C.V.D.

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Quella che segue è la rielaborazione di un intervento apparso per la prima volta su «Qui e ora» il 13 marzo 2020. Ci è sembrato giusto proporlo oggi che la fine dell’esperienza di quella rivista ne rende quasi irreperibili le tracce: per quella certa fascinazione per il “perduto” in quanto tale, che tesse uno dei fili che rincorre Teatro di Oklahoma, ma anche per una sua certa in-attualità. All’alba di una nuova primavera di quest’epoca atomica, pestilenziale, interventista, geopolitica, ritornare alle avvisaglie del lockdown ci ricorda come vi si preannunciasse già la macabra ed esasperata manifestazione, in un’unica sostanza dei giorni, delle due spinte contrapposte proprie di questa era. Ovvero la vertiginosa accelerazione dei tempi (senza peraltro alcun segnale di una loro fine) e la pietrificazione di ogni istante. Tutto sembrava cospirare affinché l’essere qui fosse definitivamente svuotato di ogni senso; e perché una esasperata individualità si riversasse integralmente nella comunità delle disposizioni o delle contestazioni. Dietro la sicurezza e la libertà di ieri, la guerra e la pace di oggi, le sagome che si profilano sono più simili di quanto non si creda.

Credo ed abbraccio la profonda filosofia de’ giornali, 

i quali, uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio, 

massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell’età presente.

(Giacomo Leopardi, Dialogo di Tristano e un amico)

Evocare la pestilenza – con annessi e connessi: le disposizioni di emergenza, il buonsenso, il #restoacasa – equivale a chiederne una chiave, una interpretazione. Occorre appena aggiungere che si rifiutano fin da subito tanto l’interpretazione veterotestamentaria («l’angelo della morte») quanto quella umanistico-liberale («la globalizzazione»).

Quel senso era: di aver assunto e addirittura desiderato, nella posizione di figli e in una incredibile concentrazione di tempo e diffusione («broadcasting»), tutte le forme di governo proprie dell’età contemporanea. Di reclamare, sotto forma di segregazione, l’integrazione, sotto forma di misantropia l’amore per il prossimo, sotto forma di rottura del contratto sociale un nuovo contratto sociale. E, sotto forma di puro egoismo, il più sperticato altruismo. 

In una parola: di estendere indefinitivamente il dominio della responsabilità individuale e della colpa biologica – il cui segno d’elezione è il semplice fatto di essere qui, vivi – non solo alle condizioni di questo mondo, intese nel senso più generale possibile (dall’«antropocene» alla sanità pubblica), ma all’intero destino della collettività. Di aver riprodotto insomma, nell’arco di poche settimane, per un pubblico selezionato e sotto forma di protezione e responsabilità collettiva, quanto diluito nel tempo, nello spazio, nell’abitudine e nella sensibilità, ampie frange della popolazione mondiale hanno già e continuano a subire come negazione di (per usare un lessico di cattivo gusto) «diritti» e di «libertà». Un diniego, diremmo, di esistenza e di storia: alienazione reificazione annichilamento, di cui Auschwitz è l’archetipo e l’attuale situazione dei siriani, dei migranti sulle navi, dei migranti nei Cpr, dei reclusi e di chiunque non si trovi nelle condizioni di affrontare l’emergenza è la logica prosecuzione. «State a casa. Altrimenti? Altrimenti toccherà a voi»: Macron, 7 dicembre 2018, Gilets Jaunes, alba dell’atto V.

Sia detto questo, pur con le dovute sfumature d’intensità, anche di chi per situazione di vita, di salario o di professione non si trovi nelle condizioni materiali per far fronte alle richieste emanate dal governo per mezzo della società civile (e viceversa). Per gli ultimi due (situazione salariale e professionale), il cittadino riparato prova l’ammirazione mistica per l’indefesso lavoratore, tutt’al più il sorriso inquieto che si riserva al monatto, che fa il suo dovere ma che si spera di non dover vedere mai. 

Ma per i primi? Per coloro cui le cose negano una casa entro cui stare, ad esempio? Si vorrebbe volentieri poter dire che la Milano marcescente del miracolino contemporaneo si è almeno in parte inceppata; non fosse che a non uscire di casa scompare anche quella dei clochard, dei rider. È incredibile come la capacità di taratura dei nostri sistemi di rilevazione si adegui così in fretta. Con che velocità i nostri discorsi mutino di senso e di validità alle medesime latitudini. 

Eppure, ricavare da questo momento un senso e una lezione di lotta contro le condizioni estreme che rendono possibile tanto la distruzione che il governo dell’essere umano – sotto forma di minaccia-promessa, di cui la pestilenza in corso è solo un esempio – è stato di pochi. 

Molti portavoce della cosiddetta «cultura» d’Occidente si sono affrettati a cercare interpretazioni extrastoriche e metapolitiche, giungendo rapidamente a situare l’emergenza sanitaria in corso nell’ordine del sacro, opera della collettività a difesa e (horribile dictu!) cura della Vita umana, rispolverando insieme i grandi libri del «sempre stato» e del «mai successo». Sostanzialmente confermando, rovesciandolo, uno degli assunti fondamentali della mistica antagonista contemporanea: il desiderio di servitù volontaria. Dobbiamo invece ribadire che desiderare la propria sottomissione non è una scelta: è piuttosto una imposizione. Il dominato accetta di essere dominato per tenere a distanza i peggiori effetti del caos ed evitare che si estenda alla totalità.

La totalità: umido sogno di poeti e dittatori, nel suo doppio segno di riappropriazione e di spoliazione integrale. Ma se i primi sembrano di nuovo cavalcare l’onda (hanno mai smesso?), i secondi sono ormai da tempo caduti fuori dal campo, emarginati. Nulla di bello o di piacevole potrà cantare la poesia più bella: se non forse quell’inutile malinconia per ciò che bene o male si è perduto e non ha senso piangere. O le minime novelle claustrofobiche e incantate entro cui – con espressione volutamente ambigua – riverbera quanto ci resta da immaginare.   

Eppure c’è una specie di rinascita perversa e ottundente, una specie di volontà di ritorno al memorabile, al ritornello. Che però ha il torto tremendo di venir fuori oggi direttamente come dagli uffici di pubblicità delle grandi industrie. Quindi con una volontà quasi sotterranea di riportare la funzione poetica del linguaggio a una sua certa responsabilità civica, e col peccato originale di avvenire sull’onda dello slogan pubblicitario. Ricordo le facili promesse di Mariangela Gualtieri su «Doppiozero»: «Ci dovevamo fermare | e non ci riuscivamo. | Andava fatto insieme. | Rallentare la corsa. | Ma non ci riuscivamo. | Non c’era sforzo umano | che ci potesse bloccare» (Nove marzo duemilaventi): dove l’interpretazione della pandemia come occasione di riappropriazione di sé e del proprio tempo andava mano nella mano con il privilegio di poterne avere: di potersi avere. Dove le spoglie di una classe si malcelavano dietro la pretesa di universalità della parola poetica. 

Ricordo Žižek e la sua teoria per cui il Covid-19 sarebbe stata letteralmente la tecnica dell’esplosione del cuore con cinque colpi delle dita del capitalismo – con un occhio alla «bellezza malinconica dei viali vuoti di Shanghai e Hong Kong». Scene da film post-apocalittico, dove l’uomo semplicemente tornava a non essere forzatamente parte del paesaggio, la natura a riappropriarsi dei luoghi, la «fine dell’antropocene» a stagliarsi in tutta la sua lancinante bellezza. Peccato solo per un piccolo dettaglio: ostinarsi a non contemplare in questo idillio la presenza, autenticamente pastorale, dello stato. Nel suo bellissimo saggio «Riparare il mondo, porre fine al capitalismo», apparso sul numero 30 di «Qui e ora» (e adesso disponibile qui), Mikkel Bolt Rasmussen aveva parole alate in merito:

«Assistiamo […] all’emergere di un nuovo discorso ecologico autoritario dalle ceneri dell’ideologia neoliberale. Un discorso che, ovviamente, non presenta altro che simulacri di cambiamento, un pensiero orientato a garantire l’ordine attuale per mezzo della tecnologia, la burocrazia e la forza militare, […] amministrazione del disastro e sottomissione durevole. La diffusione della propaganda catastrofista mira a sottometterci allo stato d’urgenza, all’accettazione dei regimi disciplinari a venire e a sostenere un potere burocratico che pretende di assicurare la sopravvivenza collettiva tramite misure coercitive».

Ricordo che nessuno, tra coloro che si opponevano alle misure emergenziali normalizzate dagli stati prima dell’esplodere dell’epidemia, negava pertanto la catastrofe climatica in corso. Questo perché, molto semplicemente, le due cose potevano andare di pari passo. Sapevamo già che il cambiamento climatico era potenzialmente un mezzo per gestire il caos e impedire una trasformazione più radicale delle condizioni in cui abitiamo il mondo; e che il Covid-19 ne era dunque l’agente reale, la prova generale. Non si trattava in alcun modo di negare la realtà del virus, né di discutere l’effettività dello stato di eccezione. Mai come in quei giorni la realtàdel morbo e laverità delle disposizioni governative si potevano osservare come due membrane sovrapposte. Realtà e verità, la cui differenza tende sempre a scomparire all’ombra del senso comune e nell’ordine dei discorsi, finalmente permettevano di indagarne lo scarto. 

Ricordo Giorgio Agamben che parlava (e spesso straparlava) dell’innocuità del virus, sulla base dei «dati a sua disposizione». Molti tra i miei coetanei consideravano quelle parole di giorno in giorno più grottesche, e sempre più quante più postille venivano aggiunte. Procedendo tuttavia, da bravi scolari, a elidere da una parte e dall’altra quelle che reputavano incognite di segno opposto: via il complotto, dunque via anche lo stato di eccezione. Eppure, nel suo punto più cruciale, in ciò che insomma diceva nemmeno più pronunciandolo, ad Agamben non è stata resa giustizia da nessuna fazione – i suoi detrattori contestando, i suoi sostenitori disambiguando quella che era una indicazione implicita e da prendere alla lettera. Quell’indicazione suonava così: «oggi, per mortale che sia, Covid-19 non è niente in confronto a quello che ci faranno, che sono già in procinto di fare». Restava da dare un volto e un nome storico a quella ondivaga terza persona plurale. 

Ogni umanesimo insomma, di fronte a quanto accadeva, smetteva finalmente ogni menzogna, ogni significazione indefinitiva, degradando a guscio, a scorza, a materiale vuoto e svuotante di questa esperienza acquitrinosa dei bassifondi della vita, in poche parole tradendo la sua natura intimamente efferata e omicida. Οί πλεῖστοι κακοί: «I più sono i malvagi», effigeva Biante, uno dei sette saggi dell’antichità, sul frontone dell’oracolo di Delfi. Anche se, più che a Biante, direi che la figura di Agamben si avvicina più a quella di Cassandra: la profezia vilipesa, l’«esilio in terra fra gli scherni». La sua era già da tempo una rinuncia integrale a quella «legittimità della parola» che altri invece esasperatamente ricercavano. In questo perfettamente in linea con la sua ricerca filosofica. 

Ma ricordo soprattutto una cosa, di quei giorni, ostinata a non «rispettare le distanze»: il «buon senso» che ci percorreva tutti. «Quali sono le regole da seguire? Ditemelo, e lo farò. Ma non si capisce niente». Un tipico scenario da detriti. «Usa il buon senso», gli rispondevano. Esplicitare è sempre delimitare: anche un divieto, se troppo articolato, genera le sue scappatoie. No, il punto è sempre stato rimanere nel vago, farsi comandamento etereo. Divenire il virus. Barricarsi nuovamente, contro noi servi, dietro una morale della debolezza. 

Due anni fa gettavo verso il cielo dalla mia finestra questo sguardo. In quelle sere della poca vita l’inverno usciva dal mio corpo per assiderare le altre stelle. Nulla viene mai senza sconvolgere chi si riconosca nei riverberi di un altro mondo. Mi dicevo: bisogna lottare ogni giorno perché dentro me non rinasca ciò che questo mondo esige in cambio della mia salvezza: un io morale.