CELESTE PANTANO, O DELL’UOMO CHE SFIDÒ LA FINE DEL MONDO
Un racconto d’occasione per parlare di Fine. Dietro a vecchie persiane spiarne l’arrivo, ma da quella fessura lasciarsi guardare, da lei, dalla Fine che implacabile sosta, e imperterrita reclama qualcuno che la riconosca.
I
Avanti e indietro, avanti e indietro. Passo quasi tutta la mia vita tra casa e lavoro; un rifugio modesto ai margini della città, un lavoro qualsiasi in un bar come tanti. Mi ritrovo a volte a incontrare gli amici, sempre gli stessi, quelli di una vita, e bere la birra, sempre la stessa, se non è IPA è una classica Pils, il più delle volte nel bar dove lavoro, sempre lo stesso ma dall’altra parte del banco. Avanti e indietro, su quella direttrice che oltrepassa il confine della città tuffando Milano verso il brianzolo. Ne percorro solo un piccolo tratto, da casa al lavoro, avanti e indietro. Poteva anche andarmi peggio. È d’altronde una strada come si deve, doppia corsia e marciapiedi spaziosi, da non molto una pista ciclabile ne accompagna la risalita da Piazzale Loreto e in primavera è bello andare in bici, da fuori a piazzale Loreto; o almeno c’è a chi piace, e a me piace. A volte invece in macchina capita anche di viaggiarvi in onda verde, spesso di notte, e allora non ti accorgi neanche della distanza. Spesso però è una via affollata, teatro di un turpiloquio di gesti e parole che non può che accompagnare l’incontro mattutino tra persone che guardano con astio chi li circonda – come se appartenessero a mondi diversi – e il posto dove si trovano. Lì, nel traffico congestionato da pendolari diretti verso il lavoro. O almeno, è così che la interpreto io. Che poi se qualcheduno guardasse il tutto dall’alto avrebbe bisogno di un microscopio per trovare abissi e vertici, in quel guazzabuglio di individualismi che sarebbe forse giustificato se esistesse ancora una pur minima possibilità di plasmare il proprio destino come singoli. E invece rimane solo una lotta di spiriti spauriti e arrabbiati che si ritraggono dal solo pensiero di comuni angustie, che se ci sono, le angustie, sono quelle degli altri o quelle causate dagli altri. Avanti e indietro. La monotonia assopisce i sensi, addormenta le percezioni, appiattisce il quotidiano. E così quella strada, che porta nel vento i pollini delle più comuni asteracee tra l’aria viziata dal fumo che entra e che esce, quella stessa strada obbligata che riesce a essere inferno se percorsa per ciò che serve, che si mostra invece così timida al mattino precoce quando l’alba precede la caligine lasciando intuire in lontananza le sagome dei primi monti lombardi; e così quella strada, alla lunga che la si percorre avanti e indietro, comincia a sparire dietro alla monotonia del quotidiano ed è quando si perde l’attenzione delle piccole cose che si è pronti ad accomodarsi nel posto giusto per contribuire affinché nulla cambi e difendere il proprio antro. E non per forza dalla parte del male, e quasi sicuramente non da quella del bene, più probabilmente né dall’una né dall’altra ma nella banalità dello stato delle cose di cui allo stesso tempo siamo succubi e promotori. Solo quando si subisce il traffico se n’è al contempo artefici, e alla fine, poteva comunque andare peggio, in una macchina moderna il traffico è pure sopportabile. Avanti e indietro. Avanti e indietro.
Odio andare a lavorare, odio anche il freddo. Quei giorni di pausa, sul finir della settimana, che nella mia testa sono sempre il momento in cui succederà qualcosa, in cui mi dedicherò a quegli affetti che incontro raramente, a dare forma a tutte quelle idee che durante la settimana rimbombano in testa per sovrastare il frastuono dei clienti, diventano il luogo in cui tra un caffè e l’altro rimando le cose a cui tengo di più. Ma poi quei giorni arrivano e il lunedì si ripresenta repentino disturbandomi in una dormita irrequieta nel pigiama che ho su da due giorni, soprattutto quando fa freddo. Anche quando di freddo ne fa meno arrivo sempre a fine settimana che mi si spegne la testa e infilo il pigiama, e forse delle volte faccio anche la spesa. Vado allora in uno di quei classici supermercati disponibili a soddisfare ogni desiderio, soprattutto quelli nati lì, all’improvviso, davanti agli scaffali degli sconti, e dove le luci fredde e pervasive ti scrutano l’anima per quietare qualsivoglia intenzione ad una illecita appropriazione, di un cioccolato pregiato o, che so, di quelle alici deliziose il cui prezzo al chilo ha bisogno di tutta una sua etichetta. E quindi niente, da tempo ho smesso anche di riempirmi di frodo, eppure continuo a guardarmi le spalle, lì in quei supermercati dalla luce fredda e pervasiva, anche se nessuno mi guarda, uno tra i tanti, in fila ordinata dietro alla cassa. Non succede più nulla. Avanti e indietro.
L’altro giorno è successo qualcosa. Avevo deciso di fare una passeggiata. Anche Benjamin faceva le passeggiate, diceva che fa bene passeggiare. Il tragitto era il solito, quello da casa al lavoro, a piedi lungo via degli Innocenti per guardare la strada di tutti i giorni. Volevo metterci tanto, fermarmi, guardare, i negozi, le persone. Niente metro, ma al sole che per una buona parte della giornata avrebbe illuminato almeno uno dei due marciapiedi. Ci misi effettivamente tanto, almeno fino a dove Via degli Innocenti incrocia la via Don Castelli, perché poi da lì le cose hanno preso una strana curvatura che mi obbliga a dedicare tempo a questa dannata avventura che forse poi è soltanto una storia e avrei fatto meglio a tornarmene a casa e rindossare il pigiama, come al solito.
All’angolo tra le due vie, dove una cartoleria specchia su quell’agenzia immobiliare incastrata tra vecchie mura polverose di un palazzo di inizio secolo al civico 34 di via degli Innocenti, vidi un ragazzo seduto per terra. Non era certo il primo che incrociavo. Chi con i cani, chi seminascosto da cartoni pasticciati e chi con un cappello consunto chiedevano la carità seduti al margine della strada. Questo ragazzo però, non sembrava interessato a collezionare monete quanto a tenere il più visibile possibile un cartello con la scritta “La Fine è già qui”. Non l’avevo mai notato, chissà da quanto era seduto ad ammonire i pedoni. Ci passavo ogni mattina, lì davanti a quell’incrocio. Svolto sempre a quello dopo, quello tra via degli Innocenti e via della Mora, non l’avevo mai visto. Avevo del tempo, era il giorno libero e così prima di tornare sui miei passi verso casa mi fermai a parlare con lui. Finimmo sui tavoli esterni di un bar di zona, e davanti a due birre cominciò a raccontarmi una storia. La storia che segue, quella di Celeste Pantano, l’uomo che sfidò la Fine del mondo.
II
Primo Guglielmi Pantano, detto Celeste per gli occhi cerulei ereditati dal nonno paterno, viveva al civico 34 di via degli Innocenti, in uno dei tanti palazzi dal colore stentato, come si trovano lì su quella strada principale, affastellati come fusti cespitosi e soffocati tra camini, balconi e climatizzatori. Celeste vi abitava al piano secondo, con vista proprio sulla strada principale. Abitava si dice per dire, lui piuttosto in quella casa vegliava. L’appartamento era ampio ma delle tre stanze che aveva Celeste ne usava ormai una soltanto. Era la camera più spaziosa, o così appariva forse per il suo modesto arredamento. Un materasso a una piazza e mezza occupava insieme a un piccolo comodino uno dei lati corti, mentre all’angolo destro stava appoggiato un armadio di un legno bruno con una piccola cassettiera al suo interno. Su uno dei lati lunghi invece si apriva una finestra, l’unica della casa aperta sulla strada. Si potrebbe pensare che Celeste, come tanti ragazzi che intorno ai trent’anni si costringono a crescere e trovare un’abitazione in cui vivere da soli, avesse semplicemente affittato una casa così grossa da farne risultare inutile il suo utilizzo integrale. E si potrebbe pensare che essendo quella da letto la camera più ampia e luminosa, Celeste avesse scelto proprio quella invece del salotto o della piccola cucina per condurre i propri affari casalinghi. Con un bollitore elettrico ed una di quelle caffettiere parimenti alimentata che interpretano meccanicamente qualche famosa sinfonia una volta piene, si sarebbe potuto vivere addirittura con agio e magari utilizzare un domani quelle altre stanze per qualche altro progetto. A trent’anni quando i progetti in fieri si affollano in ogni angolo della mente pronti a saltar fuori e pretendere attenzione senza preavviso, può essere utile avere dello spazio e quello a Celeste non mancava di certo.
Eppure ai trent’anni, mentre le vite e le ragioni dei suoi coetanei prendevano di certo le direzioni più varie verso un futuro accomodamento, lui si era trovato quasi all’improvviso costretto a ritrarsi, affetto da un increscioso fastidio che lo sorprese mentre placidamente si affacciava all’età matura. Uno di quei mali insopportabili che a poco a poco si insinuò nel ventre del nostro sfortunato personaggio e che poi all’improvviso decise per manifestarsi obbligandolo ad una certa immobilità. Celeste si trovò a farsi carico di una di quelle paure che se vissute nel collettivo possono pure annacquarsi di una sorte comune – un minimo denominatore – e risultare meno gravide di conseguenze ma che se fronteggiate da soli non possono che apparire invalicabili e costringere, se non al panico, ad una certa indolenza. Invalicabili come lo è d’altronde la quotidianità – aggiungevo io sovrappensiero- regolata da quell’incessante movimento che frantuma ad ogni istante una seppur vana prospettiva comune e che procede a rintocchi più o meno così: avanti e indietro. Avanti e indietro.
Celeste, dunque, mentre approdava alla trentina, era stato colto da una grande paura che – se da una parte non sembrava interessare alcun altro, e poteva quindi essere derubricata tra i comun affari che svelano l’intima miseria intorno cui ognuno nella propria solitudine si arrovella e non per questo si rende differente da quella altrui – si sviluppava, questa paura, intorno a un oggetto così inafferrabile e fuori portata, da costringere Celeste ad un cambio repentino nelle abitudini della sua vita, sorpreso così, su due piedi, dalla paura della Fine del mondo. Si era convinto che il mondo sarebbe terminato all’improvviso. Come al cinema l’ultima nera schermata sorprende quelle coppie di giovani che tutti abbarbicati l’uno sull’altro si accorgono troppo tardi di essere osservati con sdegno dalla maschera che in modo svogliato li invita a liberare la sala; così, brusca e repentina sarebbe arrivata la Fine, ma questa volta ogni genere di amplesso sarebbe terminato per sempre.
Aveva cominciato così, Celeste, col chiudersi in casa e poi, senza troppa gradualità, aveva abbandonato il resto dell’appartamento per arretrare in quell’ultima stanza, chiuderne la porta e poi serrarne le persiane. Si era nascosto nel buio della sua alcova. E lì stava, vegliando, e approfittando dello spiraglio che le vecchie persiane lasciavano aperto sbirciava verso la strada in attesa del grande evento che avrebbe per altro posto fine alla sua sofferenza, lì in via degli Innocenti al civico 34.
Ora, su chi fosse veramente Primo Celeste Pantano le voci non trovano accordo – questo almeno mi comunicò il mio interlocutore che nel frattempo la prima birra l’aveva già finita e mi guardava come a farmi capire che ne avrebbe bevuta volentieri un’altra. Qualcuno sostiene studiasse filosofia e nonostante il buon lignaggio che gli avrebbe permesso facilmente di dedicarsi alla socialità da chiostro si dava un gran da fare. Dava ripetizioni, solfeggiava una volta alla settimana e in modo discontinuo scriveva brevi articoli su riviste in rete. Altri sostengono abbia studiato Lettere, appassionato di montagne e bicicletta si allenasse in una piccola squadra nella bergamasca con il sogno di passare tra i Pro. Un’altra testimonianza lo ritrae inseguire vizi e discordie nei locali notturni della città, conosciuto come un buon picchiatore veniva rispettato e tuttavia temuto per la saccenza con la quale umiliava i presenti di fronte alle forme improprie della lingua parlata. Sulla buona famiglia concordavano tutti, come sulla sua istruzione umanista, concordano tutti a far iniziare a questo punto la storia – e questo me lo disse giocherellando con il bicchiere vuoto mentre era in procinto di alzarsi – e dunque per non avere mulini a cui tirare acqua e null’altro da aggiungere non posso che seguire la narrazione, prendendo le giuste pause come mi consigliò il mio interlocutore tornato con la birra ma in procinto nuovamente di alzarsi per fare una pisciata che con stupore mio e degli altri clienti finalizzò nel vaso del piccolo dehors in cui eravamo seduti.

III
Celeste Pantano, dunque, all’età di trent’anni era stato colto, un po’ alla sprovvista, dal morbo della fine del mondo, un male di sicura natura psichica ma con evidente sintomatologia corporea. Passava le giornate rinchiuso in casa, steso sul letto, votato all’attesa. Occasionalmente si alzava, per sbirciare fuori dalla finestra ed assicurarsi che la Fine non fosse già arrivata. Una mansione di monitoraggio di cui si era saldamente incaricato, inizialmente da compiere due volte al giorno, ma che alla lunga aveva cominciato a stufarlo dilazionando l’impegno una volta ogni due giorni. Che poi di impegni non è che ne avesse altri. Da quando era stato sorpreso da questo male aveva lasciato i propri affari mondani, i suoi lavoretti, ed aveva declinato ogni invito di una dolce ragazza che nei suoi occhi colore del cielo aveva perso la testa. Aveva proprio smesso di risponderle e così lei alla fine, dopo vari tentativi di farsi aprire la porta e di strappare Celeste dall’isolamento, si era persa negli occhi di un altro, o un’altra, terminando così la sua breve apparizione in questa storia di lunghi silenzi. Per tutto ciò che concerneva la sua sopravvivenza aveva assoldato il portinaio del palazzo. Una spesa ogni tre giorni, principalmente alimenti in scatola, già pronti e che non richiedessero alcuna fatica, perché Celeste dal letto non riusciva proprio ad alzarsi. Alimenti in scatola dunque, e un cartone di vino. Celeste aspettava, ogni giorno, il sopraggiungere della Fine, inebetito dalle proprie aspettative e da quell’insipido cartone di rosso, lasciando il resto delle stanze ai ragni e alle muffe che nel buio cominciavano ad impossessarsi dei muri sempre più umidi.
D’altronde, se il mondo stava per finire cosa necessitava ancora di essere fatto?
IV
Si stima che un terzo del totale dei coralli che costituiscono la barriera corallina, un terzo di tutti i molluschi di acqua dolce, un terzo degli squali e delle razze, un quarto di tutti i mammiferi, un quinto dei rettili e un sesto di tutti gli uccelli siano destinati a scomparire. Si tratta di perdite che si stanno verificando praticamente ovunque: nel Sud del Pacifico e nel Nord dell’Atlantico, nelle zone artiche e nel Sahel africano, nei laghi e sulle isole, sulle vette delle montagne come nelle grandi vallate. Se sapete dove guardare, forse potete trovare traccia dell’estinzione attualmente in corso persino nel giardino di casa vostra. Pur essendosi liberati dai vincoli evolutivi, gli uomini rimangono in una posizione di dipendenza dai sistemi biologici e geologici del pianeta. Sbilanciando questi sistemi – disboscando le foreste pluviali tropicali, alterando la composizione dell’atmosfera, acidificando gli oceani – abbiamo ormai messo in pericolo la nostra stessa sopravvivenza. Non ci resta che aspettare la fine del mondo. [La Sesta Estinzione, E. Kolbert]
Notizie del genere, risuonando come segnali di allarme, definirono nel ventre di Celeste la vera e propria convinzione che la Fine fosse ormai a portata di mano, che fosse un evento in bilico tra l’accadere e il non essere ancora, un equilibrio precario che si sarebbe potuto rompere da un momento all’altro.
E dunque Celeste aspettava. Dopo qualche mese di reclusione cominciò a dover far economia delle proprie poche finanze decidendo così di posticipar la pigione. Non poteva d’altronde smettere di alimentarsi o di bere vino, si convinse infatti che la Fine del mondo meritasse almeno una persona, così devota da fare di tutto per aspettarla, e con un bicchiere da offrirle. Per questo lo spiraglio in quella finestra della camera continuava a rimanere aperto, per guardare di tanto in tanto se note anticipatorie di un qualche evento si dessero a lui, l’osservatore, in qualche modo il prescelto a formalizzarne l’arrivo.
I primi tempi aveva provato ad approfondire l’argomento, come poi se la Fine del mondo potesse essere considerata al pari di altri filoni di pensiero. Leggeva riviste scientifiche e papers trovati su internet. Cercava le voci fuori dal coro, che dimostrassero, dati alla mano, un rapido epilogo. Guardava dei video in cerca di tracce e si esaltava di fronte alla violenza con cui cicloni, uragani o catastrofi di ogni sorta distruggevano la vita di manciate di migliaia di persone che non riusciva neanche bene a collocare nel mondo. Poi aveva smesso pure di leggere e di usare la rete, d’altronde la Fine sarebbe arrivata e nulla aveva più senso al suo cospetto. Cominciava anche del resto a dargli noia l’ultima moda che imperversava sul web. Sembrava che all’improvviso fosse tutto risolvibile. Ognuno aveva dei piani, chi sosteneva una decrescita felice, chi dei piani globali di intervento drastici per ridurre le emissioni, si parlava poi di conversione energetica, andavano molto le parole resilienza e sostenibile. Tutti però convenivano sul fatto che con qualche sacrificio il problema si sarebbe risolto e che di fatto, con più biciclette, qualche pannello solare e forse con meno aria condizionata si sarebbe riusciti a sopravvivere a lungo. Si scornavano poi sul numero di biciclette e sull’aria condizionata a cui non tutti in realtà volevano rinunciare. Insomma, era un dibattito acceso. Prendeva spazio dappertutto e dava a Celeste una noia tremenda. Si era forse riaperta la porta verso il futuro? Sembrava proprio di sì. Scemenze pensava Celeste, maledetti sciovinisti. Gli ultras del nostro mondo, glie ne dovrei dire quattro – se solo avessi più tempo.
A volte scriveva. Lo faceva quando era agitato, provava a sfogarsi con carta e matita. Si sfogava contro le grandi filosofie che aveva studiato o di cui quantomeno aveva sentito parlare tra i chiostri e le aule. L’essere per la morte heideggeriano si era trasformato in un essere per ritrarsi che è poi un altro modo di essere per la Fine, un evento che in qualche modo anticipa la morte negando all’Esserci la propria estrema possibilità. L’intuizione kantiana risultava spoglia ai suoi occhi dando per impossibile la percezione di quelle tracce che in modo viscoso coinvolgevano la sua vita. Se la prendeva anche con Nietzsche per non aver mai parlato chiaramente ed essersi affidato ad un prospettivismo che di fronte alla fine non aveva più alcuna ragion d’essere. Era poi screditare Schopenauer uno dei suoi altri obiettivi, laddove aveva confuso volontà e rappresentazione con il vero sottofondo della nostra esistenza, il sommovimento degli iperoggetti. Si era accorto come i più alti autori della filosofia fossero nulla di fronte a quel professore inglese, e al suo capolavoro dal titolo, appunto, Iperoggetti. Lo aveva letto anni prima ma solo ora si pentiva di non averne conservata una copia, da tenere vicino a fianco al cuscino. Se li ricordava quei paragrafi taglienti, grimaldelli pronti a scassinare tutti i grandi pensieri, ottimi per litigare. Certo che senza il cartaceo sottomano era difficile ricordare esattamente tutta l’argomentazione e soprattutto le parole esatte. Funzionava però pensare di essere succube degli iperogetti pronti a sputar sentenza sulla specie umana.
Tra una parola e l’altra buttava l’occhio allo spiraglio tra le persiane – si sa mai le sorprese che può riservare la Fine – e così, quando rileggeva, trovava solo periodi disarticolati o sospesi. Alla lunga smise anche di farlo appoggiando i fogli stropicciati sul comodino. Lo fece per rispetto di chi aveva ingaggiato in litigio, non certo per noia o per delusione. Si ripromise infatti di dedicarvisi di nuovo non appena fosse riuscito a ordinare le idee. Doveva tra l’altro ritrovare anche la matita che, forse caduta nel cumulo di coperte e vestiti ammonticchiati a fianco del letto, sembrava letteralmente scomparsa e così si aggiungeva agli ostacoli che incoraggiarono Celeste a desistere dalla scrittura e a preferire una posizione supina più disposta all’attesa. Isolato dal mondo ne aspettava la Fine e più cresceva questa tensione più di tutto il resto che poteva affliggerlo perdeva consistenza. Se infatti vi sono dei caratteri definibili nel morbo della Fine è che questa ne annulla ogni altro, un’unica grande paura che rende insensibili ai piccoli turbamenti.
V
Fu così che Celeste, di buona famiglia e dal principio destinato ad una vita libera da intralci, si ritrovò nel mezzo di una questione legale cominciata al terzo mese di inadempienza al suo contratto di affitto e resasi concreta dopo il sesto quando il portinaio cominciò con insistenza a bussare alla porta. Il portinaio non bussava mai con arroganza alla porta. Provava una sorta di remissione verso Celeste, come se avesse a che fare con il profeta del nichilismo in persona, con l’ultimo arconte di qualche credo decaduto, non prendeva sul serio le teorie e le paure del ragazzo – era stato informato del morbo che lo aveva colto – ma provava un sentimento di paternità verso quello che identificava come il portatore dei mali della sua generazione. Come se lui si fosse ammalato per tutti. Non se ne sentivano troppi di casi così al limite. Il portinaio, dunque, non usava insistenza con Celeste, non soprattutto nel bussare alla porta per non disturbare il dormiveglia del ragazzo. Solitamente avvertiva del suo arrivo con pochi tocchi e poi aspettava, finché Celeste non apriva uno spiraglio nella porta. Portava essenzialmente la spesa, due volte a settimana, sincerandosi delle sue condizioni. Aveva poi cominciato, sei mesi prima, a ricordare con garbo a Celeste l’insolvenza affittuaria. Lo faceva ovviamente su richiesta del proprietario ma era d’altronde il suo lavoro mantenere ordine nel palazzo. Ed ogni volta che toccava la questione Celeste si infuriava. Si infuriava da matti. – Basta! – diceva. – Tu vieni qua ad annoiarmi con questi tuoi discorsi da capogiro quando nulla al cospetto dell’ospite che tanto attendo può avere più alcuna importanza. Non si può ragionare in questo modo caro il mio portinaio. Basta con questa questione dell’affitto, pagherò, che mi lascino il tempo.
E più il tempo passava più Celeste si infastidiva. – Vattene dai, non rovinare la mia attesa, e se poi mentre sto qua a sentire le tue ragioni su una questione così modesta lei arriva e non mi trova alla finestra, come minimo ti toccherà penar le pene dell’inferno anche da finito -. Così diceva al portinaio, a cui fregava solo della buona gestione del palazzo. E Celeste lo cacciava malamente ogni volta, diceva che gli aveva rubato i soldi, il portinaio, e per questo non aveva pagato l’affitto. Finì per non aprirgli per giorni, si faceva lasciare la spesa fuori casa. Ne approfittava il portinaio per lasciare lettere dall’avvocato del proprietario, Celeste con serialità le ammonticchiava in quel cumulo che nei dintorni del letto faceva sparire qualsiasi cosa.
Quella mattina del sesto mese di inadempienza si sentì con insistenza bussare alla porta. Celeste ridestato dal catartico dormiveglia trovò oltre lo spioncino un figuro incravattato preceduto dal solito portinaio.
– Celeste, il signor Cortese ti voleva parlare cinque minuti. Riesci a farlo entrare? – Ma si figuri – uscì flebilmente senza troppa convinzione dalle labbra dell’inquilino che aveva ormai fatto della parola un dato mentale trovando nella vocalizzazione dei propri pensieri una pratica quantomai insulsa, quel chiacchiericcio fastidioso che avrebbe turbato il venire di Lei coprendone i dolci passi ed il suo sinuoso incedere. -Celeste, cos’hai detto? Non abbiamo sentito, riusciamo a fare entrare in casa due minuti questo signore? Non vuole farti nulla, solo parlare – Ma si figuri – ripeté Celeste cercando di calcare di più sulle vocali. Ne uscì dall’altro lato della porta una specie di onomatopeico che lasciò intendere all’agente immobiliare ci fosse poco spazio per trattare e allora, prendendo il posto del portinaio davanti allo spioncino, decise di passare per una retorica meno indulgente di quella provata fino a quel momento da quel vecchio custode che gli stava accanto (e che in cuor suo altro non voleva che evitarsi alcun problema come aveva ben dato a dimostrare nella sua vita riparata dall’ombra del palazzo che custodiva.) – Apra subito questa porta, è sei mesi che non paga l’affitto e il proprietario di casa, come da accordi, si è svincolato da lei. Non ha più, dunque, alcun diritto di rimanere qui in casa, ora l’appartamento è in nostra gestione, come del resto tutto il piano e tra pochi giorni cominceremo i lavori di ristrutturazione. Apra, accetti la buona uscita che il padrone di casa con benevolenza mi ha incaricato di corrisponderle e si prepari per trasferirsi. – Erano ormai lontani i tempi in cui Celeste aveva alzato la voce, si era arrabbiato, aveva battuto mani e piedi contro qualcosa di duro per farlo risuonare. Prima però di ricordarsi il piacere mondano dello sfuriare proseguì con educazione invitando l’incravattato a tornare più avanti – Mi scusi, davvero, se non le dispiace le chiederei di tornare entro un mese così da poter risolvere i miei affanni e ripianare il debito del mio affitto, mi dia un mese e poi torni a domandare quanto le ho promesso – Credo lei non abbia capito – continuò il signor Cortese che invece stava perdendo la pazienza – lei deve uscire di qui e lo farà adesso e se non esce lei entriamo noi dal muro, tanto qui stiamo buttando giù tutto. Non ci saranno più case così grosse come la sua, che poi le basterebbe un ripostiglio per vivere da quel che si dice in giro – Non approvo l’arroganza del suo negoziato, in ogni modo mi dia un mese per pensare a come comportarmi – continuava Celeste sperando di riuscire a liberarsi con celerità di quell’individuo che portava solo futili distrazioni nella quiete di quel guscio chitinoso in cui si era rinchiuso. – Mi scusi Pantano, lei non ha capito cosa sta succedendo, da qua a due mesi ristrutturiamo tutto il piano, verranno fuori sette abitazioni che noi metteremo in affitto. Di qui a tre mesi qua sarà tutto pieno, dunque le do al massimo una settimana per organizzare il suo trasferimento. La saluto, la prossima volta non si dia preoccupazioni nell’aprire la porta che ci pensiamo noi. – e sbattendo bruscamente un pugno contro il legno d’ingresso si incamminò per il corridoio che portava alle scale. Sette appartamenti, quale bruttura pensò Celeste, quale violenza nel trasformare un così bel palazzo. Sette appartamenti, e dire che già tre porte su quel corridoio sembravano abbastanza. Se non è un segno della Fine questo sgretolamento di un vivere civile, di un vivere con agiata comodità con l’aria che passa tra le stanze per poter essere respirata, non saprei proprio come interpretarlo.

Traferirsi poi, quale barbarie, dover stare a infilare tutti i ricordi di una vita, tutti i propri ammennicoli, in scatole polverose, tutto ben schiacciato, affidato poi a qualcuno che su un logoro furgone porterà tutto chissà dove. E se poi alcune di queste scatole vanno a perdersi? Se poi le cose non vorranno trovare il loro posto nella nuova dimora? E se poi questa dimora non ci fosse? C’era la casa di famiglia, certo, ma non poteva da un giorno all’altro piombarci in mezzo, in quella quotidiana demenza che affliggeva i suoi vecchi ancora convinti che loro figlio avrebbe dovuto prendere in mano la propria vita verso un patetico carrierismo. Che poi, in casa dei suoi vecchi, non vi era alcuna finestra che dava sull’esterno, era tutta posizionata verso l’interno dell’edificio, con un piccolo balconcino che dava sul cortile, ottimo per spiare l’intima routine che animava il palazzo ma non per aspettare il furtivo arrivo della Fine. Insomma, trasferirsi, traslocare non era un’attività adatta a lui, pensava Celeste. Quanti giovani briosi senza ancora un destino che li abbia toccati possono volteggiare tra una casa e l’altra, con due zaini mezzi vuoti, sbattersi su un letto qualunque e riuscire a prendere sonno con a fianco una persona qualunque. Per Celeste ormai le cose andavano diversamente, i trent’anni si facevano sentire ed il destino sapeva bene averlo designato ad un compito ben più alto del girovagare, del volteggiare tra le frivolezze del mondo, tutte quelle frivolezze di cui nulla sarebbe rimasto, nemmeno il ricordo. Ma di nulla, in definitiva, sarebbe rimasto il ricordo. E dunque perché stare a penare per queste cose, così si decise Celeste pronto a tornare supino.
Mentre stava girando i tacchi di fronte alla porta, soddisfatto infine di aver posticipato – in quello spazio futuro di cui nutriva una forte incertezza – uno scomodo affare e di non aver dovuto impegnare le proprie corde vocali in un confronto efferato, sentì due deboli tocchi a quel legno che serrava la casa, due tocchi che avvertivano la presenza di qualcuno. In effetti il portinaio, rimasto ben nascosto dietro all’agente cravattato aveva ora trovato il coraggio di dare un ultimo consiglio a Celeste. – Celeste, ascolta, la situazione è più grave di come immagini. Gli operai hanno già cominciato ad ammonticchiare sacchi e sacchi di cemento, mattoni ed attrezzi per cominciare il lavoro. Mi hanno indicato il prossimo lunedì come data dell’inizio dei cantieri ed ormai sei l’unico inquilino rimasto nel piano. Dunque non lasciarti buttare fuori così, trova una sistemazione ed esci prima che tornino – Celeste stava girando i tacchi davanti alla porta e avrebbe pur fatto a meno di sentire la coda di questa sgradita conversazione. -L’ultimo inquilino del piano? È da tempo che qua non abita più nessuno, e nessuno mi ha mai giudicato per questo. L’ultimo inquilino. Ma che storia sarebbe questa dell’ultimo inquilino? Che molestie, che ingiurie che siete arrivati a permettervi. Tornatevene da basso, al riparo dell’ombra da cui senza coraggio vi fate proteggere. Traslochi? Cambiare casa? Ma lo sapete in che situazione importuna mi avete coinvolto? Così, a freddo. E ora davvero mi passa la voglia di fare qualsiasi cosa. Ma lo sapete quanto un trasloco può pesare su una vita ormai già entrata in età matura? Ma cosa ci vado a fare altrove? Qua ho trovato lo scorcio perfetto e nulla mi obbligherà a distanziarmene. Se poi tu che ti sei rubato i soldi per le spese, i soldi che ogni volta ti do in mazzette e mai riporti un centesimo di resto. Furbo il mio portinaio, tira fuori quei miei soldi e vai a saldare al proprietario quanto manca per lasciarmi in pace almeno un altro po’. Sto finendo di scrivere qualcosa di importante e se continui a infastidirmi in questo modo non riuscirò neanche a mettere il primo punto. Quando arriverà la Fine qualcosa bisognerà presentarglielo per non apparire scortesi. Anche la Fine ha bisogno delle sue attenzioni. Ma poi tu che ne puoi capire. Vattene, lasciami in pace e vedi di non tornare più accompagnato da questa gente. Parlaci tu se proprio vogliono parlare. Dagli dei soldi se li vogliono, ma lasciami in pace. – Celeste, che brutte parole, perché mi accusi così? Sei forse già ubriaco? mai ti ho rubato una lira, forse una volta allungando la strada dal supermercato ho preso un giornale, volevo dartelo per farti leggere di cosa si parla ultimamente e tu non lo volevi e l’ho letto io. Forse un’altra volta i cartoni di vino erano in offerta, ne ho presi due per farti felice ma poi sulla strada di ritorno ho incontrato un amico che non vedevo da tempo e l’ho aperto con lui, un bicchiere tira l’altro, lo sai anche tu, potevo mica riportarti un cartone mezzo vuoto. Mai però ti ho rubato dei soldi, lo sai anche tu. Ora non posso comunque prometterti che non tonerò più con loro, gli avevo promesso che ti avrei convinto. – Sei un ladro e un bugiardo. – lo apostrofò Celeste – Un poveruomo è rinchiuso in casa come primo ambasciatore di una specie sull’orlo di un abisso e tu stai qua a concertare con questa gente che di fuori se l’è presa con me. Sembra che stiate architettando una congiura nei miei confronti. Vattene, custode bugiardo, misero ladro che ora molesti chi ti ha sempre protetto. non farti vedere per un po’. – Va bene, me ne vado, tanto tu starai a letto. Altro che scrivere e scrivere, tu non fai altro che bere e dormire. Celeste, arriverà il giorno in cui ti faranno uscire di qui e ti accorgerai che fuori tutto continua come sempre. – Vattene, vattene… – ma queste parole Celeste non era sicuro di averle pronunciate davvero e tornando verso il proprio giaciglio convinto di cominciare a scrivere una volta per tutte, buttando un occhio verso le sue cose tutte attorcigliate ai piedi del letto decise di lasciar perdere anche questa volta e trovata una matita sotto il cuscino se ne liberò lanciandola in quell’ammasso da cui di lì a poco sarebbe stata fagocitata.
Nottetempo Celeste continuò a girare e rigirarsi pensando alle ingiurie che aveva dovuto sopportare, perché in altri tempi sarebbe uscito dalla porta brandendo un bastone e facendo telare il portinaio ed il suo amico con la cravatta. Parlavano di debiti, nulla di importante, chi non ha un debito al giorno d’oggi? Il mondo si fonda sui debiti. Se Celeste avesse fatto il pazzo, là fuori, nel corridoio del secondo piano, chi avrebbe avuto la voglia di tornare per così poco? Ma Celeste ormai di forze ne conservava poche e di priorità ne aveva altre. Dormirci sopra avrebbe sicuramente aiutato ad allontanare una simile noia.
VI
Passarono così i giorni e di lì a poco il solo pensiero dell’accaduto, il solo pensiero di qualche turbamento e di quell’affare a cui dover trovar rimedio, lasciò spazio alla solita quotidianità. Celeste dormiva, si rotolava nel materasso, faceva un piccolo giro intorno al letto quando sentiva gli arti intorpidirsi. Ne approfittava in quelle occasioni per guardare più da vicino la fessura nelle persiane, e quelle volte gli sembrava proprio che non mancasse molto all’epilogo. Si era deciso anche a riprendere in mano i fogli spiegazzati rimasti incastrati tra il letto e il comodino, e a rovistare in quella catasta ai piedi del letto in cerca della matita. Si era deciso a farlo, ma quella mattina quando provò a cominciare un rumore assordante gli trapanò la testa. Abituato al silenzio casalingo, disturbato solo da un continuo sottofondo di vita metropolitana che spirava dalla finestra e che mentalmente era riuscito ad appiattire sotto il livello dell’udibile, questo rumore sembrava essergli entrato non solo in casa ma proprio in testa. Lanciò per aria i fogli seccato dirigendosi al citofono per chiamare a risponderne il portinaio. – Cosa succede? Stanno tirando giù il palazzo? – Celeste, succede quello di cui eri avvisato, gli operai hanno cominciato a lavorare nell’appartamento accanto – Ladro e bugiardo che non sei altro, digli subito di smettere, così proprio a scrivere non ci riuscirò. – Celeste c’è poco da fare ormai, io se vuoi ho una stanza giù sotto dove al momento puoi appoggiarti – Ti sembra che voglia appoggiarmi da qualche parte? In quelle tue stanze al pian terreno che son più chiassose di una stazione? Ma smettila mio caro portinaio, vattene via, tu che hai rubato a un poveruomo indifeso e malato gli ultimi spiccioli per pagare l’affitto. Tu che da tempo mi porti del vino acido come un limone. Stai forse pure cercando di avvelenarmi, così da toglierti l’incomodo una volta per tutte? Vattene via non voglio più vederti. Tu che hai organizzato questa congiura. Ti farò pentire, stai attento giù sotto tra le tue ombre. – Fu così che tornò a letto indispettito non solo da quel bugiardo di portinaio ma anche da quell’operosità con la quale gli addetti ai lavori continuavano imperterriti a rumoreggiare. Passarono giorni in cui il frastuono nella testa di Celeste lo portò vicino alla pazzia. Cercava di dormire, poi si alzava e andava alla finestra e guardava e tornava a letto e ritornava alla finestra. Sentiva ormai essere giunto il momento, la Fine sarebbe arrivata, si disse, anticipando, anche di poco, la demolizione del muro di casa e poi – continuò a convincersi – aveva sempre la sua stanza, la più lontana dal muro confinante con l’appartamento vicino, qualche ora in più l’avrebbe guadagnata di certo.

C’era dunque ancora qualche giorno di attesa, e qualche giorno sarebbe bastato. La Fine stava arrivando.
E quei giorni procedettero, uno dopo l’altro, molto lentamente. Il trapano aveva finito il suo lavoro ed era ora stato sostituito da un susseguirsi di colpi di martello a tirar giù probabilmente i residui delle pareti che davano corpo – un tempo – all’appartamento contiguo. Sotto casa Celeste aveva visto comparire uno striscione plastificato che riportava il numero di appartamenti in affitto sotto una grande scritta che recitava qualcosa come Gran resort Milano, il miglior alloggio per un breve soggiorno. Ora che dava attenzione ai particolari, che aveva sempre guardato con disattenzione, si accorse di una coppia di ragazzi, seduti al margine del marciapiede con un cappello in mano e un giovane amstaff maculato tra i piedi, che facevano sfigurare la nuova facciata e venivano così accompagnati da un agente immobiliare sull’altro lato della strada. La Fine doveva arrivare. Celeste cominciava ad essere stufo di aspettare, vedeva nelle facce di quei ragazzi una docilità frustrata che lo spaventò. Non poteva finire così, come loro, spostato da una parte all’altra della strada, dalla sua stanza a, che ne so, quel tugurio che era la casa del portinaio.
VII
Fu così che, in una giornata abbastanza soleggiata di quelle che alludono al cambio di stagione, Celeste prese la sua decisione. La scelta di mettere un punto alla sua vita e di correre ad abbracciare la fine, la sua fine, visto che la Fine tardava a sopraggiungere tanto da essere riuscita a infastidirlo, più precisamente ad annoiarlo in quel modo particolare che porta a rigettare una cosa che fino a poco prima si stava attendendo con grazia e con garbo fino a che si comincia a presupporre che l’attesa non valga veramente la pena, e che piuttosto che attendere ancora forse è meglio ricorrere ad altre soluzione, in quel caso ad altre interpretazioni della malcelata faccenda.
Stiracchiandosi per bene, una volta per tutte, e sentendo le ossa indolenzite a tal punto da esercitare una forte resistenza al completo stiramento degli arti Celeste pensò quasi di restarsene a letto e farsi raggiungere lì dalla sua fine. Prima dalla sete, poi dalla fame, fino a sentire i muscoli languidi e cominciare ad affannare con l’aridità in viso. Una fine miserabile, senz’altro, senza alcun vero incontro con essa, senza neanche un bicchiere di vino. Non poteva neanche andare così. Metti poi che la Fine fosse davvero sopraggiunta e trovandolo così supino nel letto quasi putrefatto nonché privo di sensi avesse preferito non farsi riconoscere? Non poteva sicuramente andare così, non per lui che apostolicamente le aveva dedicato l’ultimo anno di vita. Si decise allora, non senza titubare, ad affrontare la stanza. Doveva andare, alzarsi e varcare la porta.
Agire così, alla velocità d’una mosca, non era però il suo modo di fare e pensò allora che prima di agire è spesso importante formulare una buona idea, almeno una. Potrei certo darmi un tono, iniziò ad ipotizzare. Presentarmi così, in pigiama appare scortese. Cominciò dunque a pensare ai suoi abiti eleganti, ricordava un tempo di averne avuti, da qualche parte dovevano pur essere. Forse nell’armadio, quel grosso legno ricoperto di polvere al margine della stanza. E se di polvere ce n’era così tanta solo sulle pareti esterne chissà all’interno – pensava con indolenza. Perché mai di fronte a una scelta definitiva come quella che ormai si sentiva di aver preso avrebbe dovuto riempirsi a tal punto di polvere da rischiare un malanno alle vie respiratorie o una qualche infezione allergica, che si sa mai tra la polvere cosa può nascondersi. Aveva poi mica deciso di fare le pulizie primaverili, pensava mentre continuava a stiracchiarsi nel suo letto ormai deciso a lasciar perdere la bella apparenza.
Almeno le scarpe, quelle si che sarebbero servite. Non ci si può presentare con i piedi insanguinati o passare il tempo a fare attenzione a chi si incontra per evitare un pestone. Non lo si può fare nemmeno in posta, figurarsi al propinquarsi della propria fine. E dunque Celeste cominciò con lo sguardo a ispezionare la camera in cerca delle sue calzature. Senza trovarle, si convinse a cercare in quella matassa di vestiti e lenzuola ai piedi del letto dove forse avrebbe anche recuperato un foglio e una matita per scrivere qualcosa che avrebbe potuto lasciare sul letto, un ultimo addio che avrebbe probabilmente letto il primo operaio che con i guanti da lavoro si sarebbe trovato a svuotare la camera una volta tirato giù l’ultimo muro. Provò prima a rovistare ma ormai quell’ammasso era talmente annodato che si sarebbe dovuto sfilare un capo alla volta. Provò allora tirando un lembo di quello che sembrava un lenzuolo senza grande successo per poi riprovare dalle maniche di quello che ricordava un classico golf di lana. Ovunque provasse a cominciare per risolvere il nodo incontrava solo resistenza. Forse doveva provare ad alzarsi e al posto che frugare rimanendo in ginocchio sul letto doveva prendere quel groviglio di petto, una volta per tutta. Perché poi? Non riusciva a risolversi sul perché avesse cominciato quella sfida e si rimise sdraiato con la testa a guardare il soffitto per riprendere il filo dei propri pensieri. E quando uno pensa e pensa poi i pensieri partono come da una grande stazione e ognuno segue dei binari che la mente prova a mantenere vivi per far scorrere i propri treni ancora oltre, e vedere se da qualche parte vi è qualcuno che li aspetta. Pensare in questo modo richiede grande concentrazione – non che a Celeste mancasse su questi affari metafisici, erano più i pensieri legati al fare che gli scappavano dalla testa – e la concentrazione necessita silenzio. Così quando si cominciarono a sentire voci nell’appartamento vicino e poi il frastuono del trapano in azione, che probabilmente annunciava l’inizio dei lavori sui muri di casa sua, Celeste prese un colpo e quasi senza pensarci si alzò dal letto, diretto verso la porta, e così com’era, a piedi scalzi e in pigiama si decise ad uscire nel corridoio. Appallottolata su una sedia all’ingresso trovò una giacca e con questa addosso uscì, dopo un anno di vita, da quel palazzo dai muri dal colore stentato al civico 34 di via degli Innocenti.
VIII
Quando non è l’abitudine a dettare i tempi e i modi dell’azione lo sono spesso le aspettative. Celeste dava per scontato che sarebbe uscito come uno qualsiasi dall’ombra di quel palazzo per dirigersi senza suscitare alcuna attenzione verso il luogo dove aveva deciso di farla finita, dove aveva deciso che avrebbe incontrato la fine, su quei binari poco fuori dalla Stazione Centrale. Se non ricordava male sarebbero stati neanche venti minuti a piedi e dunque tutto sembrava apparentemente conciliarsi verso la conclusione. Le aspettative sono però truffaldine soprattutto se concepite velocemente mentre ci si sbatte giù dalle scale goffamente ricercando una coordinazione di cui le gambe hanno perso memoria. E così una volta uscito dall’ombra di quel palazzo con passo deciso per evitare di farsi accalappiare dal portinaio e dalle sue storie finì per travolgere di pieno petto un agente immobiliare che uscito fuori dalla sede distribuiva volantini informativi sulla natura del nuovo progetto. A finir gambe all’aria, o meglio con il culo per terra, fu però proprio Celeste che nel tempo aveva raggiunto la gracilità di un anziano. Con la bocca secca, farfugliando delle scuse mentre si rialzava notò lo sguardo non tanto torvo quanto disgustato del ragazzo dall’apparenza latina che si passava la mano sul completo ingessato per pulirlo. Fu forse negli occhiali da sole che l’agente vestiva in cerca di un’apparenza più carismatica che Celeste vide per terra un omuncolo scalzo, con barba e capelli incolti e addosso un pigiama consunto. Ma fu solo una frazione di secondo perché il ragazzo non prestò grande attenzione all’accaduto e rindossando al posto di quell’espressione disgustata il solito sorriso da cacciatore ricominciò a distribuire i volantini, quelli che pubblicizzavano l’imminente cambiamento del palazzo. D’altronde Celeste a quei primi riflessi delle lenti aveva distratto lo sguardo per non farsi coinvolgere da un’inezia come tante, quelle che a lungo, nascosto in quella camera aveva allontanato dalla sua vita. Una volta alzatosi fece per attraversare la strada verso quell’angolo dove sedevano i due ragazzi con il cane e poi inoltrarsi oltre, lasciandosi alle spalle la via degli Innocenti.
Si tastò le tasche per vedere se due monete per caso gli fossero rimaste, per lasciare quelle ultime cose terrene, di fatto per lui senza più alcun valore, a quella coppia che sedeva per strada. E fu così che mentre si frugava addosso sentì qualcuno bisbigliargli da dietro l’angolo invitandolo a svoltare in via Don Castelli. Sembra che Celeste distratto dal bisbiglio lasciò perdere i due ragazzi che tornarono a testa bassa ad accarezzare la piccola bestia che si portavano appresso e girato l’angolo si mise all’inseguimento dell’ombra facendo perdere le proprie tracce.
Un sospiro di sollievo bloccò il mio interlocutore, ridistese la schiena sulla sedia e fece per girarsi una sigaretta. Una delle mie, che avevo appoggiato sul tavolo e più volte utilizzato durante il racconto. Approfittando del silenzio stavo provando ad abbozzare qualche commento su questa storia, deluso soprattutto per il suo finale ma appena cercai di argomentare qualcosa il mio interlocutore mi fece segno di aspettare, la storia non era ancora finita.
IX
Si racconta che Celeste, una volta imboccata la via Don Castelli al seguito dell’ombra che l’aveva invitato cominciò a dirigersi verso la stazione. Anche l’ombra seguiva la stessa direzione e dunque dopo un anno di solitudine Celeste si trovò a condividere i suoi ultimi passi in compagnia, non è che camminassero insieme, capiva solo di non essere solo, che in qualche modo un’altra storia stesse per incrociare la sua.
Un documento della polizia ferroviaria raccoglie la testimonianza dell’agente in servizio che quella mattina gestiva i movimenti su quel ramo ferroviario e alla vista di un ragazzo – che a prima vista era sembrato un vecchio – aveva bloccato la circolazione e chiamato una squadra d’intervento per liberare i binari quanto prima. Aveva visto quell’uomo scalzo e spettinato crollare, sbattere la testa per terra, cercare poi qualche forma di redenzione guardando il cielo. Lo vide poi alzarsi, ripulirsi dalla polvere e saltare il muro dei binari per far perdere le proprie tracce prima dell’intervento dei colleghi. La relazione del poliziotto non si capisce come finì nelle mani di un giornalista che vi ricamò attorno un articolo da acchiappo. Per giorni vi fu una vera caccia all’uomo, la pagina dedicata a Celeste si inseriva all’interno di una polemica sulla mala gestione delle politiche assistenziali nei confronti dei sempre più diffusi morbi nevrotici. Celeste ne divenne il simbolo, la sua faccia incanutita dalla folta barba disordinata e da quei capelli sporchi e scompigliati, disegnata da un perito ad hoc per il giornale, si diffuse più del dovuto. Sembra siano giunti anche a casa sua trovandovi solo una squadra di operai che godevano la pausa di metà giornata con birre e panini e che di Celeste non ne sapevano proprio nulla. Dopo qualche giorno, senza che si riuscisse a trovarlo la notizia cominciò a sgonfiarsi e di quel folle sui binari – a cui si voleva offrire un aiuto – si smise di scrivere e di parlare, sepolto da una notizia qualsiasi – una guerra, una medaglia, una tragica morte – come d’altronde lo era stata quella sua fugace avventura.
Il mio compagno si stiracchiò e fece per alzarsi. Il sole stava cominciando a calare e anche a me conveniva incamminarmi. Gli chiesi cosa avesse detto quell’ombra a Celeste, cosa fosse successo veramente. – Pure lui se lo domanda ancora, è stato un attimo alquanto fugace – mi disse. – La Fine è già qui, abbandona il tuo posto. Cerca il tuo de… – gli ha detto quell’ombra, proprio mentre nel traffico che scorreva avanti e indietro una betoniera si faceva spazio suonando, e così quel che segue Celeste non è riuscito a sentirlo.