoluzione, e la controrivoluzione non è che il ribaltamento automatico dei bisogni reali in esaudimenti fittizi, tanto e simultaneamente sul terreno delle scelte sociali, delle risoluzioni economico-politiche messe in scena a livello dei destini planetari, come sul terreno dell’«interiorità» di ciascuno, solo illusoriamente di quelle scelte e risoluzioni spettatore, fruitore o avversario, solo fittiziamente isolato nella sua soggettività irrelata, e invece realmente e concretamente saldato, dall’interiorizzazione perfettamente consumata dell’economia politica, di cui ogni sopravvivenza è consustanziale, ai destini generali nella loro simultaneità in processo. [10]

Nel momento in cui il capitale conquista ai suoi occhi e agli occhi di tutti la dimensione del totale, poiché si impone sulla totalità della vita e dell’essere, e pone alla esistenza la sola condizione della necessità di se stesso (che poi reintegra tutte le necessità), identifica se stesso con lo stato naturale. [11]

La certezza di questo scarto ineludibile e vivo (per quanto prigioniero) separa nettamente la posizione di Cesarano da quella di un pensatore per altri versi a lui molto vicino come Jacques Camatte. Alla fine degli anni ’70, Camatte giungerà a concludere che, essendosi integralmente compiuta la cosiddetta domesticazione della specie, il Capitale sia divenuto letteralmente il “produttore” degli uomini e delle donne; i quali non possono dunque fare leva su nulla per resistergli e contrattaccare, se non disporsi al completo abbandono di questo mondo, con tutto ciò che questo comporta in termini di separazione e rifiuto di ogni logica interna al sistema — compresa quella della rivoluzione, che invece per Cesarano trova la sua concreta possibilità proprio nell’insorgere di una reale presenza umana nel contesto spettrale del dominio dell’ipervalorizzazione. [12]

Francesco “Kukki” Santini, nel suo libro di considerazioni sull’opera di Cesarano e sull’esperienza della corrente comunista radicale in Italia, sottolinea come il concetto di «classe universale», che deriva sempre dall’esperienza teorica di Camatte e della rivista «Invariance»viene assunto e rilanciato da Cesarano in una prospettiva di rivoluzione biologica, entro la quale l’“utopia capitale si contrappone all’intera specie umana. [13] In questo contesto, tanto le crisi dell’Ego (che la psicanalisi tenta di ricomprendere e classificare) quanto le esplosioni cieche di rabbia e di rivolta sono sempre avvisaglie di un crollo generalizzato, di una insostenibilità fondamentale della valorizzazione introiettata che conduce sia l’individuo che la collettività a sempre più frequenti momenti di violenza e disperazione. Corpo e mente alienati, ridotti ad appendice del sistema di protesi, individuo e collettività non sopportano più la loro condizione e vedono (o intuiscono) l’inferno nella vita che hanno intorno e di cui loro stessi sono parte. Per quanto gesti frammentari, isolati o apparentemente inconsapevoli, Cesarano scorge in essi la certezza di un’affermazione concreta del comunismo come recupero di un rapporto non separato dal movimento organico della totalità:

Mentre il sipario sta calando sullo spettacolo delle guerre d’ideologia, combattute fuori dai confini, la guerra è davvero, come dice Marcuse, dappertutto e in ogni istante, ma è dappertutto e in ogni istante di ciascuno, non c’è confine che la escluda, è inseparabile dai processi di produzione. Questa guerra è la critica pratica che si esprime, nient’altro che questo. Le ottiche di comodo della politica e della sociologia prestano alla critica maschere e panni di ricambio ogni volta che essa si affaccia — ma si affaccia sempre — nello sforzo patente di esorcizzarla. Il criminale, la teppa, i drogati, i dropouts, i settari di religioni e di ideologie aliene, i disadattati, i «giovani», i sottoproletari, i «nevrotici», gli alienati mentali (!): il nemico originale, l’anticristo, coloro che con la loro stessa esistenza negano l’insieme hanno troppi connotati per non vedere, semplicemente, che sono tutti. La critica è latente in ciascuno. [14]

 D’altro canto, il nodo indissolubile che lega la sopravvivenza individuale a quella dell’intera organizzazione del capitale può, prima o poi, presentare il conto. La specie che insorge nel quotidiano ha una controparte deformata dall’ininterrotta sofferenza che uomini e donne provano ripetendo costantemente la loro domesticità tossica: l’esistenza vissuta come atomi del Capitale. Dove ogni giorno può essere materia di rivoluzione, ogni giorno ha anche il volto della sconfitta, dell’alienazione, della morte incipiente. E, così come il corpo della specie sente la necessità del rovesciamento, altrettanto fisicamente esso patisce l’offesa del perpetuarsi del mondo capitalista e di sé stesso come sua parte-schiava. Tanto più che l’ennesima illusione fa sì che ogni singola soggettività si senta completamente separata e sola proprio nel momento in cui è invece più intimamente connessa (catturata) alla riproduzione della società che ha interiorizzato come un destino. Le pareti della cella si stringono, assediano fino a togliere il fiato alla coscienza infelice che non riesca a fare il salto dalla dannazione privata al movimento organico e comune. Tra le pagine di Cesarano critico radicale affiora in maniera sporadica ma persistente la consapevolezza che la «competenza per dolore» che ognuno può vantare sotto questo cielo non garantisce la salvezza dall’inferno personale. [15] Lo sguardo che vede la catastrofe può sempre perdervisi irrimediabilmente. 

Proprio in quanto la riappropriazione individuale, privata, del senso vivo come destino richiama in sé la connessione organica del suo proprio movimento con la totalità naturante, si nega ad essere vissuta come peripezia sui generis, ad essere consumata come avventura solitaria, evento dell’interiorità separata, squisitezza segreta di un «io» prigioniero della propria soggettività: esige immediatamente di vivere per davvero, cioè di rapportarsi immediatamente, per verificarsi, con gli «altri»; la vita richiamata nel suo essere autentico in un punto, si generalizza necessariamente e immediatamente all’intero (…) Ma per l’individuo che si riappropri anche per un istante del suo senso vivo, l’altro (gli «altri») sono immediatamente, per il loro essere costituiti e costituenti la totalità in essere del capitale dominante, inessenti dal punto di vista della vita. Riappropriarsi individualmente per un istante della vita come senso significa percepirsi immediatamente e definitoriamente come aboliti dall’Altro, nel medesimo tempo che l’Altro appare come l’irrealtà materialmente dominante. La persona abolita non può riaffiorare sulla superficie cristallizzata della comunità materiale senza esplodere istantaneamente. La riappropriazione individuale, privata, del senso vivo si ribalta dunque nella sua immediata perdita. [16]

È ancora Kukki Santini a sottolineare come, nello sforzo teorico e pratico di Cesarano, si possa leggere in controluce anche «l’assedio subito dall’individuo isolato, immerso nella quotidianità allucinatoria in cui viaggia incarnando via via i vari ruoli economico-sociali cui deve piegarsi la “personalità” impossibilitata all’incontro con gli altri dall’equivoco sociale della circolazione di uomini ridotti a «quanta» di capitale (almeno finché la passione, rischio e prova iniziatica, non apra la strada al riconoscimento di un altro e, attraverso questo passaggio, a quello degli altri». [17] Un luogo in chiaroscuro, dove sembrano incontrarsi il critico radicale e il poeta. 

Se è vero (e Cesarano stesso, come si è già visto, la presenterà in questi termini) che in un certo senso è il secondo a passare il testimone al primo — abbandonando “ufficialmente” la letteratura per spiccare il salto oltre le mura della prigione alla ricerca di espressioni libere da forme alienate e autovalorizzanti — d’altro canto si può vedere come in ognuno dei due si agiti già o ancora l’altro. [18] La percezione quasi fisica della quotidiana alienazione e della progressiva estensione del dominio del male oltre ogni possibilità di liberazione da parte dell’individuo isolato è, in effetti, il tema dei poemetti di Cesarano. A questo, si accompagna la riflessione sulla possibilità stessa della lingua e della parola, strumento di liberazione o contraddizione insolubile che incatena l’essere umano al suo inferno privato. Dieci anni prima della lettera a Maria Corti con la quale annuncerà la fine dell’«operazione», Cesarano redigeva assieme a Giovanni Raboni (e proprio sulle pagine di «Paragone») una Specie di dibattito sulla scrittura in versi.

Può essere interessante allora ripartire da qui, per osservare come già allora il poeta ricercasse un rapporto positivo alle rovine del mondo che, in seguito, il critico radicale si preoccuperà di attraversare.

2. Bricoleur, voyeur, songeur

Questa lor tracotanza non è nova;

ché già l’usaro a men segreta porta,

la qual senza serrame ancor si trova. 

(Inferno, VIII, vv. 124-6)  

Tra il III e il IV canto dell’Inferno dantesco comincia il descensus ad inferos propriamente detto. Varcata la famosa porta dell’insegna — lasciate ogne speranza, voi ch’entrate —, il poeta ci dà conto sia come personaggio che come scrittore del proprio rapporto con la catabasi, nelle sue diverse manifestazioni letterarie e pseudo-bibliche. L’incontro con Omero, Orazio, Ovidio e Lucano (oltre che con Virgilio) in quel luogo illuminato da «un fuoco | ch’emisero di tenebre vincia» — cioè il limbo —  è, in questo senso, piuttosto indicativo. [19] Com’è indicativa, del resto, la condizione di questi poeti e degli altri «spiriti spessi»: perduti per difetto di fede più che per peccato, costretti a vivere in una situazione di perpetua assenza; una mancanza fondativa che tuttavia non impedisce una qualche residua forma di felicità: «sanza speme vivemo in disio». [20]

È, ovviamente, una suggestione più che una tentativo di interpretazione intertestuale dell’opera di Cesarano; ci sembra tuttavia evidente come una certa qualità “infernale” assuma, tra queste pagine, una doppia valenza. Da un lato, lo sguardo che vede in ogni giorno l’inferno e le macerie nel quotidiano (secondo la linea d’affinità benjaminiana per cui «l’inferno non è nulla che ci attenda, ma è questa vita qui»); [21] dall’altro, un vero e proprio inferno linguistico, che si manifesta ogni qual volta ci si avveda che anche il poeta è (salvo un minimo margine) gestito dal suo mondo; parla e soprattutto scrive un lingua che gli è tolta; in questo non dissimile, per quanto sia un’analogia spericolata (dato che soprassiede sulle condizioni materiali di violenza ricevuta) da quel colonizzato che nella riflessione di Frantz Fanon qualifica i «dannati della terra». [22] In effetti, Cesarano è poeta in un’epoca che sta prendendo coscienza della dimensione convenzionale entro cui il linguaggio della poesia è costretto a muoversi. [23] Siamo a cavallo tra un’idea di «messaggio dell’arte» a metà tra quel che ancora poteva valere per il Fortini di Verifica dei poteri — ossia il linguaggio della poesia come «anticipazione e prefigurazione dell’“assente” e insieme orpello di una società delenda» — e quello che Cesarano arriverà amaramente a constatare nella Critica dell’utopia capitale: «una denuncia sui generis dello stato delle cose pronunziata con spezzoni stravolti della lingua medesima grazie al quale lo stato delle cose è». 

L’ambientazione su cui si apre la Specie di dibattito si confà, d’altronde, alla situazione limbica e sospesa degli spiriti magni danteschi, ancora percorribile ma conclamatamente «sanza speme»; il solo dato di partenza è la consapevolezza — benissimo espressa in Finis fabulae, explicit della Vita in versi di Giovanni Giudici — che «l’essere è più del dire»; che «il non dire è a volte anche non essere»; ma che, rispetto all’essere, il dire è sempre e comunque una diminuzione, un più o meno miserabile surrogato in mancanza di meglio. Ed è proprio enfatizzando questo «dire» che Cesarano prende la parola in uno scenario che si presenta in rovina, ridotto in macerie, disastrato:

Presa la parola, la si può tenere o lasciare (pur sempre detenendola) o rovesciare. C’è chi, all’impiedi nel mezzo della lingua e delle rovine della lingua ostinatamente conserva, come la più cara, capitale, unica, l’intenzione di parlare e dunque raccoglie intorno a sé – come il bricoleur di Lévi-Strauss – quanto è a portata di mano, s’ingegna, s’arrangia, poco o comunque non mai tanto da interrompersi o da desistere si preoccupa che il materiale raccolto e subito usato sia o no l’idealmente giusto materiale, il più resistente, il più nobile: ha, costui, la mente occupata dall’urgenza e dalla necessità, deve (vuole perché sente di dovere) parlare e crede che sia giusto farlo in quanto soprattutto è convinto che sia enormemente ingiusto rinunziare a farlo. C’è invece chi, accampato sulle macerie della lingua, tra orrore e amore s’invaghisce del disastro, e al contrario del bricoleur ostinato, non altro vede dinanzi a sé che la forma del disastro, la forma dunque dell’uniforme, che all’infinito ritrae, voyeur ossessionato, per poi, di questi reportages dal diluvio, non senza ironia o collera, con gli imperterriti archivisti fittamente commerciare. E c’è infine chi, misurata la vastità del disastro, constatata l’impossibilità d’operare secondo il modello che gli è inseparabile della perfetta e garantita adeguatezza, sdegnando così l’improvvisato e umile arrangiarsi del bricoleur come lo stralunato mal di rovine del voyeur, risolutamente volge le spalle, traguarda nel passato, calcola un altro possibile destino, un’alternativa non verificatasi probabilità, ne inferisce le norme d’un ordine che non esiste e a queste, con gli archivisti trattenendo rapporti (premurosi sempre) ma sprezzanti, s’attiene, immagina di attenersi, songeur tutto d’un pezzo che baratta il futuro con il passato. [24]

È evidente che, nella metafora critica, le tre categorie sopra citate fanno riferimento a tre vere e proprie poetiche; e come Cesarano prenda risolutamente partito per la prima. In questo senso, quel certo voyeurismo tipico delle scritture neoavanguardistiche («furore frustrato» che sceglie di contrastare il caos «sul medesimo terreno degli assurdi reciproci e dei reciproci mutismi e sordità»; di fatto riversando la collera contro se stessa), [25] differisce solo nelle disposizioni operative interne al «fare» poetico da quel rifiuto sdegnoso della situazione presente che porta i “sognatori” (dietro i quali non è difficile riconoscere poeti dal «pallore innaturale, procurato e impreciso» come Franco Fortini). Entrambe queste due correnti, infatti, tendono a disprezzare «l’improvvisato e umile arrangiarsi del bricoleur», il quale tuttavia non può né deve rinunciare a:

La speranza che esista, malgrado tutto, il bersaglio umano e che, pur nella frana, pur nella predestinata e logica inadeguatezza dei mezzi e sordità del mondo, la parola possa, in qualche misura che sempre più s’assottiglia ma resiste, raggiungerlo, destinarglisi. Una parola che non suoni  come l’ipotetico verbo della salvezza pronunziato dal di fuori del disastro, non si ponga come ricattatorio e falso modello d’un “altrimenti” che non può darsi; ma suoni invece, compromessa, distorta, a malapena riconoscibile, dal di dentro del disastro (non dalla parte del disastro) dove tutti stiamo, ugualmente dannati, e finisca per valere come pegno — come uno dei pegni — di resistenza, d’oltranza, d’irriducibilità all’inumano. [26]

In una vita che, nelle parole di Adorno «è diventata l’ideologia della propria assenza», [27] la parola poetica vale ancora a questa altezza, per Cesarano, come uno dei modi per fissare le rovine senza invaghirsene, per dire “la pura verità” dal cuore della dannazione senza alcuna pretesa di poter essere in o indicare un “fuori”. Cesarano è insomma ancora convinto che “l’operazione” si possa fare, anche in e attraverso la letteratura. De re nostra agitur, insomma, come “documento” e non come “monumento” del disastro; nell’inconfessata e disperata speranza che tutto ciò possa incontrare ed essere redento da occasioni materialmente rivoluzionarie. Contro l’adagio economico-storicistico che, applicato alla “cultura”, dispone le scritture lungo una linea progressiva — per cui ogni nuovo libro di un autore “divora” il precedente — potremmo dire allora che, ogni qual volta leggiamo una poesia di Cesarano, l’«operazione» (benché storicamente terminata) è ancora in atto. 

Leggiamole, allora. Vale la pena allora di tornare su alcuni luoghi salienti della sua scrittura in versi, e in particolare a due poemetti — Autodromo e Weekend,raccolti prima in La pura verità e poi in La tartaruga di Jastov — che mettono in scena momenti apparentemente banali di quotidianità borghese, di cui il poeta è protagonista; e che inquadrano nitidamente il fuoco indistinto entro cui convergono consapevolezza della dannazione collettiva e sofferenza di un inferno privato — spesso legato a un desiderio di comunione amorosa cui è sottratto l’eros come totalità.

3. Autodromo:al di là, ma non oltre

la lunga meditazione sugli animali emblematici
nella pausa, fra due sirene
(F. Fortini, Senza mediazione, in Una volta per sempre, 1963)

Autodromo

I

Sia mattina.

            (Ha rintronato l’alba

di spari e poi si sono diradati, spersi 

                i passi verdi

di cacciatori sempre più lontani.)

                                                  Ma di nuovo

dallo stand del tiro

a volo, caricate le cassette

Con i primi piccioni ancora umidi

                    – Pronti Pull! –

S’appiattisce il cubetto scatta a volo

lo zurito….

                  nuovi schianti. Noi siamo

di qua dal muro, andiamo

aggirando l’ippodromo – laggiù

in fila sgambano i galoppatori –

verso l’ingresso dell’autodromo.

(Siano i voli

degli scampati zuritos folli,

forbiciate sopra gli stecchiti

platani – hanno code mozzate – 

                                                    e uno

agli occhi di casuali presenti

come colomba sul ramo

giunge e posa

ma subito piomba

stecchito, se può servire.)

 II

Bianche e lontane, lentamente, nuvole

sopra l’orizzonte che ai rami alti

dei platani s’impiglia,

spicca la gazza codalunga,

              ma qui esplode

un motore; sotto le suole

sul terrazzo del box, nel cemento

si trasmette una vibrazione, s’aggiunge

al frastuono che morde nei timpani, all’odore

volatile di ricino…

                       Il cancello che si spalanca,

un muso di bestia che annusa l’asfalto

esce adagio

                  poi intera si vede la macchina,

ci si sporge a vederla, a leggere

la marca – ma la forma

ha già detto

                  ai tweed, ai giacchetta di daino,

ai blusotti di cuoi (poco numerosi

nel giorno feriale di prove).

                                           Cammina

in tuta il meccanico, scorta la macchina

col fumo dello scappamento che sfiata

sulle ginocchia lente e le macchia.

Una calotta

azzurra il cranio del pilota

immobile mani guantate

e un’area rosea sotto gli occhialoni

                Accelera,

si premono i pollici

sui pulsanti dei cronometri.

(Il coniglio:

                 – selvatico – nella siepe

della curva,

                 prima schiacciato

dal rumore che cresce che non finisce

mai e poi ammattito

quando quasi siamo all’odore urlante

della gomma,

                si precipita

cieco. Nel pelo

parassiti e semi a uncino di vegetazione

selvatica.

               Troppo piccolo?)

III

Nel luogo

dove la strada si tuffa 

tra robinie, sottopassa

la curva erta dell’alta 

velocità: auto ferma.

                                Due, Nina

di profilo fermamente:

«Pare un muro

da bambine lanciando la palla

che battono le mani.»

                               E l’uomo

forse suo:

«Vedessi quando alte

sopra gli alberi, tenute al cemento

come le lucertole

di scatto sopra il muro.»

«Adesso che non passano

                                      com’è inutile!»

E aldilà, dopo siepi, il rovescio

bastione, travi di cemento

e sotto la smisurata scodella

tanti stalli in fila

per erbe matte legname e matasse

di spinato.

                      «Ma guarda,

guarda nell’erba quanti!»

                              I conigli

(selvatici). Hanno orecchie diritte

tutti di profilo un occhio

                     piccoli

e genitori più grossi.

                    A saltelli

in fretta dal prato

su e giù pon-pon bianchi

da cartone animato.

IV

Tralicci da anni provvisori 

le due tribune di Lesmo,

su basi di cemento

(tra alberi, con foglie

collose in autunno, nella fanghiglia)

e panche di legno come assi

               da granaio o umide

fino al cuore o così secche

da sembrare di cenere.

«Così soli a guardare niente!»

 «Vedi che coda lunga la gazza.»

«Da ridere noi due in tribuna e una gazza.»

                 «E un coniglio» «Dove

                  il coniglio?»

«Nella siepe e senti gli spari?»

«Chi spara?»

                   «Tiratori

al piccione, ma ora

questo che viene è motore

da corsa. Cambia,

                           è qua!»

(L’auto da corsa, bassa

che il pilota è disteso, curva,

divincola sulle gomme,

                                     scatta

a perdifiato il coniglio,

l’auto scarta, urta

                           e il corpo

morto già sulla groppa prilla

come una trottola e come lenta

l’auto su sé si volta,

due giri tra siepe e alberi,

col pilota che non muove

né casco né occhiali né guanti.)

Coglie dalla rastrelliera al passo

l’arma – fucile molto

diritto e quasi blu – 

l’uomo e da solo avanza

sulla pedana

                    di cemento, simile

a trampolino (nell’erba

pesta dai ritorni dei portatori).

Cinque cassette davanti

verdi, chiuse, numerate.

                                    L’aria è chiara, ma

vociano invece farisei

dal recinto del betting: calcolo

di probabilità.

Il gentiluomo imbraccia e medita.

Scatta la cassetta a sorte:

lo zurito sta.

                     Viene

rotolando gettata la boccia,

intanto da sopra le canne,

ma in dubbio,

                      la faccia

che lo misura.

Con uno spicco tranquillo

lo zurito se ne va. 

                            Polvere

la prima fucilata e vento

di piombo la seconda.

(Dal betting i giocatori: «Ah!»)

(Da su sia strano il campo

di tiro ma più strano

il biplano in alto

con una coda scritta:

«Pasta del Capitano».)

VI

Frena a gradi fino al box.

accosta. Solleva gli occhiali.

Dalla bocca asciutta

voce: «Mein Gott, i conigli:

testacoda, non si può!»

Trotta il meccanico in tuta

con l’occhio smaltato nero

e la bocca atteggiata

come non piace.

La macchina resta vuota

che si vede il cuoio

pesto poco mentre la spingono

aldilà del cancello,

(La pelliccia della donna

si muove a pieghe lunghe.)

VII

Di ragazza la bocca e d’uomo giovane

la chiarezza della fronte.

Qui Nina dice: «Ma soffrirai

per i tuoi bambini».

E: «Soffrirò,

soffriranno, non si può

sapere, non si può sapere,

e con questo?

                    Il male

è tutto, il male è

che non si può spengere il male,

che non si sa scegliere

un bene certo».

«Io ti amo e tu 

mi ami, non è 

questo un bene?»

«Non lo so se è 

un bene, so che è 

il nostro bene.»

Mentre si matura

fino in fondo al rovo la luce;

monta di quando in quando uno scatenato

motore; scoppiano spari

lontani e qualche colombo crolla

che ha tenuto il piombo

fino a toccare il ramo.

E Nina dirà: «Qui

è tutto un po’ strano, tutto

un po’ fuori luogo».

                       «Come noi siamo 

e non aver paura».

VIII

Il pilota viene a piedi,

solo, sulla destra della pista.

L’ombra delle querce nella prospettiva

riga sempre più fitta

l’asfalto fino alla curva

che appare quasi nera.

Ma da vicino ha una faccia, la strada,

tutta increspata, tutta granitura

e corre la formica, si trascina

lo scarabeo e giace

il fuscello secco e rotola la ghianda.

Il pilota passo passo s’avvia

alla curva; qui s’accoscia, 

tocca l’asfalto, mira

rasoterra lungo la striscia

doppia di raschiati pneumatici.

Dunque s’avvede dei due

seduti loro soli in tribuna,

 «Scheisse» dice e via

a passo diverso mani in tasca.

Quanti passi prima,

giacchetta nero, gambe magre, chiari

capelli, prima che scompaia

al sottopasso, un pezzo

per volta, come una figura

di carta tratta giù piano da una fessura.

IX

Il cavallo che sbuca nella radura

senza sguardo ammusando dietro la corda

che lo tira, e poi sgamba

con scatti fissi di lunghi

muscoli sottopelle, strigliato,

il cavallo, prodotto di campioni

si prepara.

X

E nella lunga fila già di primo mattino

così lunga un furgone

commerciale ha travi di legno

sporgenti oltre la cabina, il regolamentare

segnale a dondolare su cui cola la resina

dai tagli freschi.

Mezza dozzina di giovani

l’occupa, arrossati al mattino

con giubbe d’incerato e il giornale

piegato sotto i maglioni. Martelli

hanno e chiodi,

rotoli di filo di ferro, 

tenaglie, seghetti e un disegno

fatto alla svelta.

                            Lo sa il pilota

per dove traversare l’ippodromo,

passare il ceduo e la pioppaia e la cascina

fino ai platani della curva e alla rete

Scendono qui, già deciso; si scarica

legname e rotoli, subito si fabbrica

tra due platani d’appoggio;

una trava incrocia 

l’altra, s’annoda

filo di ferro e 

il chiodo rafforza;

la tribunesca cresce in fretta

non autorizzata.

                           «Libera

iniziativa, arte d’arrangiarsi»

visto che s’hanno due mani

e aiutarsi.

                Molte ore prima

che la corsa incominci, allineati

siedono i giovanotti davanti alla rete

–    di là la pista è vuota –  

danno mano al pani quasi caldo

alla bologna, una boccata al fiasco.

(Più tardi e dall’altro lato

alle tribune fisse della curva,

dapprima scarsa ma di continuo più fitta

viene altra gente: uomini

con programmi plasticati di molte pagine

e numerose radiole portatili, donne

con foulards leggeri sui capelli,

occhi-oggetto da vedere nel viso

che non sanno cosa guardare,

donne che non sanno mai cosa fare,

Là tra quelli tre

               emiliani

portano una gran pentola e piatti

e posate, bicchieri e fiaschi,

fino i tovaglioli,

e decidono subito di mangiare,

con traffico di piatti, mani

che non bastano e le ginocchia

reggono in equilibrio e intanto giovani

benvestiti troppo stretti nella fila avanti

si voltano continuamente, mangiare 

spaghetti sulla loro testa! mentre

è cominciata la corsa.

XI

Il corpo della giovane

donna decapitata: enigma

che l’uomo giovane

rimasto seduto, in camicia, contro la rete

divelta a mezzo,

                       fissa

dal fondo del viso scolorato

non si capisce più se vivo

o se da lesione invisibile

anche lui fulminato.

XII

E ora a casa: trentamila

automobili, fitte

ai lati della pista

                        già per tante ore

ferme al sole, 

tutte insieme con semicircolari

manovre e sguardi di vetri

ruotati in giro

                      si muovono

mandando bagliori

dai dorsi di sei o sette

(migliaia di volte) colori.

I motociclisti se ne sono andati:

caschi (bocce matte)

a serpentine sopra i tetti in bollore;

ma chi ha l’auto tutt’altro affare.

(Se la prendono calma: smontano

quattro passi più avanti a vedere,

sterzano sul prato, bambini giù a giocare

nell’erba; si sta a ascoltare

dall’orecchio applicato la radiola

                   e guardare

girandovi attorno la nuova

Abarth senza cofano che pare

una cabina spaziale, lasciata ferma

in mezzo al prato, con il giovane uomo

sdraiato leggendo il giornale.)

Guarda cos’è di bello incorporato il fanale,

hai sentito la collisione, otto morti, dove?

ha i freni a disco, il doppio carburatore,

dietro a quegli alberi, alla parabolica,

s’esagera sempre, psicosi, vedremo

stasera al telesport.

«Categoricamente non si faranno più corse.»

XIII

Esce per prima dal piccolissimo

foro nella terra la formica, 

poi dal cunicolo il topo e dal cuore

del bosco il coniglio e discendono

dai nascondigli aerei la gazza,

il piccione scodato e lo storno.

Tanto da mangiare, troppo

ai piedi della rete, tra le assi

della tribuna, nell’erba

pesta come da tumulto

di cavalli.

Esce dal fosso la biscia

e dal fondo del bosco il quasi invisibile

gatto selvatico, in cerca

una d’un odore perso di bambini,

l’altro d’un sentore pesto di siero

e s’attardano, dopo che fa notte,

olfatto che non può sbagliare, sui resti

della domenica. 

Capitolo ideale della Pura verità — pubblicato su «Questo e altro» proprio nel 1963 —, Autodromo è un componimento che ha al suo centro la rivelazione dello stato di cose privato di ogni possibilità di presa, la percezione corporea (ma non liberatrice) di un’“irrealtà dominante” entro la quale si è prigionieri. Come in altre occasioni, anche qui Cesarano adotta quel gusto «ottico» (secondo la definizione di Raboni) e figurativo che trova la sua massima espressione nella sceneggiatura per film; così come, del resto, a essere inquadrata è una tipica scena piccolo borghese — in questo caso uno spettacolo domenicale all’autodromo di Monza, una gita i cui protagonisti sono Nina e Giorgio, coppia minima sotto il dominio reale del capitale. La forma stessa dell’amore di coppia in cui — qui e altrove — i due cercano rifugio e conforto dallo straniamento è al contempo ciò che non basta a salvarli, ciò che fa loro scoprire il vuoto e il male sottesi alle cose del mondo. «“Io ti amo e tu | mi ami, non è | questo un bene?” | “Non lo so se è | un bene, so che è | il nostro bene»: laddove «nostro» può significare il privato di coppia come quello di qualunque essere umano; in entrambi i casi, alienati. Qualora riuscissero a uscirne, anche gli amanti potrebbero vivere la propria passione liberata nella forma che incarnano. Non è questo il male; il male è il tutto di cui anche loro sono parte ed espressione. 

Ma così non è, e l’avvisaglia della «pura verità» si manifesta in una tranquilla domenica brianzola nella sensazione diffusa di una «paura» non meglio specificata, ma che lascia sottintesa la percezione di trovarsi sull’orlo di un baratro — doppiata anche formalmente dal ricorso a una prosodia endecasillabica continuamente spezzata, nonché dall’accumulo di enjambement. L’atmosfera è integralmente spettrale: la morte circonda i due protagonisti — morte di piccoli animali (i colombi, i conigli) e la morte per incidente di una donna; evento che non scuote più di tanto gli astanti, e che viene commentato con lo stesso interesse del nuovo modello di automobile. Gli uomini non si avvedono della morte che hanno intorno, al massimo ne riescono ad avere un vago sentore, a ricavarne un’inquietudine senza oggetto. Il panorama del mondo è inospitale, «strano» e straniato; la pubblicità del dentifricio trascinata in aria dal biplano si staglia quasi minacciosa e perturbante, e quel congiuntivo («Da su sia strano il campo | di tiro ma più strano | il biplano in alto | con una coda scritta) è esortativo: Cesarano sta chiedendo, tra parentesi, di vedere la scena in questo modo, dopo averla mostrata, quasi come un’indicazione di scena. 

La chiacchiera vuota di fronte alla «pura verità» (la morte, l’irrealtà sempre possibile e sempre fattuale), insieme al riferimento pubblicitario e per estensione al consumo (e al suo simbolo centrale, l’automobile) popolano la scena di merci-spettacolo. Nel 2021 l’automobile come emblema del consumo può suonare trito o banale; altra cosa era ovviamente nel 1962. Ma, d’altro canto, certe nostre odierne pubblicità alla radio recitano: «finalmente ferie, niente più impegni, niente più automobile»… Autodromo è un poemetto che pullula di riferimenti, nel tessuto e nel linguaggio poetico, ad elementi anche vistosamente «impoetici»: «uomini | con programmi plasticati di molte pagine | e numerose radiole portatili, donne | con foulards leggeri sui capelli, | occhi-oggetto da vedere nel viso | che non sanno cosa guardare». ciò che si vede è, propriamente, il niente di cui è fatta la vita e il mondo contemporaneo. La macchina resta ancora al centro dell’attenzione di tutti: la triade delle conversazioni è macchina-morte-consumo. Ma il poema si chiude sui “resti della domenica”: i rifiuti, ancora una volta rovine della quotidianità borghese. Quello che davvero rimane di questa domenica spettrale, dopo la morte e l’inquietudine, sono unicamente gli avanzi del cibo consumato durante lo spettacolo, che nutre di fatto anche gli altri esseri viventi — colonizzati dal modo di vita della comunità del capitale. 

È interessante peraltro osservare che Autodromo  — come del resto Week-end — figurerà poi all’interno della Tartaruga di Jastov. Il poemetto reca con sé, in effetti, un’ambiguità strutturale che varia a seconda del ‘discorso in versi’ entro il quale viene inquadrato. Nel primo caso, emerge la qualità “anti-idillica” di sceneggiatura conclusa in se stessa — di raccolta di racconti, insomma, incentrata su quell’arcadia dell’orrido che è l’imitazione perfetta della vita assunta come ideologia della propria assenza. Nel secondo caso, invece, a brillare maggiormente è il valore di ‘tappa’ conoscitiva in direzione di un’utopia sempre sfuggente ma avvertita in termini via via più intimi e, a loro volta, corporei. «La storia appare storta, deviata | ma sembra che ognuno di noi | si tenga a un diverso paesaggio»: in questo verso tratto da Una visita di fine estate (componimento datato ’62-’63 e raccolto nella Tartaruga) si avverte il crinale tra una condizione nella quale gli appigli del quotidiano sono, per quanto allucinati, un territorio che è prigione e campo di battaglia; e che, al contempo, lasciano intravedere i fili invisibili di un mondo senza «errore» (errore che, ricordiamo, nella stessa poesia Cesarano dichiara «leggere» in «tutto il visibile»).

4. Weekend: Bisogno di che? Nostalgia di che?

Week-end

I

Verso febbraio, qui,

– «nebbie

in Val Padana» –

una certa frase, l’accennata 

canzone e subito

voglia di andare.

«Gli ulivi.» « E seduti

sul molo, la canna,

pescare niente» « E quando quasi

a Genova guardi un po’ sopra

i tetti, dici il mare.»

«E domani, andare?»

Con Nina domani andare.

II

«Chi ci garantisce…?»

Dietro la nebbia, la città

                     alle spalle.

Al distributore appannato inservienti 

fanno in fretta i preparativi.

                       Non sanno

fin dove e se,

dove si muovono c’è nebbia.

                        La cabina

del bigliettario, un po’ nautica

(prora e poppa), un po’

librata (funivia)

                        «Vende

nomi di città»

                    sparisce via,

dietro la nebbia, alle spalle.

«E se

un camion per traverso,

una macchina sbanda?»

«Una probabilità

che non ferma.»

Per sapere dove

il contachilometri:

                     seduti

nella vibrazione, andare in niente

«una domenica di merda, verso»

piuttosto contro, incrociando

(lampi, ombre, suoni-lampo)

convogli, avvolti

                       (nella paura) nell’aurora orba

come s’avesse tutti

perduto casa o memoria…

«Qui dovrebbero esserci colline.»

«Esperienza: descrivi.»

«Beh, colline» «Verdi?»

«Forse adesso no. Con case»

«Molte?» «Poche, piccole.»

«Cani?» «E animali.»

«E il contadino piccolo…»

«…in mezzo al campo vicino all’albero»

«Mi viene voglia di piangere.»

«A me di scendere

                     e cercare. »

III

«Ma se mi chiedi bisogno

di che, nostalgia

di che, e dove andiamo,

sai cosa viene

in mente: la penisoletta

nel lustro, la curva sopra le conifere,

una strada in discesa tra altre conifere,

che non so se è vera o se

è un luogo dei miei sogni

(quelli dormiti, dico),

cartoline, idee fisse, paesaggi

da pubblicità, cortometraggi, e questo

mi esaspera…»

«Ho paura che non sappiamo

nemmeno più guardare,

alla lettera: non vediamo più nulla.»

«Me mi vedi?»

«Senti come bisogna

staccarsi per amare:

come tutto è contrario?

come ogni cosa contraddice

noi e sé; ma chi le tocca,

queste “Cose”, chi ci mette mano?

Se accade, sa di furto

o di grazia; chi ne mangia

di questo azzimo

industriale (miracolato), chi trae

un bene vero dal male?»

IV 

Tante gallerie per sortire

              sempre nello stesso

              giorno di febbraio;

non lo si dice «il mare!» per una striscia

che appare, di metallo, sopra i tetti

di Genova,

             striscia tinta

del colore dei gasometri,

                                   ma i tubi

torti e le torri

delle raffinerie dipinti da giocattoli;

quasi un’allegria e quasi

giusto il sorriso

V

«Ma la mimosa è fiorita!»

            «Dove le mimose?»

«Guarda là e là la mimosa!»

(Questa colonna che procede

                        al passo

– «inutile, le cerco tardi» – 

come stampi in catena di serie.)

«Ah, la nostra domenica!

Li vedi almeno:

ulivi, limoni selvatici, palme?»

            «Tu racconta;

            io guardo

nel bagagliaio della berlina avanti

che fa specchio:

            vedo girare

per curve che so a memoria

villini, condominii,

nelle vallette d’una volta,

            quando tiravo al ramarro.»

«Parliamo d’altro.»  «Parliamo

            del Kuwait, dove

manca l’acqua ma ognuno

ha la Packard,

            con quella

porta sull’autostrada al deserto

erba per le sue capre.

E nell’oasi di Bassora ai fili

tesi sull’orto il contadino appende

le cambiali firmate

            con l’impronta del pollice,

a spaventare i passeri.»

«Ah, la nostra domenica!»

VI

Il figlio del cafonesca, qui

            a Portofino,

ha negozio di bottiglie,

molte con whisky, qualcuna

con la nave dentro

e tutte fabbricate lontano.

Quando, a una signora, fa vedere

la flottiglia delle lampare al largo

dice: «Non sembra

            una costellazione?»

Ma all’ombra del cutter

altissimo a svernare in secca,

sotto il colbacco Nina

viso tutto scettico:

            «Di che mangia

Genepesca? La costellazione,»

(e come non volerle bene)

            «sarà un sito elegante,

non dico, ma il mare

sembra distante.»

VII

E di nuovo

– ultima curva dei Giovi –

la nebbia (andare in niente)

e il gatto un attimo

forse una piccola

tacca nel paraurti.

            «Mi piacerebbe sapere

diciamo nel raggio di un chilometro

quante lepri nei loro buchi a crescere

e quanti fagiani che guariscono

            a poco a poco.»

«Non dobbiamo più

partire di febbraio:

la nebbia è più nebbia,

febbraio più febbraio.»

VIII

«Eppure è quasi bello

chiusi nell’auto, tu ed io,

ciechi quasi ma chiari 

d’amore…»

            Ma intermittente

un segnale giallo, davanti;

al passaggio una voce: «Attenti!»

e una torcia che frigge nel fumo;

gli stivali d’una guardia

            un falò

di stracci e petroli; vetri

in polvere sotto i pneumatici e

            forme mutate di macchine

            calde d’urto,

            prima tre,

poi sei e poi non si contano;

lampi blu dal tetto d’ambulanze,

nuove torce e giacche di cuoi chine

            e sopra i baveri alzati, senza cappelli

            facce svegliate di soprassalto

e, parrebbero, scialli, pigiami:

            «Io no voglio guardare, non dirmi.»

«Si va in branco senza pensare,

e ci si sveglia a guardare

il brutto sogno in faccia.»

«M’è tornata paura…»

Anche Weekend si apre sulla gita (questa volta invernale) di Nina e Giorgio diretti a Genova con la speranza di vedere il mare. La protagonista del poemetto è questa volta la nebbia, che copre il mondo e nascondendolo lo mostra come un nulla di cui si ha sensazione fisica, dolorosa. Da subito si insinua, come in Autodromo, la sensazione di morte, ancora una volta abituale e quotidiana: la morte in macchina, un incidente in autostrada. Quelle dei due poemetti sono entrambe situazioni feriali, dove si consuma la ritualità spenta del divertimento borghese, ma se nell’autodromo in quanto spazio circoscritto la morte per incidente – ancorché appiattita nella chiacchiera – è un evento nel novero delle possibilità, e anzi il suo scampo da parte dei piloti è quasi parte stessa dello spettacolo, questa volta nello spazio aperto irrompe la banalità vera e propria della catastrofe. Nella corsa l’automobile è simbolo quasi sacro, come il toro nell’arena. Qui è semplice vettore dello spostamento domenicale.

Nella nebbia che avvolge l’autostrada si disvela l’isolamento, la solitudine comune. Gli esseri umani restano chiusi nelle macchine, separati. Non vanno verso ma contro, avvolti nella paura. Il mondo non si vede, l’esperienza è lontana, aleggia su tutto un sospetto di tristezza e abbandono: la gita della coppia assume sin da subito un sapore spettrale. Il bisogno e la nostalgia di cui i due si trovano a parlare sono figure della mancanza: la coppia gira intorno a un vuoto che non riesce a cogliere, assediata dal falso delle “cose”. Anche lo sguardo, sul quale il niente esercita il suo potere, si offusca; e l’altro (me mi vedi?) rischia di scomparire. La conversazione è molto simile a quella di Autodromo: al centro, la questione del male — «Quanto di morte noi circonda e quanto | tocca mutarne in vita per esistere», per dirla con il Pagliarani di La ragazza Carla (1962). È il male delle cose che non si riescono a toccare, con le quali non c’è contatto. Nel bel mezzo di una gita fallita banalmente per il brutto tempo Nina e il poeta scoprono che non c’è salvezza, o meglio, non c’è possibilità di salvarsi da soli. 

Il giorno di Febbraio è, peraltro, il paradigma di ogni giorno. Anche il mare, meta della gita, è soffocato dalle fabbriche e dalle costruzioni artificiali del mondo così come la natura intorno (ulivi, limoni selvatici, palme) è ormai irrimediabilmente catturata in una rete umana (villini, condomini, automobili) nella quale le cose si ritraggono e si offrono soltanto riflesse nel vetro dell’auto davanti. La gita non fa altro che rimarcare una lontananza fisica dal mondo. Anche quando i due amanti arrivano al mare scoprono di non poterlo raggiungere. Il loro viaggio manca lo scopo, letteralmente vanno in niente.

«Eppure è quasi bello | chiusi nell’auto, tu ed io, | ciechi quasi ma chiari | d’amore…». Chiusi nell’auto, separati e consapevoli della loro cecità e del loro isolamento, gli amanti provano a illudersi di ricostruire una comunione nel loro amore. È allora che irrompe di nuovo, improvvisa, la morte. Il ritorno ineludibile della paura che chiude il poemetto reca con sé una consapevolezza angosciosa: colti nell’attimo di più acuta consapevolezza delle rovine (e alla consapevolezza della transitorietà, alla lettera, fuggente di quest’attimo, sempre riassorbito nella quotidianità), i due rimangono impotenti e lontani da ogni prospettiva di redenzione. La realtà rivela il suo volto mostruoso: «Ci si sveglia a guardare | il brutto sogno in faccia», ma questo non vale ad andare oltre. In questo senso, l’impasse rintracciata già a questa altezza dal poeta Cesarano nella trasfigurazione letteraria è l’analogo e il riverbero della medesima una impasse politica del critico radicale. Bisogno e nostalgia restano, insomma, enigmi senza oracolo. 

5. La contraddizione irrisolta

Nel 1974 — lo stesso anno in cui pubblica per Dedalo Manuale di sopravvivenza, continua il lavoro alla Critica dell’utopia capitale e invia ad Anna Banti l’Introduzione a un commiato —, Cesarano cura per Garzanti una traduzione delle Confessioni di Rousseau, cui accompagna una piccola introduzione. [28] Si tratta di un testo molto breve ma che vale la pena citare perché vi si leggono in controluce molti dei motivi cui abbiamo accennato prima: Cesarano vede infatti Rousseau come esempio massimo di una contraddizione irrisolta e irrisolvibile tra un’innocenza perduta nell’infanzia del mondo e la corruzione civilizzatrice. Allo stesso modo, rintraccia nel filosofo francese un’infelicità che non può conoscere redenzione, perché si dibatte tra la certezza di un bene alla radice di ogni uomo e una fobia paranoica dell’altro, che richiude il cerchio di una solitudine soffocante, consegnata all’impossibilità di contatto reale con figure che non siano fantasmi di desideri insoddisfatti.

La confessione come umiliazione al prezzo della quale l’innocenza fondamentale, «naturale», sostanzialmente incorrotta, si afferma riscattandosi, orgogliosamente, dalle cadute in cui la «storia», inseparabilmente pubblica e privata, l’ha coinvolta nel suo ordito di tradimento perenne. Costretto a sembrare ciò che vogliono le forme allestite dell’apparenza, l’essere difende la propria costituzionale integrità denunciandole come la falsità di cui è prigioniera: la deturpante insincerità mondana. […] Narcisismo e paranoia si rincorrono come i contrappunti di quel grande tema sfuggente che è l’umanità imperfetta, il cuore della passione di Jean-Jacques. Amore di sé, mania di persecuzione («gli uomini sono cattivi, tuttavia l’uomo è naturalmente buono»), io sono l’umanità buona, gli altri l’umanità perfida, quando non lo sono io li amo, quando li amo mi disilludono e mi tradiscono, ma se fossero sinceri, se si mostrassero quali in verità sono, allora, come me, rivelerebbero la fondamentale bontà. Se l’interiorità si mostrasse. Se amare un altro fosse così facile come amare sé. [29]

Cesarano legge in Rousseau un’impasse priva di risoluzione dialettica tra una terra-madre perduta (e con lei gli uomini fondamentalmente buoni e in armonia) e i vapori velenosi di una mondanità corrotta che inevitabilmente intossica il cuore. Per sfuggire allo scacco dello stato di cose presenti lui aveva abbandonato la poesia, dopo aver provato a renderla il vettore di qualcosa che riuscisse effettivamente a colpire il bersaglio umano, ad essergli destinato come pegno di irriducibilità. Una contraddizione raggelata che si coglie nei momenti più importanti dello sforzo poetico di Cesarano, in cui appaiono le comunità mostruose, incarnazioni della modernità decrepita del Capitale divenuto non più sfera separata ma soggettività alienata della specie. L’evasione da questa quotidianità spaventosa fallisce, non trova sbocco. E se abbiamo visto come la critica radicale provi ad essere esattamente la risposta — soprattutto rifiutando ogni abbandono del mondo a favore della ricerca dell’incendio che crepita nel sottobosco dell’esperienza umana — d’altro canto spesso si può vedere, come in una stratificazione morfologica, il Cesarano di Autodromo o Week-end in tutte le forme successive. Vale insomma per le poesie – anche per quanto di doloroso e irrisolto mostrano — ciò che Kukki Santini scrisse in Apocalisse e sopravvivenza:

Oggi è attualissimo l’individuo tratteggiato in Critica dell’utopia capitale, che percepisce con una vertigine il proprio appartenere a un mondo Altro da sé e l’impossibilità di comunicare con le altre persone che, fuori dall’allucinazione, gli appaiono come maschere. È, tra l’altro, proprio nella descrizione della realtà allucinatoria del flusso continuo di rapporti alienati costituente la quotidianità del capitale, in cui l’individuo impersona via via i ruoli del suo ciclo di valorizzazione — al lavoro, in famiglia, nei rapporti «sentimentali» codificati —, che Cesarano scrive alcune delle sue pagine più forti, immediatamente assumibili dal rivoluzionario «perso» nella realtà dell’oggi. [30]

Come detto prima l’operazione, insomma, è ancora in corso. Se lo sguardo che vede le rovine del mondo si dibatte ancora in una continua contraddizione, «la cieca rincorsa verso ciò che non si può avere (giustizia-amore-verità)» è tutt’altro che terminata. [31]

[1] G. Collu, Transizione, «Invariance», 8, ottobre-dicembre 1969; poi in G. Cesarano, G. Collu, Apocalisse e rivoluzione, Dedalo, Bari, 1973 (https://www.criticaradicale.nautilus-autoproduzioni.org/1970/01/01/gianni-collu-transizione-1970/). 

[2] Cfr. J. Camatte, Con Giorgio (http://www.autprol.org/public/documenti/con_giorgio.htm).

[3] G. Cesarano, L’utopia capitalista, «Ludd. Consigli proletari», 3, gennaio 1970; poi in G. Cesarano, G. Collu, Apocalisse e rivoluzione (http://www.criticaradicale.nautilus-autoproduzioni.org/wp-content/uploads/2018/02/LUDD-CONSIGLI-PROLETARI-n°3.pdf). 

[4] Sarebbe interessante osservare l’impatto, sulla nozione di «colonizzazione» applicata all’antropomorfosi del capitale, delle intuizioni sviluppate da F. Fanon, I dannati della terra (1962) in merito alla dinamica colono-colonizzato, ampiamente diffuse nel dibattito poetico-intellettuale italiano degli anni Sessanta. Cfr. al riguardo L. Mozzachiodi, L’uomo dalla roncola. Il Fanon degli scrittori, «Ticontre. Teoria Testo Traduzione», 14, dicembre 2020 (http://www.ticontre.org/ojs/index.php/t3/article/view/340).

[5] G. Cesarano, G. Collu, Apocalisse e rivoluzione, cit., p. 14.

[6] Ivi, p. 25.

[7] M. Garau, L’ultrasinistra e il «partito storico» della rivoluzione, «Qui e ora», 12 novembre 2020 (https://quieora.ink/?p=4729). 

[8] G. Cesarano, G. Collu, Apocalisse e rivoluzione, p. 9. Cfr. Anche «L’“operazione” si conclude qui». Giorgio Cesarano al termine della letteratura, «Teatro di Oklahoma, 29 luglio 2021 (http://teatrodioklahoma.net/2021/07/28/loperazione-si-conclude-qui-giorgio-cesarano-al-termine-della-letteratura/).

[9] Cfr. M. B. Rasmussen, Riparare il mondo, porre fine al capitalismo, «Qui e ora», 14 dicembre 2019 (https://quieora.ink/?p=3698). 

[10] G. Cesarano, G. Collu, Apocalisse e rivoluzione, cit., p. 129.

[11] G. Cesarano, L’utopia capitalista, cit., p. 23.

[12] Cfr. J. Camatte, Contro la domesticazione (1973), in Id., Verso la comunità umana: scritti dal 1968 al 1977, Milano, Jaca Book, 1978: «La domesticazione che si realizzò quando il capitale si è costituito in comunità materiale ha ricomposto l’uomo che, all’inizio del suo processo, aveva distrutto-parcellizzato».

[13] Cfr. F. “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza. Considerazioni sul libro «Critica dell’utopia capitale» di Giorgio Cesarano e sull’esperienza della corrente comunista radicale in Italia, Milano, Colibri, 2021.

[14] G. Cesarano, Critica dell’utopia capitale, cit., pp. 48-9.

[15] G. Cesarano, G. Collu, Apocalisse e rivoluzione, cit., p. 129.

[16] G. Cesarano, Critica dell’utopia capitale, cit., pp. 119-20.

[17] F. “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza, cit., pp. 55-6.

[18] Cfr. «L’“operazione” si conclude qui», cit.

[19] G. Policastro, Appunti sulla catabasi di Dante nella ripresa di alcuni motivi classici:il τòπος drammatico dell’incontro e il riuso simbolico del rito, «Italianistica», 33, 3, settembre-dicembre 2004, pp. 11-27.

[20] Inferno, III, 33.

21 W. Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di G. Agamben, B. Chitussi e C.-C. Härle, Vicenza, Neri Pozza, 2012, N 9a, 1.Il motto verrà poi banalizzato da Calvino nel più famoso «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui».

[22] F. Fanon, I dannati della terra, cit.

[23] A titolo di esempio sarebbe sufficiente citare dalla quarta di copertina di A. Zanzotto, Vocativo, Milano, Mondadori, 1957, ora in Id., Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G. M. Villalta, Milano, Mondadori, 1999, p. 1436, forse il poeta in assoluto più amato da Cesarano: «Contro la suggestione delle teste di Medusa che sembrano sbarrare ogni strada, anche qui la tentazione della poesia continua, di tutto dubitosa ma non delle sue ragioni». Ma cfr. anche A. Zanzotto, Un neo-tenter de vivre (1960), ora in F. Carbognin, L’«altro spazio». Scienza, paesaggio, corpo nella poesia di Andrea Zanzotto, Nuova Editrice Magenta, Magenta, 2007, pp. 231-235: «se oggi si perdonasse all’“ingenuità” non resterebbe che lanciare, per il momento, un “manifesto del convenzionismo”. Anche i generali, oggi, si servono di armi convenzionali, giacché le vere non si possono adoperare e dunque non ci sono, “sono” solo nelle altre, attraverso le altre. Sì, sentirsi convenzionali anche quando si brucia, rispetto all’«altro» bruciare: sarebbe almeno un po’ più serio che fare gli arrabbiati o i voyeurs o gli sperimentalisti».

[24] G. Cesarano, G. Raboni, Intervento [su G. Majorino, Lotte secondarie], «Paragone», XVI, 186, agosto 1965, pp. 119-23; ora, come «Una specie di dibattito» sulla scrittura in versi,in Iid., Carteggio 1961-1971, a cura di R. Zucco, in Dissenso e conoscenza, numero monografico di «Istmi. Tracce di vita letteraria», 27, maggio 2011, pp. 193-9.

[25] Cfr. G. Cesarano, In direzione del progetto, «Questo e altro», 4, 1963, pp. 76-8.

[26] Ivi, pp. 197-8.

[27] T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (1951) Torino, Einaudi, 2006, p. 184.

[28] G. Cesarano, «Le confessioni», in J-J. Rousseau, Le confessioni, a cura di G. Cesarano, Milano, Garzanti, 1974, pp. XII-XIX.

[29] Ivi, pp. XIII-XV.

[30] F. Kukki Santini, Apocalisse e sopravvivenza, cit. p. 63.

[31] G. Cesarano, «Le confessioni», cit., p. XIII.