TENERSI TUTTO DENTRO – Riflessioni sui regimi carcerari premiali e le nostre vite
In questo articolo descriviamo la logica premiale che ha trasformato carceri e carcerati, una logica che si riflette allo stesso tempo in alcuni cambiamenti più generali delle nostre vite. Dal carcere alla società, tra l’illusione “di salvare se stessi” attraverso il successo individuale e la paura di prendere posizione e rinunciare ai propri privilegi, si lascia “sempre più spazio alla possibilità di annientare ciascuno individualmente e tutti collettivamente”. “La crisi con tutte le sue sfaccettature, […] non ha alimentato rabbia ma rassegnazione totale oltreché indifferenza.”
Dalle rivolte del marzo 2020 alla richiesta di abolire il 41 bis, studiosi e giornalisti di ogni genere hanno contribuito a raccontare di un carcere (molto spesso) lontano dalla nostra comprensione, con vissuti di chi vi è recluso (sempre) eccezionali in senso positivo e negativo. Il carcere però non riguarda solo gli uccisi e i picchiati tra le mura, o i marginali da cui nella vita si cerca di stare alla larga. Il cittadino che si crede “normale” per superiorità morale vede il carcere come qualcosa che non lo riguarderebbe mai, perché mai ci potrebbe finire dentro. Mentre dei carcerati pensa che, se stanno lì, se lo sono meritati.
Manca un racconto sulle persone che vivono tutti i giorni gli spazi imperscrutabili delle prigioni, magari con dinamiche simili a chiunque nella società “fuori”. In questo articolo parliamo di una logica proveniente dal carcere, che svela un rapporto tra interno ed esterno più stretto di quel che può sembrare: la logica premiale. Per una volta, non parliamo di carcere e carcerati in maniera eccezionale, ma per ritrovare la banalità delle nostre vite al di fuori delle mura. Non provare empatia in questo caso significherebbe l’incapacità di riconoscere i nostri simili, confermando l’alienazione che viviamo ogni giorno e ci isola l’un l’altro.
Per parlare di questo tema portiamo alcune riflessioni provenienti da autori discussi in ambito accademico e dai vissuti esperienziali raccontati in alcune lettere dal carcere. Il collettivo milanese “OLGa” (è Ora di Liberarsi dalle Galere) [1] dal 2006 pubblica all’interno di opuscoli periodici le lettere di prigionieri “in lotta”, dall’anarchico refrattario ad ogni meccanismo carcerario, al detenuto che protesta con tutt’altri strumenti, crede in Dio e ha fiducia nelle istituzioni. Queste identità hanno in comune una posizione oppositiva nei confronti dell’ordine detentivo, tuttavia questa postura deve fare i conti con un carcere sempre più complesso e labirintico, fatto di regole formali e informali che sovrapponendosi portano all’interiorizzazione di limiti spesso autoimposti. Diventa normale sentirsi impotenti, alienati, dipendenti, fino ad arrivare alla colonizzazione del proprio sé da parte dell’istituzione.
A volte in maniera eccessivamente “romantica” nelle lettere si parla del carcere “di una volta”, un carcere caratterizzato da un certo grado di solidarietà che faceva da salvagente alle condizioni interne dei detenuti. Qui si stava generalmente in spazi indecenti ma capitava addirittura che si facesse la spesa a chi non poteva permetterselo. Sebbene si trattasse di un ordine gerarchico e una organizzazione rigida, c’era una certa interdipendenza tra detenuti che poi è andata persa:
Quando vieni portato in un istituto penitenziario non hai niente per i primi giorni e i vecchi o gli amici ti danno una mano con tabacco, acqua, un fornello, pasta, shampoo […]. A distanza di 4 anni […] non vi dico come ci sono rimasto vedendo l’indifferenza che c’era tra i compagni! Questa volta niente più aiuto ma solo molta indifferenza. Se chiedevi del tabacco o una sigaretta la risposta era sempre la stessa: “No!” [2]
Uno degli stravolgimenti più importanti che ha eroso quel mondo e caratterizza ancora il carcere dagli anni recenti è stato l’avvento della legge Gozzini. Le lotte cominciate dalla fine degli anni ’60 e rilanciate nei ’70 esaurivano negli ’80 la loro forza. Quando nel 1986 la legge venne approvata, l’opinione pubblica e gli addetti ai lavori la ritennero riformista e migliorativa. Vennero innescati diversi processi verso pene alternative, e soprattutto furono inseriti nuovi percorsi per ottenere permessi come la detenzione domiciliare, la semilibertà e l’uscita anticipata. Tuttavia, se negli anni precedenti le lotte dalle fabbriche alle carceri erano dirette verso miglioramenti “generalizzati” per tutti – si pensi allo statuto dei lavoratori e alla riforma carceraria – ora i miglioramenti venivano concessi in maniera differenziata attraverso premi individuali. Nacque così il “germe” della premialità. Con il passare del tempo ci si è resi conto che ciò che spetta a tutti è stato progressivamente rimosso. Ora è l’individuo atomizzato che sulla base di chi è e di come si comporta può riavere, concesso dalla direzione, il suo diritto perduto. L’avvento della logica del premio è andata così ad erodere quelli che erano i diritti basilari.
La premialità, intesa come logica di premi e ricatti, in molti casi nelle carceri ha sostituito gli obblighi e i castighi. Il carcere ha fatto da avanguardia per le altre istituzioni della società nell’utilizzo di una logica che si integra, e talvolta sostituisce, leggi e regolamenti. Il passaggio dai diritti del detenuto ai diritti come ricompensa accompagna anche il passaggio dal giudizio sul crimine al giudizio sulla persona. In questo modo, la prigione diventa completamente autonoma dal mondo di coloro che hanno giudicato. Inoltre, grazie a queste trasformazioni, il sistema premiale legittima in parallelo anche la punizione per tutte quelle persone che sono fuori da queste logiche, proprio perché dal momento che c’è una condotta desiderata, quella indesiderata diviene sempre più “giustamente” punibile.
In carcere oggi oltre al reato conta sempre più chi sei, o meglio ciò che il carcere valuta che sei. Sono per questo cruciali due aspetti: la condizione sociale e la condotta intramuraria. Vengono così facilitati tutti quei detenuti che possono ambire alle misure alternative alla pena perché fuori dal carcere hanno una casa dove scontare i domiciliari, sono italiani e hanno i documenti in regola e magari sono anche amici di qualche proprietario di quelle cooperative che fanno reinserimento lavorativo per detenuti.
Una volta in carcere si concorre in una arena nella quale si gioca allo stesso gioco ma si parte da condizioni diseguali. L’arena è il sistema delle carceri, e ci sono carceri di serie A e carceri di serie B. Quando si finisce in uno “difficile”, mantenere un percorso intramurario positivo diviene impossibile. Questo non è dovuto tanto al rapporto con i detenuti, quanto all’impossibilità di essere valutato. Lo staff carcerario è costantemente sotto il numero regolamentare: “c’è un solo educatore che comprende n°5 sezioni da 52 detenuti a sezione!”; [3] “si arriva al folle paradosso di desiderare un provvedimento disciplinare che dia modo di conoscere la propria educatrice/ore!” [4] Invece, finire in un carcere come quello di Bollate evita di farti “scivolare sulle bucce di banana” [5] come diceva un educatore nel carcere di Opera. Va considerato inoltre che la cosa più importante per la direzione è mantenere l’ordine detentivo più che rieducare il detenuto. Di conseguenza, se il detenuto ha una buona probabilità di conseguire una regolare rieducazione bene, altrimenti può essere lasciato come un prodotto avanzato fino al momento della fine della pena in un carcere “magazzino”. Si capisce così come il carcere magazzino, il carcere punitivo e quello premiale siano parte dello stesso sistema che, dalla Gozzini in poi, sempre più cerca di differenziare carceri e carcerati in maniera funzionale al mantenimento dell’ordine detentivo
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Oggi i regimi ordinari del carcere propongono “un’infinità di possibilità trattamentali e agevolazioni rispetto a quello degli anni ’70, ’80 e ’90” [6]. Lasciando stare le carceri più punitive e quelle di serie B, nelle carceri migliori ci può finire una persona con una condizione sociale decente, un buon sostegno dall’esterno e che risulta educata e con dei modi di fare e di parlare non eccessivi. Questi regimi sono un’allegoria di un bel pezzo di società nel mondo carcerario. Nel carcere di Prato chiamavano Beverly Hills i reparti di media o bassa sicurezza dei detenuti privilegiati.[7] Qui i detenuti vivono in condizioni migliori e in spazi più liberi ma hanno meno diritti e sono più controllati. Tuttavia, anche se esistono formalmente, sembra che i diritti in carcere siano stati azzerati. Sembra un processo strettamente legato alla concessione individuale del premio. I diritti basilari vengono ora concessi su condizioni premiali. A differenza delle altre carceri, nei reparti a celle aperte (quelli dei detenuti più meritevoli) si ha la possibilità di circolare liberamente in sezione per buona parte delle ore della giornata. Nei regimi chiusi la giornata è invece scandita proprio dall’uscita dalla cella che avviene per poche ore, una volta o due all’aria, una volta nella sala di socialità, una passeggiata a far la doccia, una per andare in infermeria, una quando capita per il colloquio o l’avvocato. Le uscite nei regimi chiusi sono delle vere e proprie rotture con la quotidianità. Nelle celle aperte c’è un’offerta di servizi ben più ampia, ma in un unico spazio perimetrato. La doccia, per esempio, è in cella e non c’è nemmeno il bisogno di uscire:
I nuovi modelli di “carcere moderno” […] creano dinamiche che portano all’eliminazione completa di ogni forma di ribellione interna, eliminazione creata non solo dal timore, dalla paura dei classici metodi di punizione/contentino, ma anche e soprattutto dall’accettare il carcere, la sua routine, sottomettendosi da sé (quindi annientando la persona stessa) accettando e camuffando quel disagio diretto che si percepiva più forte e senza maschera in passato e che portava gli individui a rivoltarsi per non farsi intaccare lo spirito. [8]
La tecnologia arrivata assieme al miglioramento delle condizioni detentive come novità assoluta nelle mura carcerarie è al servizio del sistema di controllo che ha rimpiazzato la prospettiva dell’architettura panottica, ,con dispositivi che garantiscono ancora più pervasività. In carceri maschili e femminili, in regimi ordinari e speciali, telecamere e registratori fanno sentire di essere costantemente osservato e registrato:
Queste sezioni sono veramente la riproduzione del modello attuale di controllo che c’è fuori! Pur essendoci lasciato “campo libero”, per via delle celle aperte dalle 8 alle 20, con spazi come la saletta per la socialità, la biblioteca […] e l’aria decorata con giardino e alberi… vige un elevatissimo studio e controllo d’ogni nostro movimento! Ci stanno telecamere ad ogni angolo, […] Non c’è un minimo angolo di intimità… o sei guardata o ascoltata… […] Ognuna diviene controllore di se stessa, sapendo di essere controllata ad ogni minima mossa, il tutto poi rafforzato dal fatto che ti concedono certe “comodità”come contentino per zittire ed evitare che possa nascere anche un solo barlume di ribellione interna. Il capo-posto della sua mischia della saletta monitor, osserva in tempo reale ogni spostamento e abitudine di ognuna. Per questo le sbirre in sezione non si vedono quasi mai; la loro presenza serve poco o niente (anzi, il fatto che queste non le vedi aiuta ad evitare possibili conflitti con il “nemico più vicino”!). All’inizio, vedendo le celle aperte mi sentivo più “libera”, (non mi era mai capitato!), ma dopo soli due giorni ti rendi conto del motivo di tutto questo! Il gioco non vale la candela. I pochi metri in cui ti concedono di circolare stufano subito! Questo è un carcere dentro al carcere. [9]
Così, per paure indotte da una generale dipendenza nei confronti della direzione e un sospetto generale nei confronti dei compagni di sezione, il detenuto se la prende col vicino prossimo e magari chiede aiuto alle guardie. In questi reparti gli agenti sono di meno, girano non armati tra le sezioni aperte dei detenuti. Il detenuto si pone in maniera accondiscendente agli agenti e agli educatori, che hanno un potere discrezionale molto ampio per valutare il comportamento. Inoltre, eroso il “rapporto carcerato-carceriere”[10], il confine tra il detenuto accondiscendente e collaborativo sfuma sempre di più. In sezione uno sa che qualunque altro detenuto conosce la guardia, può essere un confidente, un collaboratore che comunica se qualcosa in sezione è fuori posto. Un detenuto parlava dell’“infameria”[11], ovvero del momento in cui alla sera i detenuti vanno a riferire quel che hanno visto, invece di andare in infermeria. Essere un confidente permette di ottenere vantaggi individuali (farsi inserire nella lista dei lavoratori, per esempio) e di tutelarsi da valutazioni arbitrarie. Infatti, in ogni regime disciplinare è quasi impossibile non essere costantemente nell’errore, non avere qualcosa fuori dalla norma. Per far solo un esempio, spesso in molte carceri costruire pensili con i pochi strumenti che si hanno è piuttosto normale. Si tratta di una pratica tollerata che può divenire problematica solo nel momento in cui si viene puniti per qualcos’altro. Inoltre, si ha paura di perdere quel poco che si è guadagnato da soli. Si tralascia il fatto che tutto ciò che si ha già non è stato concesso, ma strappato alla direzione attraverso le lotte di altri detenuti. Non si vuole rinunciare a niente e non si immagina niente di diverso da dove si è.
Forse a questo punto chi legge potrebbe cominciare a pensare: io non collaborerei in nessun modo con le guardie e non riprodurrei il controllo sociale interno, piuttosto starei nelle celle chiuse o comunque in reparti dove la premialità non è così forte. Va specificato che in carcere la molla che ha dato il via a questo processo di sostanziale erosione della solidarietà è l’accesso ai benefici. In particolare, la possibilità ogni sei mesi di avere uno sconto di 45 giorni se si ha una buona valutazione da parte della direzione. Per questa ragione i detenuti scelgono volontariamente di collaborare a vari livelli con la direzione per avere delle condizioni detentive migliori. Molti di loro potrebbero anche ritenerla una tattica per non “regalare la galera allo stato”[12]. La verità è che uscire prima è quel che resta di una resistenza impossibile in un luogo dove “ognuno pensa solo a se stesso.”[13]. Questo è dettato da una generale “rassegnazione”, “indifferenza” e “menefreghismo” che portano molti ad illudersi “di salvare sé stessi”, lasciando “quotidianamente sempre più spazio alla possibilità di annientare ciascuno individualmente e tutti collettivamente per la paura di prendere posizione.”[14] Il risultato è che “non esiste più la solidarietà e, pur di ottenere i benefici, ne combinano una più del diavolo. Confidarsi con qualcuno è diventato un optional e sei costretto a tenerti tutto dentro.”[15]
I privilegiati del carcere dicono molto della società fuori. Non tanto del famoso 1% della popolazione, i super ricchi, ma di tutti quelli che non sono ai margini della società. Si tratta di coloro che hanno qualche possibilità di scelta in più e dunque più libertà. Fuori, possiamo scegliere se prendere una casa in affitto, a volte comprarla, potere cambiare lavoro, poter vivere dove viviamo e non dover lasciare casa per lavorare, pagare qualcosa di più per avere un servizio migliore dello standard. Lo stesso vale per alcuni detenuti, che possono scegliere se mangiare quello che porta il carrello a pranzo o fare la spesa (che non è inclusa nel costo della detenzione) e cucinarsi qualcosa di più saporito oppure iscriversi in università e comprare i libri per studiare. Tuttavia, il relativo benessere ha il suo prezzo:
Si sta abbastanza liberi, tutto il giorno; fino alle 17 puoi andare all’aria, sono tutte celle singole, e questo è buono, ma questa cella singola ti costa troppo. Già se non vai a scuola, qua non puoi stare. Questo carcere vuole tutti i detenuti burattini.[16]
Nei reparti più premiali si trova la cristallizzazione delle istanze più rieducative. L’idea di educazione appartiene ai tempi che si vivono, che vedono come valore più importante il successo individuale. Così la rieducazione si valuta, si premia e si punisce. Le carceri poi non sono tutte uguali, ci sono i vecchi forti fatiscenti e il carcere di Bollate. Questo per dire che Bollate rappresenta un modello piramidale che si poggia sulla sofferenza della maggior parte della popolazione detentiva.
Niente di difficile da capire se si pensa al classismo che esiste fuori. Buoni cittadini hanno una buona educazione, quello che cambia tra dentro e fuori è solo la prossimità con il controllore che ci può punire al primo sgarro. In ogni caso per i privilegiati la punizione è, come per chi sta fuori, una carriera tranciata in corso d’opera: non diventeremo più quel che vogliamo diventare, ma in ogni caso non rischiamo di perdere un occhio in un pestaggio da parte delle guardie. La condotta viene valutata su quel che fai e quel che sei, dunque se non sei straniero, studi, non fai casino, stai in sezioni con tanti altri detenuti modello come te, non puoi che avere una detenzione piatta piatta, ma dove va tutto liscio. Alcune cose rispetto al mondo fuori cambiano, sono più evidenti o eccessive, ma il carcere modello ha dinamiche simili a una gran fetta della società, mentre la maggior parte delle istituzioni ne riflette i margini. “La struttura carceraria in sé è appunto l’emblema massimo e la rappresentazione della società perfetta, sotto forma di rispetto dell’autorità, dell’essere diligenti e bravi con buona condotta, servizievoli e confidenziali”[17]. In carcere, come fuori “la crisi con tutte le sue sfaccettature, […] non ha alimentato rabbia ma rassegnazione totale oltreché indifferenza.”[18]. In particolare, in questi ultimi due anni pandemici, al posto di cercare prossimità si è preferito tutelare il proprio tornaconto personale, gli studi e il lavoro.
Un detenuto in una lettera ha scritto: “si stava meglio quando si stava peggio, magari senza bidet ma con maggior coesione e solidarietà”[19]. Di nuovo parliamo di carcere e non di società, ma fuori avviene lo stesso, si delega l’amministrazione delle nostre vite allo Stato e si diventa strumenti del controllo. Anche quando si cerca di ritagliare spazi di libertà ancora più fortemente non si vuol rinunciare a nessuno dei nostri privilegi. Per essere liberi da meccanismi di autodisciplinamento bisogna rinunciare a qualcosa? È possibile trovare un campo dove lottare per se stessi e gli altri? È meglio il bidet o la solidarietà?
[1] Le lettere che verranno citate sono presenti nell’archivio degli opuscoli disponibile nel sito del collettivo OLGa: http://www.autprol.org/news.asp?olga=1.
[2] Opuscolo 80, aprile 2013, “Lettera dal carcere di Monza”.
[3] Opuscolo 95, agosto 2014, “Lettera dal carcere di Velletri”.
[4] Opuscolo 92, maggio 2014, “Lettera dal carcere di Rebibbia (Roma)”.
[5] Opuscolo 106, agosto-settembre 2015, “Lettera dal carcere di Opera”.
[6] Opuscolo 136, maggio 2019, “Il carcere oggigiorno: riguardo il rapporto detenuti-secondini”.
[7] Opuscolo 80, aprile 2013, “lettera dal carcere di Prato”.
[8] Opuscolo 74, novembre 2012, Lettera dal carcere “Pagliarelli” (Palermo)”
[9] Opuscolo 57, maggio 2011, “Lettera dal carcere di Rebibbia (Roma)”.
[10] Opuscolo 106, agosto-settembre 2015, “Lettera dal carcere di Opera”
[11] Ibidem
[12] Opuscolo 144, Ottobre 2020, “Lettera dal carcere di Uta (CA)”.
[13] Opuscolo 20, dicembre 2007, “Lettera dal carcere di Palermo”.
[14] Opuscolo 138, settembre 2019, “Lettera dal carcere di Trieste”.
[15] Opuscolo 82, luglio 2013, “Lettera dal carcere di Opera”.
[16] Opuscolo 121, febbraio 2017, “Lettera dal carcere di Volterra (PI)”.
[17] Opuscolo 106, agosto-settembre 2015, “Lettera dal carcere di Opera”
[18] Opuscolo 105, luglio 2015, “Da lettere di diversi prigionieri”.
[19] Opuscolo 77, febbrario 2013, “Lettera dal carcere di Velletri”.