TUTTE LE FAMIGLIE SENZA UNA LIRA
Qualsiasi orizzonte di riscatto è un miraggio. Diffidate delle gite.

Quando andavo a trovare mia nonna, e la trovavo come sempre confitta alla sedia a dondolo, mentre si dondolava dandosi leggere spinte con l’alluce valgo, magra come un torsolo, usava ripetermi che tutte le famiglie ricche sono diverse fra loro, mentre tutte le famiglie senza una lira somigliavano grossomodo alla nostra. Tale massima sapienziale veniva declamata ad alta voce, con grande enfasi, specialmente ai pranzi domenicali, quando, raccolti i parenti attorno a sé come una chioccia spennacchiata i propri pulcini, era solita mortificare mio padre, suo genero, che rimbrottava per la miseria di stipendio che prendeva e al quale imputava la mancata ascesa sociale che pensava – immotivatamente, dal momento che già in giovane età odorava di fallimento – che il marito della figlia le avrebbe fatto ottenere. Nonna abitava al quarto e ultimo piano di un vecchio condominio a ringhiera, costretto fra due palazzi alti e grigi, come se fosse cresciuto schiacciato fra loro come un’erbaccia spontanea. La casa dei miei genitori era sul lato opposto della strada, alla stessa altezza, sicché quando mi alzavo la mattina presto per andare a scuola, facendo colazione potevo osservare nonna sulla sua sedia in salotto, già sveglia da ore, impegnata come sempre a maledire il Creatore per aver prolungato di un altro giorno la sua esistenza sulla terra. Il nostro era un quartiere povero e triste, per quanto neanche troppo malfamato, visto che la gente era troppo impegnata a evitare di fare del male a se stessa prima che a procurarne al prossimo. Mio padre, ridendo, sosteneva che se anche qualcuno dalle nostre parti avesse mai voluto rapinare anima viva, avrebbe prima dovuto accendere un prestito per comprarsi un coltello. Era una zona sporca, pietosa e lontana da tutto, in cui i mezzi pubblici erano sempre in ritardo. Persino Don Andrea, il prete dell’oratorio, quando al catechismo ci spiegava che il Signore si trova in ogni dove, con un sorrisetto amaro aggiungeva che forse, nel caso della nostra zona, Dio stava aspettando l’autobus a qualche isolato da noi. La mia zona era al confine meridionale della città, dove Milano finisce e lascia il posto a nutrie e risaie. Una delle cose più sorprendenti che ho imparato sul conto dei milanesi, è il modo in cui si vantano sempre dell’insensibilità, come se fosse una loro invenzione e non ci fosse da nessun’altra parte, al pari del gorgonzola. Si compiacciono nell’affermare con sicurezza che un uomo potrebbe stare disteso in piazza del Duomo per un mese senza che nessuno si avvicini a lui, se non per rubargli il portafoglio o violentarlo. Per quanto concerne i miei genitori, erano perfettamente in tinta con il quartiere, poveri disgraziati. Al mio ritorno da scuola li trovavo regolarmente a casa, mio padre sul divano a bere una tisana al finocchio, o qualche brodaglia al cumino, mia madre con una cofana laccata di capelli in testa intenta a scuocere la pasta. Mio padre era un ometto qualsiasi, alto poco più di un metro e sessanta, dal fisico esile, e quei pochi capelli che gli erano rimasti sfumavano a ciuffi in un brullo pianoro di calvizie. Quando parlava, aveva una vocina sottile sottile che restituiva con precisione l’idea gracile che si potesse avere di lui. Vendeva merce di varia natura porta a porta, solitamente articoli per casalinghe come piastre elettriche per capelli e macchinette per fare i bigodini, il tutto naturalmente con una certa dose di coraggio dal momento che la sua testa rotonda rifulgeva alla luce per la calvizie, e poiché non si trattava certo di un venditore straordinario, con una mercanzia non considerata essenziale in un quartiere miserabile come il nostro, tornava a casa alla fine di ogni mese senza il becco d’un quattrino. Soffriva di una forma grave di meteorismo, e trascorreva le giornate sul divano a cercare di trovare un rimedio per i suoi temporali intestinali. Finocchio, curcuma, cumino, succo di limone, non vi era mai nulla che gli fosse di sollievo, mai nulla che attenuasse il suo male. Si avvinghiava al bracciolo come se si trattasse di un tronco in mezzo all’oceano, con una smorfia rigida e dolorante dipinta sul volto, in un profluvio di rumori che parevano mortaretti. Quando stavo chiuso in camera mia, sembrava che in salotto suonasse la banda. Mia madre invece, poveretta, era un tronco di donna di un metro e ottanta, ed era brutta di una bruttezza che metteva malinconia. Aveva due piedi piccini, che non la sorreggevano in tutta la sua altezza, così se stava in piedi qualche minuto di fila iniziava a ciondolare come un pendolo, e nei giorni in cui tirava vento doveva aggrapparsi agli altri per non finire per terra. Per questa ragione, dopo le scuole magistrali aveva avuto diritto a una sorta di pensione, una miseria a essere onesti, tuttavia sufficiente a farci vivere nella tristezza, la cui rimanenza lei devolveva in parrocchia o in corsi di cucina, pasticceria, cucito, decoupage, tutte cose inutili che non le insegnavano a fare la O con il bicchiere. Dal momento che appunto non lavorava, per riempirsi le giornate faceva la volontaria alla biblioteca comunale di zona, in cui d’inverno stavano i senzatetto a scaldarsi e gli zingarelli entravano a tirarle petardi sotto la gonna, oppure si occupava di un rifugio per animali tossicodipendenti, ovvero sequestrati a drogati di vario tipo che avevano esteso la propria area d’ingerenza non solo a sé stessi ma pure alle bestie che avevano avuto la disgrazia d’essere adottate da loro. Poiché la differenza di fisico fra i due era notevole, con l’avvento della pubertà avevo preso a fantasticare con particolari orrorifici sul tipo di rapporto sessuale che i miei avessero potuto aver avuto per generarmi, e mi immaginavo mia madre in piedi – non so perché in piedi, e non distesa sul letto, ma tale era la mia fantasia – con mio padre che provava a scalarla, come un ghiottone sull’albero. Tornando a noi, fu all’incirca all’età di quattordici anni che mi fu palese che i miei non avevano un soldo, e che quindi nella vita me la sarei dovuta un po’ cavare, senza poter contare su di loro. E se è vero quel che dicono che una mela non cade poi troppo lontano dall’albero, era altresì evidente che un inetto come me da qualche parte doveva pur aver preso. Ma badate bene che non tutta la mia famiglia era povera in canna, infatti annoveravamo uno zio che si diceva essere benestante, che trent’anni prima se n’era andato ad alzar la pila nella Svizzera italiana, dove aveva aperto una catena di lavanderie a secco, ed era tornato con un pacco di contanti. Ma purtroppo i rapporti tra lui e quegli sventurati dei miei genitori non andarono nel migliore dei modi, e mi appresto quindi a narrare quella spinosa vicenda.
Accadde che un giorno di fine settembre, all’uscita da scuola, trovai di fronte al portone di casa mia un capannello di ragazzini. Circondavano meravigliati una Mercedes nera, coi finestrini oscurati, con tanto di targa straniera, di cui toccavano increduli i cerchioni, il lunotto, gli specchietti, presi ad alitare sulla cromatura doppiamente zincata. Uno stupore più che giustificato, dal momento che dalle nostre parti non si vedevano mai macchine di lusso. Entrando in casa, trovai in salotto i miei genitori, in piedi, mio padre in giacca e cravatta, agghindato da ufficio, mia mamma nell’abito buono della domenica, una veste a quadri bianchi e rossi che pareva ricavata da una tovaglia, e come feci per salutare, vidi mia madre avventarsi su di me gettandomi addosso un lenzuolo, per poi trascinarmi di peso nel tinello. Di corsa, mi strappò di dosso i vestiti, infilandomi la camicia e i pantaloni di velluto e le scarpe della comunione.
– È passato a trovarci lo zio! –, disse sgranando gli occhi e sussultando nel mentre che le parole le uscivano di bocca.
Mio zio era un omone dal fisico imponente, capelli brizzolati e occhi cerulei, e si vedeva da come parlava che aveva un sacco di soldi. Aveva una voce profonda e baritonale e una mascella ampia e squadrata, particolari che gli conferivano più un aspetto da pugile che da imprenditore. Lo accompagnava nella visita la mia cuginetta, che aveva grossomodo la mia stessa età. Si chiamava Carlotta, e a differenza di suo padre era di aspetto minuto, dalla pelle diafana e i capelli corvini. Aveva due guanciotte rosee e paffute, che la facevano sembrare un criceto con la bocca piena di semi. Dacché mi ricordavo dai pranzi di Natale di parecchi anni prima, era di un’antipatia proverbiale. Era capricciosa e viziata. Nonna la detestava. Sosteneva che altro che doni e giocattoli, se Gesù Bambino fosse esistito le avrebbe dato un pugno nei denti. Come varcai la soglia della sala, mio zio mi diede una pacca così forte che mi lussò la spalla. Mio padre era visibilmente nervoso, ma la motivazione la seppi soltanto pochi minuti più tardi, quando mio zio e Carlotta se ne andarono rimandando la visita al giorno dopo. I miei mi fecero sedere al tavolo, come facevano sempre quando dovevano comunicarmi qualcosa di importante. Caricando il discorso di grande enfasi, con circonlocuzioni e sospironi, mi spiegarono che lo zio aveva fatto a papà una proposta economica molto importante, da cui sarebbe dipeso il futuro della mia famiglia. Si trattava dell’apertura di una lavanderia a secco nel nostro quartiere, la cui gestione sarebbe stata totalmente affidata a mio padre, con la possibilità di diventare socio se si fosse rivelata un’attività fruttifera. Mio padre era su di giri: da un lato, scorgeva in una proposta del genere un attestato di stima da parte di mio zio, uomo che tra mille avversità era riuscito ad alzare il tenore di vita della sua famiglia; dall’altro, a tutti gli effetti un’attività del genere avrebbe potuto rappresentare uno scampo dal fallimento e dalla commiserazione altrui. Ne avrebbero riparlato in maniera approfondita, con tanto di fogli di calcolo e piano aziendale, un paio di giorni dopo, al pomeriggio del sabato, giorno in cui, mi spiegò, avrei dovuto accompagnare Carlotta in giro per la città, mentre i grandi discutevano di affari. Era fondamentale che io facessi tutto quello che voleva e che la facessi divertire: ubbidendo a questo semplice compito, avrei dimostrato che la nostra era una famiglia seria e affidabile. Quel sabato avevo pianificato di andare con due amici al fiume, sulla Martesana, per catturare le ranocchie e farle esplodere con le miccette, ma mi bastò vedere mio padre così elettrizzato per deporre l’idea e acconsentire. Il giorno della contrattazione, mia madre mi fece il bagno come non accadeva dall’asilo. Mi strofinò con la spazzola, mi pulì il collo e dietro le orecchie, mi tamponò col borotalco. Mi mise indosso i migliori vestiti che avevo e appose un farfallino ridicolo al colletto della camicia. – Comportati bene con tua cugina –, mi disse accarezzandomi la guancia. Quando arrivò mio zio, mio padre si era rinchiuso in bagno, in preda a un attacco di meteorismo sopraggiunto per l’ansia.
– Gesù, che puzza di merda! –, tuonò mio zio. Carlotta, alle sue spalle, rideva divertita. Anche lei pareva tirata a lucido. Indossava un abito turchese, con le fronde in pizzo, e aveva i capelli raccolti con un cerchietto. Mio padre riemerse affaticato dal bagno. Mentre accoglieva il cognato con goffe pacche complici, si assicurava con occhiate più che eloquenti che io avessi recepito il messaggio: portare a spasso Carlotta, assecondare ogni suo capriccio, farla divertire e riportarla a casa sana e salva. Il programma prevedeva un giro allo zoo, un gelato in cremeria e infine il cinema, dove avremmo visto un film ovviamente scelto da Carlotta. Subito prima di salutarci, mio padre tirò fuori il portafoglio. Con grande sforzo – come gli pesava la mano, pover’uomo! –, prese una banconota da cinquantamila lire: praticamente, lo stipendio di una settimana.
– Divertitevi, ragazzi! –, disse straziato.
Carlotta gongolava all’idea che l’avrei riverita tutto il pomeriggio. Probabilmente era stata istruita dal padre a proposito della posizione di sudditanza occupata dalla mia famiglia, e in particolare del compito ingrato che mi era toccato in sorte. Forse per questo, come uscimmo di casa, si tolse il maglioncino che portava legato sulle spalle e me lo gettò addosso, senza proferire parola.
Lo zoo comunale, un tempo fiore all’occhiello dell’amministrazione pubblica, era stato costruito circa cinquant’anni prima ed era l’unica attrattiva della città raggiungibile a piedi dal mio quartiere. Mio padre, che era il principale promotore di questa gita allo zoo, mi raccontava di quando era bambino, e la domenica andava a visitare le gabbie con i leoni e gli elefanti. A me non piaceva lo zoo, gli animali rinchiusi mi mettevano malumore. Ai tempi del progetto originario, avrebbe dovuto costituire un forte polo di attrazione turistica, ricco di animali esotici mai visti prima in città. Ora era un posto decaduto, lasciato all’incuria, in cui l’erbaccia cresceva tra le crepe della strada e le bestie erano magre e affamate. L’ingresso, tuttavia, manteneva inalterato il proprio originario prestigio: il cancello era sormontato da una scritta dorata, “Grande Zoo di Milano”, e una volta varcato apriva le porte a un immenso giardino in stile vittoriano, in cui l’erba incolta aveva preso a crescere su urne, sculture e piccole fontane che costellavano il prato. Al primo bivio, un cartello indicava delle voliere lontane. Immaginammo di trovarci in presenza di uccelli tropicali, ma nelle gabbie vi erano soltanto pollame e uccelli da cortile.
– Mi hai davvero portato qui per vedere dei tacchini? –, domandò Carlotta.
Tremai all’idea che si irritasse. Le spiegai con dolcezza che evidentemente il prestigio dello zoo si era ridimensionato, ma ciò non avrebbe impedito di visitarlo e di incontrare fiere selvagge. A questa timida asserzione, parve rassicurarsi. Proseguimmo nel giro esplorativo. All’orizzonte vi era una schiera di imponenti alberi, le cui fronde nascondevano delle gabbie di grande dimensione. La prima ospitava la tana di un elefantino, rachitico e triste, che dormiva su un fianco, volgendo la nuca al pubblico. Pareva morto, e gli uccellini più che per azzimarlo sembravano posarvisi sopra per cibarsene. Nella gabbia accanto vi erano un leone e una leonessa, anch’essi prossimi allo strazio, immobili. Carlotta, curandosi per un secondo di non essere osservata, tirò un sassolino in direzione del leone. Quello non fece una piega.
– Amo gli zoo, guarda come riposano! Si vede proprio che qui stanno bene.
Non me la sentii di obiettare con forza, mi limitai a dirle che erano animali nati qui, in cattività, pertanto abituati alla prigionia, ma rimanevano pur sempre bestie abituate ad altri climi, ad altri spazi, e che di certo non potevano essere troppo contenti.
Carlotta mi ghiacciò con lo sguardo. – Io pagherei per avere un decimo della loro quiete –.
Procedemmo lungo il sentiero del parco. A un certo punto, trovammo un nero che arrostiva pannocchie imburrate. Portava un anello al naso, e una veste di stoffa che gli cadeva larga sui fianchi, simile agli abiti che portavano gli indigeni eritrei durante il periodo coloniale. Come gli animali, anch’egli aveva un’aria derelitta, sconsolata. Il quadretto stimolava tutto fuorché appetito, eppure Carlotta mi impose, col solo sguardo, l’acquisto di una pannocchia. Feci un conto approssimativo, togliendo i biglietti d’ingresso, di quanto mi restava per il cinema e per l’autobus del ritorno, e valutai che i miei avrebbero acconsentito a comprarle la merenda. Domandai all’uomo il prezzo di una pannocchia. – Cinquemila, signore –, disse. Strabuzzai gli occhi, ma ormai Carlotta aveva addentato la sua pannocchia, così mi toccò desistere. Oltre, vi era l’acquario dei pinguini: era l’attrazione più grande dello zoo, ed era collocata all’estremo opposto rispetto all’ingresso. Si trattava di una decina di scogli, raffreddati alla buona, in cui cinque o sei pinguini facevano il bagno o dormicchiavano. Notai che non erano bianchi e neri, come quelli dei documentari, ma marroncini, come delle tortore.
– Questa pannocchia fa schifo –, disse Carlotta. – Mangiala tu –. Io detestavo le pannocchie, in generale detestavo il mais e tutto il cibo da pollame. Pensai che fosse inutile spiegarle che, per comprare quella pannocchia, mio padre era stato insultato da quasi tutte le casalinghe che abitavano nei paraggi, a cui bussava la mattina per vender loro prodotti che possedevano già, e di qualità migliore, così mi limitai a dirle solamente che era la merenda che mi aveva chiesto lei, ed era giusto mangiarla. Carlotta piantò i piedi. Non sembrava essere intenzionata a proseguire d’un solo passo. Mi fissò, con la bocca rigidamente serrata e gli occhi lucidi.
– Se è così buona –, mi disse, – che se la mangino i pinguini!
Senza darmi tempo di replicare, gettò la pannocchia oltre la parete di vetro che ci separava dall’acquario. La pannocchia cadde su uno scoglio, proprio in mezzo a due pinguini, che ci si avventarono contro per contendersela. Ovunque vi erano cartelli che segnalavano il divieto di tirare cibo nelle gabbie degli animali. – Dio, Carlotta, non si può! –, deplorai.

Affrettammo il passo, sperando di non essere stati notati, ma dopo un centinaio di metri percepimmo un frettoloso avanzare in nostra direzione. Il custode dello zoo, correndo, ci raggiunse. Aveva un’aria indemoniata. Disse solo: – Siete voi che avete tirato la pannocchia ai pinguini? –. Pensai che la sincerità avrebbe pagato, così risposi: – Sì, signor custode, ci scusi… –, ma non feci a tempo a terminare la frase che quello, con una mano grossa come una padella, mi diede uno schiaffone in pieno viso che mi fece volare di due metri. – E adesso ve ne andate!
Mi trascinò per un orecchio fuori dal parco, mentre Carlotta zampettava alle nostre spalle.
Ero così furioso che ebbi la tentazione di mollarla lì e tornarmene a casa, ma mio padre non avrebbe mai approvato, così non mi restò che mettere da parte il mio umore. Del canto suo, Carlotta non percepì neanche vagamente la mia irritazione, continuando a saltellare indifferente.
– Adesso andiamo a prendere il gelato? –, chiese giuliva.
Era simpatica come un’infezione. Tuttavia, non potevo certo non assecondare la richiesta. Per cui procedemmo verso la Cremeria Garibaldi, che si trovava lungo la strada per il cinema. Ogni tanto provavo a intrattenere qualche conversazione, ma Carlotta non rispondeva, oppure mi concedeva un cenno con la testa e poi tornava a distrarsi. Pareva assorta nei propri pensieri, chissà quali peraltro, dal momento che era stupida come una scarpa. Soltanto una volta giunti alla gelateria parve illuminarsi, non aspettandosi tale abbondanza: la Cremeria Garibaldi era uno dei caffè più rinomati della città, in cui andavano la domenica pomeriggio i signori a mangiare il gelato. Ovviamente i miei non mi ci avevano mai portato, ma mio padre aveva insistito affinché portassi lì mia cugina. Diceva, non senza qualche ragione, che sicuramente sarebbe rimasta ammaliata da cotanto lusso. C’erano decine e decine di gusti, alla frutta, anche tropicale, dodici tipi diversi di cioccolato, cinque differenti tipologie di pistacchio, e un numero esorbitante di creme e sorbetti. Neanche a dirlo, era cara come una bolletta. Tentennai, vedendo Carlotta alitare sulla vetrinetta dei gelati e indicare col dito più e più gusti, così presi un frappè al fiordilatte, formato mini, la cosa più economica possibile. Carlotta, senza certo curarsene, ordinò una tripla coppetta con la panna. Il cameriere – era un posto così di lusso, che non c’erano normali gelatai, ma camerieri! , in giacca e cravatta!, come al ristorante –, provò a dissuaderla, spiegandole con delicatezza che non usavano lo zucchero, ma la stevia, un dolcificante naturale di origine vegetale, e un grosso quantitativo di gelato l’avrebbe fatta stare poco bene.
– Bisogna essere stupidi per usare un prodotto che fa stare poco bene i clienti –, rispose piccata. Tuttavia, ciò non le impedì di ordinare comunque la sua tripla coppetta. Usciti dalla gelateria, le dissi che la stevia aveva proprietà lassative, e non era consigliabile mangiarne così tanta. Non si curò certo del mio mite suggerimento, e prese a dare cucchiaiate su cucchiaiate. Di tanti peccati, la gola sembrerebbe uno dei più bonari: a tante persone, in fin dei conti, gli obesi stanno simpatici, ispirano una naturale tenerezza un po’ compassionevole, probabilmente dovuta al fatto che paiono essere incapaci di contenersi; nel caso di mia cugina, la sua ingordigia assumeva connotati disgustosi, come se la sua avidità di merende ne sottraesse inevitabilmente a qualcun altro. Finii il mio frappè in due sorsi e lo buttai nel cestino. Carlotta, invece, temporeggiava nel finire la sua coppetta. Pensai che le parole prima del gelataio, poi mie, l’avessero lievemente suggestionata. Intanto, passava accanto a noi nel viale un calesse trainato da un ronzino, che guidava in una visita della città. L’autista era un ceffo tutto tatuato, coi capelli raccolti a codino e la maglietta della Roma. Fumava tenendo la sigaretta tra i denti e ad ogni boccata dava una frustata alla bestia, così magra che se intravedevano le costole, che sporgevano come i tasti di un pianoforte. Carlotta, neanche a dirlo, strillò che voleva salirci. Non feci a tempo a replicare che era già salita sulla carrozza e dava indicazione al bruto di condurci al cinema Magnolia. Provai a trattenere il nervoso e salii. Feci un rapido conto di quanti soldi mi rimanevano. Ormai, detratti quelli per l’ingresso allo zoo, i gelati, ora la carrozza, mi sarebbero rimasti appena quelli sufficienti per il cinema e per il biglietto dell’autobus per tornare a casa. L’autista diede una profonda boccata alla sigaretta, e il cavallo accelerò. Più fumava, più andavamo veloce. Carlotta nel frattempo si era completamente disinteressata al gelato, che aveva quasi preso a sciogliersi nella sua mano. Il viale, superato l’incrocio, si allargava: rischiando di non fare a tempo a passare col semaforo verde, il conducente si accese una seconda sigaretta, dalla quale il cavallo trasse la forza per aumentare la corsa. Carlotta mi porse la coppetta, senza dire niente. Era altresì scontato che mi toccasse finirla. Non mi sembrava educato rifiutare, sicché mi apprestai a farlo. Il trotto però mi dava la nausea, e il fumo delle sigarette mi veniva dritto in faccia. Mi sembrava di mangiare un posacenere. Così lo buttai giù in un colpo solo, rovesciandomi la coppetta in bocca. Il gelo mi paralizzò il viso. Mancavano pochi minuti al cinema, quando il cavallo rallentò, probabilmente digiuno e stremato da giorni, così l’autista non trovò soluzione migliore che infilargli un sigaro direttamente in bocca: grazie alla comprovata mossa, giungemmo in tempo per lo spettacolo delle cinque. Il cinema Magnolia offriva la visione di due diversi film: il primo, cui sarei andato io, era un film di tre ore sullo sbarco in Normandia. Impossibile che Carlotta desiderasse vederlo. L’altro era una commedia romantica, in cui una cantante di successo perdeva l’udito, ma trovava l’amore in un veterinario strabico. Carlotta smaniò per andarci. Un tizio dai capelli unti e corvini ci indicò la sala al piano superiore. Come ci sedemmo, iniziò la proiezione. Sulle prime, ero infastidito dalla scelta del film, ma non potevo certo manifestarlo a Carlotta; tuttavia, dopo pochi minuti appena, un brivido prese a corrermi lungo la schiena. Provai a ignorarlo e cambiare postura, quando avvertii un fragore insorgere alla bocca dello stomaco. Sudavo freddo. D’improvviso realizzai che avevo ingurgitato mezzo chilo di gelato alla stevia in pochi secondi. Abbandonai la sala, coprendomi la pancia con le braccia conserte, nel totale disinteresse di mia cugina, rapita dalla visione. Il bagno era nel piano seminterrato, a due rampe di scale dalla sala. Scesi le scale a tre a tre, col terrore di cagarmi addosso. Aprii la porta del bagno con un calcio e mi lanciai sulla tazza. Sudato fradicio, stremato, riemersi dal cesso che la pellicola era quasi giunta a conclusione. Rientrai in sala che i titoli di coda scorrevano sul fotogramma della cantante e del veterinario che si baciavano. Carlotta non si mostrò neanche vagamente toccata dalla mia prolungata assenza. Appena usciti, le chiesi se il film era stato di suo gradimento.
– Certo, l’avevo già visto la settimana scorsa –, rispose con candore. Uscimmo dal cinema che era già sera. La piazza su cui si affacciava, come sempre quando il sole calava, era deserta. Mi avvicinai alla pensilina dell’autobus per vedere a che ore sarebbe passata la prossima corsa, quando voltandomi non vidi più Carlotta. Guardai in ogni direzione, ma pareva sparita. Poi, ricomparve. Era rientrata nel cinema e ne stava uscendo con un cestino immenso pieno di caramelle gommose. Sbiancai. – Come hai pagato quelle caramelle, Carlotta? –, domandai tremulo.

– Non l’ho fatto –, rispose pulcina. – immaginavo pagassi tu. –
Dovetti contenermi per non tirarle un cartone sui denti, spingerla sotto a un’auto in corsa, misurai quanta pazienza avevo in corpo nel trattenermi da aprirle la testa in due con una mattonata. Nel frattempo era uscito anche il bigliettaio, così unto che pareva si facesse la doccia con l’olio delle sardine. – Queste caramelle non si pagano da sole, ragazzo –. Ero furioso, ma comunque entrai e pagai quanto dovevo. Mi rimanevano appena cinquecento lire, sufficienti a comprare giusto un biglietto per tornare a casa. Così, esausto, affrontai Carlotta. Le dissi:
– Dal momento che hai voluto le caramelle, il gelato, la pannocchia, la corsa in carrozza, non abbiamo più soldi per tornare entrambi con l’autobus. Lancerò in aria l’ultima moneta che mi resta. Se esce testa, andrai tu in autobus, se esce croce, ci andrò io.
Lanciai la moneta in aria. Uscì croce. Mi aspettai una protesta chiassosa da parte sua. Invece, senza proferire parola, si voltò e prese a camminare sulle sue gambotte grassocce. Io, invece, mi fermai alla pensilina in attesa dell’autobus. Una volta arrivato, mi sedetti vicino al finestrino. La giusta punizione per i capricci di Carlotta mi rimise in pace col mondo. L’avevo viziata tutto il pomeriggio, subendo le sue angherie, e ciononostante non avevo ottenuto che la sua ingratitudine. Mi persi nell’ammirare il paesaggio degradato che il quartiere ci offriva. Col tramonto, la strada si svuotava, e non rimaneva che spazzatura sui marciapiedi e topi grossi come dei carlini che se ne cibavano. Scesi alla fermata di casa mia, immaginando che avrei preceduto Carlotta di un bel po’. Così mi recai in fumetteria, giusto il tempo di aspettarla e salire insieme in casa. Dal negozio, seduto a leggere, l’avrei vista passare davanti alla vetrina. Passò un bel po’ di tempo, non saprei quantificarlo, eppure Carlotta non compariva. In lieve apprensione, abbandonai a metà l’albo che stavo leggendo e mi incamminai al contrario lungo il vialone, sperando di incontrarla. Camminai per una mezzora, ma di mia cugina non c’era traccia. Guardai in tutti i negozi di dolciumi, tutti i parchi o luoghi in cui poteva essersi rintanata. Stava crescendo in me un moderato stato ansioso. Se a Carlotta fosse successo qualcosa… non osavo neanche pensarci. Eppure, l’avrei scoperto pochi minuti più tardi, qualcosa a Carlotta era successo eccome. Fuori da casa mia c’erano due auto della polizia. Un agente stava parlando con mio zio, che gesticolava concitato. Poi vi era un’ambulanza, e Carlotta avvolta in una coperta termica, quelle che i profughi del Kosovo avevano nei filmati dei telegiornali. Singhiozzava, mentre una dottoressa la calmava accarezzandole la schiena. Fu allora che vidi mio padre, e lui vide me. Era furioso, quasi spiritato, e mi aspettava brandendo un bastone. Mi si avventò contro, e mi suonò come un tamburo, con il plauso dei poliziotti, ai quali l’educazione un po’ spiccia risulta sempre gradita. Dopo le botte di mio padre, fu il turno di quelle di mio zio, che risultarono ben più calcate, forse perché straniere, in confronto a quelle paterne cui ero abituato. Venne fuori che un centinaio di metri dopo che ci eravamo salutati, Carlotta era stata violentata in un vicolo da due bruti. Per di più africani, negri come il carbone!, singhiozzava lei. Il fatto che la sua unica figlioletta, affidatami illibata e pura, era stata riconsegnata stuprata, mandò definitivamente a rotoli gli affari tra mio padre e mio zio. Questa, perlomeno, fu la versione ufficiale che circolò per anni nella mia famiglia, attribuendomi la colpa di una mancata realizzazione sociale che pareva essere stata proprio a un palmo di naso da noi. Fu mia nonna, un giorno di svariati anni dopo, a confessarmi che in realtà mio zio si era convinto che papà fosse un coglione e avesse deciso a prescindere di ritrattare l’affare.
– E comunque, ragazzo mio, tua cugina è sempre stata una spina nel culo. –