ULTIMO MOHICANO

Pubblicato da admin il

Nato come simpatico omaggio all’ “irriverente” contenutistica delle fanze punk, questo racconto esordisce in un sito letterario di comprovata fama per contribuire a diffondere in maniera capillare il verbo insurrezionale.

Siamo fuori di testa, ma diversi da LORO.
Noi infatti abusiamo di medicinali senza l’ubbia di seguirne la posologia, ma ponderandone le dosi chini sulle griglie illegali di Erowid.
Noi ci fracassiamo le ossa e portiamo al limite i nostri timpani nelle peggiori sale da ballo di questa periferia dell’Impero, con il miraggio perpetuo di esserne al centro.
Ed è proprio al centro di questo circle pit, mosso dai barbarici suoni dei Motron, che incontro Irina, figlia dissidente di cattolici dissidenti di sinistra, fradicia di droghe veterinarie fino al midollo osseo e con ambedue gli anfibi sconquassati.
La vedo, mi guarda.
Sento una tensione che ho provato solo in brevi e fugaci istanti di gioiosa rivolta: gli stessi istanti che lorsignori vorrebbero negarci in favore dello spregevole profitto.
L’anarchia sfregerà l’orgoglio delle loro automobili impiegatizie, con i neri drappi a vessillo della rivolta esploderemo impazziti per le vie del centro-destra.
Irina mi guarda, mentre tutto attorno brucia della passione e della volontà di tornare a essere una minaccia, e mi chiede: “Ami?”.
Le rispondo: “Ho amato sporadicamente – e di tanto in tanto perfino abbassandomi a versare un obolo – del resto oramai anche i nostri sentimenti non sono che merce di scambio per i Signori della Guerra e del Denaro”.
Irina schiude le labbra, umide e rossastre, lasciando intravedere il corpo cavernoso della sua bocca. Sta per dirmi qualcosa, mi dico, e vedo già tutta la mia intera vita, vessata dai cani da guardia del sistema, trovare una nuova speranza scivolando sul suono dolce e snello del suo nome.
La speranza, del resto, è da sempre pietanza dei messi male in arnese, e per me non poteva che finire altrimenti.
Proprio in quel momento, infatti, mi esplose una ragade in culo: sangue a fiotti come durante la guerra del Golfo, il sangue per il petrolio che ho bevuto in abbondanza per dimenticare il cognome borghese di cui mi vergogno.
Lo stesso petrolio che ora infiamma i miei titoli di coda, l’eterna maledizione del mercimonio.
I miei pantaloni, neri come la notte, ora sono rossoneri come i vessilli dell’Anarchia realizzata.
Irina li guarda, ma non è rapimento mistico né sensuale: si tratta di normale disgusto mascherato da nonchalance.
Disgusto in un certo senso giustificato: trattasi infatti di rosse e grosse barbabietole di sangue & merda, come alla nascita del piccolo Leone, figlio di Fedez, arciduca di Milano e mio acerrimo nemico.
Irina equivoca; anzi Irina piuttosto equina saltella fritta e fatta in Ketamina, cotta in padella dopo esser stata trafugata di nascosto dall’ambulatorio per animali domestici di suo padre, il vecchio coglione.
“A me il ketaven non fa più un cazzo.” penso gongolando tra me e me, piccolo eroe quale sono di questa epopea arcinota dello sballo, come trafiletto di uno dei centomila articoli di costume di Repubblica, l’incubo infausto di Michele Serra.
Me ne vado deluso – anzi, “Deleuze” – guardando alla schizofrenia capitalistica di queste macerie questi millepiani che ho percorso invano su e giù per arrivare a questo enorme niente che ha il mio stesso volto di riflesso nello specchio dell’ascensore dell’autoparking.
Esco dallo spazio, tornando sulla terra, mi guardo attorno in questa città di morti viventi, e vedo un muro ancora vergine.
Tiro fuori il pennarello, e vergo parole di rabbia & amore su questo deserto grigio di incomunicabilità.
E penso ad una compagna ristretta, una compagna a cui han preso tutto tranne che i sogni: cara compagna, questa scritta te la dedico.

“TUTTX LIBERX”

Forse anche questa deludente serata è servita a qualcosa.
Anche se qua quel che non serve alla perfezione non vende, e dunque viene presto sostituito senza che nessuno ne faccia più nemmeno cenno.
Noi punx, ultimi indiani della riserva conquistata con il sangue sulle giacche azzurre dei civilizzati, temiamo più la perdita del nostro senso che la dipartita dei nostri corpi in terra.
Come in un pezzo funereo ed affilato dei migliori Amebix, qua non c’è lieto fine, ma una minaccia costante:
“Siamo fuori di testa, ma diversi da voi”.

Relax, it’s only paranoia…

Categorie: narrativa