ATLANTE (META)FISICO – Parte II
Il tratto della SS n.7 Appia, da Cisterna di Latina a Terracina
Uscendo da Roma, la via Appia risale le pendici dei colli Albani, ne segue l’orlo, e a Velletri scende nell’Agro Pontino che attraversa fino al suo termine, a Terracina. In questo ultimo tratto, ai due lati della grande strada, si contrappongono due mondi diversissimi. Il lato a monte è stato descritto nell’articolo del 29 dicembre 2001. In questo testo vedremo il lato a mare: la presenza del Circeo, le paludi e la loro bonifica, le città di fondazione degli anni Trenta.
Per le molte illustrazioni nel testo si consiglia la lettura su pad, laptop, pc. Purtroppo lo schermo del telefonino taglia le immagini.

Le meravigliose paludi
A chi si affacciava alla pianura e le sue paludi, quei pigri stagni che del mar son rifiuto [1], si presentava uno spettacolo inatteso ed entusiasmante. Goethe le vide da Velletri: quando dall’alto dei colli scorgemmo il monte di Sezze, le paludi pontine, il mare e le isole, in quello stesso momento un forte acquazzone passava sopra le paludi in direzione del mare, e luce e ombra, alternandosi rapide, screziavano variamente la pianura deserta. [2] Ugualmente il Gregorovius, da uno dei valichi dei monti Lepini: davanti a me si estendeva lo spettacolo raggiante della Marittima, l’ampia Palude Pontina, un tappeto ardente nei più teneri colori, il mare dorato dal sole, la lontana isola di Ponza immersa nei flutti raggianti, il Capo Circeo, la Torre di Astura, la Linea Pia e, ai nostri piedi, il Castello di Sermoneta. La vista di questo quadro, uno dei più belli che abbia l’Italia, fu, per noi che uscivamo dal crepuscolo del bosco, tanto travolgente da non trovare parole né allora né oggi per descriverlo.[3] E lasciamo la parola anche ad un geografo, tra gli ultimi testimoni delle paludi: tutto questo mondo così peculiare e caratteristico – suolo e acqua, vegetazione e animali, uomini e loro dimore – che non ha riscontro in nessuna altra parte d’Italia, offre al turista spettacoli ed impressioni che invano si cercherebbero altrove. Anche le luci sembrano assumere qui aspetti particolari e maravigliosi: giochi di sole e luccichii strani nelle acque pigre dei canali, sotto la trama della verdura folta; lembi di cielo di un azzurro cupo, intensissimo, intravisti traverso i rami dei cerri annosi, dal fondo del bosco foltissimo; tramonti incantevoli, con riflessi di porpora e d’oro sulle rive dei laghi quieti, sfondi luminosi di mare e di cielo interrotti dal dorso boscoso del Circeo che si profila all’orizzonte come un gigantesco animale accovacciato. [4]
Ma oltre la seduzione, silenzi grevi e oblio: questo silenzio è terribile. Non c’è nulla che faccia rumore: non la barca sull’acqua, non la stuzza quando si affonda, non i due muri di paglia fra cui scivoliamo. Tutto sembra irreale. Ogni termine di rapporto con la vita è abolito. È impossibile pensare a qualcosa di determinato. Ogni pensiero si smussa in sonnolenza, in un’atonia viscida, verdastra, in cui ogni vibrazione si disfa come le erbe che macerano sotto l’acqua immota. [5] Eccitava la palude gli animi nei suoi aspetti morbosi, mortiferi. Era anzi il contrasto tra un aspetto seducente, di abbandono o di gloria campestre, nelle, pare, intensissime fioriture primaverili e la malinconia, la desolazione, l’agonia della malaria. Il Vate non mancò di celebrarne i fasti cupi:
E, quando aggiorna,
tutta la palude ansa e soffia
per le froge e per le fauci emerse,
occhiuta di mille occhi torvi;
e l’acqua putre gorgoglia
e bulica occlusa dall’erbe
cui sradica il piè bisulco,
mentre nube di corvi
sinistra offusca e assorda l’aria
ove passa in silenzio mortale
la Febbre velata di nebbia.
(d’Annunzio, Laudi, III.djvu/56)
E, levatasi la nebbia:
Tutta la palude è come un fiore.
Lutulento che il sol d’agosto cuoce
Con non so che dolcigna afa di morte.
(d’Annunzio, Nella Belletta)
Il viaggio iniziatico verso il sud
Nel loro bel volume sui pittori della mal’aria, Mammuccari e Langella propongono una lettura dell’attraversamento delle paludi come tappa del viaggio al sud, del Grand Tour: dopo i silenzi immensi e portentosi della Campagna Romana, passando poi per i fastosi centri degli Albani, il viaggiatore si imbatteva in un mondo di toni, luci, vapori, riflessi, i cui stati d’animo e immaginari suscitati dal paesaggio precedente andavano a modificarsi con le visioni di questo: in questa sorta di viaggio iniziatico, come gli antichi seguaci dei misteri di Iside o dei misteri di Eleusi, che passavano simbolicamente attraverso la morte per diventare i due volte nati, capaci di comprendere eros-tanatos, vita e morte e tutte le coppie di opposti come aspetti complementari di uno stesso continuum di esistenza, i viaggiatori apprezzavano con grande gioia la solarità mediterranea delle coste di Terracina. Ormai lo Stige e l’Archeronte erano alle spalle e la vitalità solare del Meridione inondava le plaghe dove davvero fiorivano i limoni, preparando lo spirito alle nuove ispirazioni suscitate da Napoli, dai suoi costumi, dalla sua gente. [6] Terracina, era insomma il preludio di prossime pienezze, quelle di Napoli e del suo Golfo, intrise di antichità. Raffaele la Capria ha evocato il contrasto tra paesaggi omerici a Capri e virgiliani ai Campi Flegrei; Gregorovius anticipava a Torre Astura e al Circeo il carattere Epico-Omerico. [7]
Il Circeo, grigia eminenza
Domina la piana la “grigia eminenza” del Monte Circello che sottilmente cattura attenzione e pensiero [8]. Si impone come forma orizzontale che cresce verso il mare aperto, si distende e dura contro l’orizzonte, ma resta inconsistente: sempre in ombra, come una quinta territoriale al termine dell’Agro. Come legato ad un nastro, il promontorio di una magnifica forma, sembra ondeggiare attraccato alla lunga duna come presenza che tira la spiaggia pur restando immobile [9]. Una silhouette, nota come il quarto freddo, rappresentata più e più volte dai pittori a chiudere l’orizzonte dei dipinti dell’Agro o delle paludi. Assume sempre colori diversi, ma quasi mai chiaroscuro o contrasti forti. Questo suo particolare modo di incombere sulla pianura Pontina ha sollecitato l’immaginazione di viandanti e viaggiatori generando quelle tante descrizioni metaforiche che andiamo sgranando, e qui sotto illustrando; più metafisico di così…
Prima però, lasciamo la parola a Massimo Bontempelli, che con magico realismo ne descrive la crescente inconsistenza nel crepuscolo: in un’aria che tra il cielo e la terra appariva incerta e distratta, il Circeo visto da Terracina ridiventa isola. Se ne sente il mistero: cinto da un’altra atmosfera, o forse l’aria gli circola sopra senza toccarlo e attorno a tutta la sua superficie c’è il vuoto. Un brivido corse l’aria fino al Circeo, nuvole dal cielo gli gettarono addosso ombre cariche di fluidi disorientati e stupefatti. Allora comincio quasi il crepuscolo luminosissimo in alto, pieno di tenebre viscide vicino alla terra. [Si] muoveva lo sguardo sulla campagna maliconicissima (…) ma quando lo sguardo si rialza, il Circeo era balzato in avanti, si era allungato, pareva piatto, una larva color indaco attaccata all’orizzonte. (…) Allora l’isola si allontanò svaporando. [10]


Aurelio Tiratelli, il Circeo dal Lanuvio, 1890; Virgilio Guidi, Terracina, 1937; Jørgen Sonne, Monte Circeo, 1870; Giulio Aristide Sartorio, Il Circeo, 1903; Enrico Coleman, il Circeo, 1897; Louis Ducros, Le Pape Pie VI inaugurant les travaux d’assèchement des marais pontins, 1784; Jean Achille Benouville, Veduta del Circeo da Fornaci, 1863; Duilio Cambellotti, La redenzione dell’Agro pontino, 1930; Pierre Auguste Brunet Houard, Paludi Pontine (sd); La silhouette del Circeo così come elaborata dai dati satellitari (2021).
Sul suo crinale, verso mattino, sul quarto caldo, si trovano i resti di un’altra cinta megalitica, come quelle che abbiamo visto a Norba. Sono le mura di un santuario o di un’acropoli fortificata. Ai suoi piedi, verso Sabaudia, tante sono le rovine antiche, riferibili a edifici appartenenti a Lucullo e Domiziano. Sul punto più alto del promontorio, un’ara sembra poter essere identificata come santuario di Circe. Il culto della maga Circe fu diffuso in zona nell’antichità.
Nell’Odissea Circe abita un’isola con un’ampia pianura nel mezzo. Niente a che vedere con un monte isolato e scosceso. Ma riguardo ai poteri della maga Circe e alle paludi, piace molto riportare un passo di un testo degli anni Venti, volto alla redenzione di questo paesaggio sfortunato: la leggenda della maga Circe, distruttrice di ogni volontà e di ogni spirito eroico negli uomini, questa leggenda che i primi coloni greci stabilirono appunto sul verde monte Circeo non parrebbe forse creata per significare questo potere di dissoluzione che la bella pianura malarica esercita sulle razze? [11] Certo di paludi erano piene le coste dell’intero Mediterraneo, forse le Pontine quelle eminenti? Per contrasto il santuario della dea Feronia, sotto il monte Leano, accanto all’Appia appena prima di Terracina avrebbe consacrato l’agro e la sua fertilità.
Oblio malarico e terra rigogliosa si contendono questi luoghi nell’antinomia di numi tutelari.
Le bonifiche
La vicenda delle bonifiche e del regime idraulico delle paludi pontine consta una successione di interventi dall’epoca romana, alla tarda antichità di Teodorico, alla fondazione di abazie cistercensi ai suoi margini, a Fossanova e a Valvisciolo [12] ai primi progetti rinascimentali che se non hanno avuto che esiti frammentari, ci hanno comunque lasciato tra le altre cose, una bellissima mappa disegnata da Leonardo da Vinci, a cui Leone X aveva dato mandato di studiare la questione.

La topografia ne registra i tentativi, dal rio Martino (Martino V Colonna papa dal 1417 al 1431) al fiume Sisto (Sisto V Perretto da Montaldo papa dal 1585 al 1590), per arrivare alla Linea Pia della bonifica vera e propria di Pio VI.
All’avvio dei lavori giovò certo un Papa romagnolo, proveniente da una regione di consolidate tradizioni nel dominio delle acque, che con un gruppo politico e tecnico sempre romagnolo mise mano alle paludi. Artefice ne fu l’ingegnere bolognese Gaetano Rappini, il quale prima rilevò e stese la diligente anatomia di tutto il piano [13] cercando la pendenza, il cadente, che seppur modesto, sarebbe stato la condizione per presentare il progetto di bonifica. Si pensò dapprima di evacuare le acque tramite canali che aggirassero la pianura, ma prevalse poi, pare secondo un’intuizione del papa, un’intuizione letteraria e archeologica, conforme al ritorno alla classicità dell’Europa dei lumi, quella di recuperare il sistema antico con la via Appia al centro della piana affiancata da un canale. Del canale ne parlavano infatti Strabone e soprattutto Orazio [14], che ne raccontava la navigazione da Cisterna e Terracina; i ruderi dell’Appia erano ancora lì da vedere, e certo piaceva moltissimo l’idea di un ripristino della Regina Viarum e del paesaggio dell’agro romano. I lavori iniziarono nel 1777. Fu effettivamente un’opera enorme, con tutta la complessità e l’organizzazione del caso, financo a prevedere una cartamoneta interna agli spacci dei cantieri, la Paludella. [15]
L’esito non fu purtroppo quello sperato, la bonifica riuscì solo in parte, per oggettivi limiti tecnici, sottovalutazione delle portate e incuria di manutenzione, acuita quest’ultima dalle difficoltà dello stato pontificio negli anni di Napoleone. Lo stato italiano ereditò la questione, trascinandola fino alla Prima Guerra Mondiale, approntando però l’impianto legislativo di cui si servì lo stato fascista per proseguire. Il progetto delle bonifiche raggiunse quindi gli anni Venti sul piede di partenza, corroborato anche dalle frettolose promesse di terre fatte ai soldati demoralizzati nel 1917. Ma ostavano resistenze dei proprietari a cui toccava dividere la spesa, finché sia per acquisto che per esproprio lo stato non si trovò nella condizione di imprimere ai lavori un decisivo incremento. Le bonifiche e i successivi appoderamenti si attuarono sia nelle terre basse attorno alla via Appia, sia nelle selve poste sulla duna, selve che vennero sradicate ed abbattute lasciando solo in memoria il rettangolo dietro Sabaudia. La bonifica questa volta funzionò, grazie anche a potenti idrovore. La malaria persistette nonostante tutti gli sforzi per sradicarla, finché non giunsero gli americani col DDT.
L’operazione, oggettivamente colossale per entità, complessità tecnologica e organizzativa assunse ovviamente toni epici. Le Paludi pontine e la loro redenzione divennero (…) una metafora, viva e replicabile, per gli obbiettivi di modernizzazione propugnati dal regime (bonificando e coltivando a regola d’arte); una modernizzazione capace, al tempo stesso, di restaurare i valori preindustriali, come abbiamo visto. Una scommessa su un ossimoro (…). Non crediamo ci fosse in quel momento altro luogo, se non quell’area selvaggia e incontaminata presente nell’immaginario di ogni italiano -in cui la tecnica, però, permetteva di debellare la natura, ove avrebbe potuto essere realizzata l’utopia fascista della urbanizzazione rurale. [16] Responsabile dell’operazione fu l’Opera Nazionale Combattenti (ONC), uno degli enti dello stato fascista, dedicato ai reduci della Prima guerra Mondiale. E furono circa cinquemila famiglie il cui capostipite doveva essere un ex combattente, di provata fede fascista, famiglie sane, numerose, laboriose, con pochi anziani a carico, che sarebbero state allocate secondo una griglia di criteri relativi alla loro capacità lavorativa complessiva proporzionata alla dimensione dei poderi (che a sua volta dipendeva dalla fertilità della terra). Le loro origini nel settentrione, il trasferimento e la vita nell’agro sono raccontate da fu uno dei loro figli, Antonio Pennacchi nei due volumi di Canale Mussolini [17].
Il territorio delle Bonifiche
Ne risultò un territorio strutturato dalla maglia regolare dei poderi, ognuno con la sua brava fattoria, le cui strade si aprono talvolta in un borgo che forma nella campagna fuggente la sosta dell’abitato [18]secondo la felicissima espressione di Corrado Alvaro; borghi che trasferivano nella pianura i toponimi dei luoghi delle vittorie della Prima guerra mondiale del Veneto o delle Alpi; i coloni erano d’altronde in maggioranza veneti e friulani. L’Agro fu progettato fitto di fasce arboree frangivento, Eucalipti, scelti per la velocità di crescita e l’assorbimento d’acqua, finché con lo scioglimento dell’ONC la loro cura non passò ad altre autorità. Le fasce vennero poi abbattute e con esse si persero quelle quinte che, oltre a frangere effettivamente il vento, frangevano pudicamente a modo loro anche il disordine edilizio nel frattempo dilagato…

Le città invece inneggiavano col loro nome all’ordine costituito, Littoria e Sabaudia, ad artificiose evocazioni di toponimi locali (Pontinia, Pomezia) o a germinanti primavere (Aprilia); nella maglia cartesiana dell’agro si costruirono dei nuclei i cui spazi centrali erano una scenografia che pescava nell’immaginario della piazza di paese mediterraneo, una composizione di pezzi variamente congregati, la torre civica o littoria, il campanile, il palazzo comunale, la casa del Fascio, la chiesa, il portico [19]. Composizioni che nel mettere sulla scena gli accenti verticali del potere, torri e campanile, e quelle orizzontali, ritmiche degli altri edifici, potevano essere più o meno raffinate, più o meno convincenti per abilità del progettista, per linguaggio architettonico, per presenza o assenza di profondità paesaggistica. Lo strapaese era davvero dietro l’angolo, furono occasioni per lo più sprecate. Anziché scenografie si sarebbe potuto pensare, e sia gli immaginari, sia gli architetti in grado di attingerli erano a portata, a spazi e corpi edilizi che si misurassero con l’intero agro; per convincersene basti pensare ai progetti scartati, quello di Adalberto Libera per Aprilia (che vedremo più avanti) o quello che avrebbe potuto pensare Le Corbusier che tanto brigò presso un Mussolini indifferente, per ottenere l’incarico di Pontinia.

Le città delle bonifiche: Latina/Littoria [20]
La letteratura sulle città di fondazione fascista è ampia [21] ma essendo il nostro tema il rapporto tra le forme del territorio e quelle antropiche, ci limiteremo a dire che Littoria è città di fondazione del tutto infondata; lo è nei suoi rapporti con le giaciture dell’Agro. In quanto centro maggiore il suo asse principale avrebbe dovuto essere parallelo all’Appia, la direttrice fondamentale della piana. Fu invece disegnata radiocentrica, concentrata dapprima, quando non doveva che essere un borgo rurale, in una singola piazza che riuniva direttrici importanti ad altre del tutto trascurabili nell’artificiosa simmetria di un’inutile rotazione, e in seguito, quando Mussolini si accorse dell’eco internazionale larga e positiva che la fondazione stava avendo e volle la città capoluogo di una nuova provincia, lo stesso sistema venne potenziato in un insieme di piazze ugualmente artificiose. Ciò detto, le strade del centro di Latina sono piacevoli e alberate, l’edilizia residenziale ha anche episodi interessanti. Si è anche negli ultimi anni cercato di romperne l’impostazione radiocentrica originaria con un flusso edilizio che scorre per grandi cristallizzazioni e termina con quattro casamenti divaricati in ascesa verso il mare. Forse interessante nelle intenzioni, il risultato tangibile ingombra e costerna.
Le città delle bonifiche: Sabaudia [22]
Per raggiungere Sabaudia, che per quasi unanime opinione [23] è considerata tra le città nuove quella più riuscita, chiediamo un passaggio sulla nobile auto di Massimo Bontempelli, così vedremo l’Agro e la città appena costruita, con un po’ di Realismo Magico: (…) correndo la Fettuccia sulla mia nobile Ardita, di mano in mano che la falsa isola di Circe facevasi davanti a noi più greve, tutta l’aria si stringeva come un tessuto di insidie calando sopra la terra come una rete. (…) Ad ogni giro di ruote l’atmosfera si faceva sgomenta (…). Ma al numero ottantanove dell’appia, voltando ove a destra si la strada nuova (…) ci sentiamo libero dallo spirito circeo che ci insidiava. (…). E sboccando nella piazza del Comune, mi sono sentito gli occhi di Ulisse, quando sceso a un lido e un poco addentrandosi, stupefatto vedeva città bambine (…). Ecco davvero sono arrivato all’orlo di una civiltà che sboccia per la prima volta nell’aria; per questo mi pare una visione remotissima: siamo maledettamente abituati a sentirci millenari, in un mondo carico di maturità. Giovinezza omerica, tutta mattutina, nessun peso del passato, e nemmeno ci senti (come a Littoria) il peso di un programma per l’avvenire. Una subita frescura ti ha avvolto, d’un tratto riposato e sciolto dall’incubo del paese che traversavi, la zona affattuata da Circe [24].
Sabaudia per qualche misteriosa ragione, si consegna al ricordo come perfetta [25]. Probabilmente per la sua apertura alle dimensioni al circostante paesaggio – dal portico della piazza centrale, accanto alla torre civica, una fuga di pini domestici si disperde in lontananza verso il lago costiero – per la maglia stradale ben studiata e per la sua architettura raffinata, moderna, che non indugia nello strapaese. La si raggiunge attraversando quella porzione di foresta che si volle preservare: uscitine, ecco Sabaudia. La cosa ha un suo peso, portandoti in un luogo davvero altro, marittimo, rispetto all’Agro.
La spazialità stessa di Sabaudia risulta dalla politica fascista del “disurbanamento” che gli autori del progetto sentirono come una vera e propria vocazione: bisogna far parlare il vuoto, render quasi fisicamente quel riconquistato spazio territoriale che è diventato protagonista del rovesciamento campagna-città, lavorare sulla poetica dell’interruzione, della dilatazione percettiva, ma allo stesso tempo costruire un continuum con una nuova orchestrazione del progetto, che innervi un ambiente antropico così virtualmente rarefatto.
Non è un caso che per le città di nuova fondazione si sia parlato di metafisica, credo tuttavia in modo improprio. È pur vero che, nelle città nuove, si respira per l’appunto quell’attesa dell’evento che inquieta, del quale parla De Chirico (…) ma quella valenza metafisica non è tanto intenzionalmente cercata, quanto invece trovata proprio nella dilatazione dello spazio territoriale dovuto a quel rovesciamento città campagna del quale si è detto: un vero e proprio grado zero, imprinting d’ogni successiva trasformazione. Una metafisica involontaria, dunque, che però ben presto dilegua, per far posto ad una più banale aspirazione alla tradizione storicisticamente intesa. [26].
Ha una strada interna, quieta, trasversale ai flussi di attraversamento, tra il comune e la cattedrale, attorno al cui spazio tutti gli edifici si dànno un qualche accento monumentale; protesi turrite di retrostanti edifici magari inconsistenti, ma la scenografia funziona: un inizio e una fine, le quinte reggono la fuga prospettica, bilanciando accenti verticali e ritmi orizzontali asimmetrici. Ma il palazzo comunale, nonostante il pacato, elegante, garbato e moderno linguaggio architettonico, per la sua struttura a corte e per la sua posizione leggermente eccentrica rispetto all’abitato, ricorda quelle rocche, spesso ingentilite nel rinascimento, poste in fregio alle città storiche per dominarle. Avevano una piazza antistante per rispetto e apparato, e soprattutto un’uscita posteriore perché il despota potesse facilmente fuggirne qualora perdesse il potere.
Con la vaghezza dei pini domestici e in vista delle dolci anse del lago la turrita e moderna rocca fascista controlla gentile ma occhiuta gli spazi del nuovo centro.

Le Corbusier definì comunque Sabaudia un dolce poema, con un tocco di romanticismo, pieno di gusto, segno evidente di amore. [27]
Sabaudia si sviluppò poi come centro di villeggiatura. Moravia e Pasolini vi acquistarono casa nella seconda metà degli anni Sessanta e quest’ultimo la inserì (assieme ad Orte) in un documentario sulla forma della città, andato in onda sulla RAI nel 1974 [28]. Ne apprezzava l’architettura, quell’afflato metafisico del meriggio della città mediterranea, tanto rappresentato da de Chirico nelle messe in scena dei suoi stati d’animo e degli umani destini e che lungi da essere uno stile fascista, era qualcosa di quasi connaturato all’identità italiana. In un articolo sulla Sabaudia di Moravia e Pasolini pubblicato su La Repubblica, Enzo Sicliano scriveva: la piazza di Sabaudia la sera è piena di folla: non è più, di sicuro, la piazza di una città del silenzio. Ma c’è nei suoi porticati un’aria popolare, confidenziale, impolverata, un tono di lieve trasandatezza che significa allegria. [29]
Intermezzo sull’architetto Mazzoni
Littoria e Sabaudia hanno alcuni edifici dell’ingegnere Angiolo Mazzoni, funzionario del Ministero delle Poste e Comunicazioni, di cui vale la pena parlare. Tralasciando l’ampliamento della stazione di Littoria – Mazzoni ne fece di ben più interessanti – gli uffici postali delle due città stupirono per originalità compositiva. Quello di Littoria, con le sue espressive griglie antimalariche, i suoi salti dimensionali e i suoi elementi scenografici piacque tanto a Marinetti da ingaggiare immediatamente il Mazzoni nel redivivo Futurismo degli anni Trenta; Edoardo Persico invece, critico ben più severo, si riferiva alle architetture di Mazzoni come a paradossi plastici [30] L’edificio di Littoria venne manomesso irrimediabilmente negli anni Sessanta.
Resta quello di Sabaudia, splendente di mosaico blu, in onore ai Savoia. L’abilità, la destrezza compositiva è innegabile, e oggi l’edificio che articola corpi ortogonali su diverse quote, accanto alla diagonale dello scalone, si giova anche della verticale, e lassù della massa, di fusto e chioma, di un alto pino domestico. Insomma, nel tessuto della tanto garbata Sabaudia un tumulto architettonico circonda un pino. Il Mazzoni aveva sin da studente mostrato inclinazioni scenografiche – dallo scalone anziché scendere il direttore dell’ufficio postale potrebbe scendere un qualche pingue personaggio d’opera lirica – che talvolta riusciva a far prevalere sulle esigenze di monumentalità decisamente più rigide e retoriche degli edifici pubblici che gli toccavano come funzionario.

Le città delle bonifiche: Pontina, Aprilia, Pomezia [31]
Pontinia è effettivamente un borgo rurale, concentrato attorno ad una piazza quadrata, e si innesta nella maglia della bonifica ruotandone un settore per meglio orientare le sue abitazioni.
Di Aprilia, vale la pena fare qualche speculazione su quello che fu e quello che avrebbe potuto essere. Il centro di Aprilia era davvero una grande scenografia, una piazza articolata nella quale si combinavano lo spazio civico a quello del sagrato, in un gioco di primi e secondi piani, di volumi che recedono o incedono, mimavano la complessità di una piazza storica italiana. Pennacchi [32] la riteneva composizione riuscitissima e ne aveva moltissima nostalgia; fanno tenerezza le immagini degli anni Trenta, con i soli spazi centrali costruiti, in mezzo al nulla, senza ancora i quartieri residenziali, come fossero davvero il set per un qualche film su un littorio piccolo mondo antico; set che dopo lo sbarco di Anzio, distante appena qualche chilometro, divenne quello dei ruderi di un centro prossimo al fronte. Venne poi ricostruita frettolosamente e priva dei suoi accenti verticali.

Ma al concorso erano state presentate altre proposte, tra le quali quella di Adalberto Libera merita di essere illustrata per la forza del suo rapporto con la vastità del territorio. Risalendo dall’Agro si sarebbe imposto il quadrato della facciata di un alto e sottile parallepipedo in mattoni, con al centro il riquadro trasparente e dorato [33] di una loggia che, verosimilmente prendendo il sole dalla facciata retrostante, a sud, avrebbe brillato al centro della facciata frontale, orientata a nord. Accanto, due file di edifici porticati in fuga prospettica e a lato il fianco della chiesa. La città si para al territorio, dal modesto rilievo su cui insiste, con una forte orchestrazione di forme, luci e cromie. Cinta su tre lati da un doppio filare di alberi frangivento, e aperta alla veduta dei colli Albani e dei monti Lepini. Un’idea di città dalle forme perentorie, commisurate alle dimensioni del paesaggio, rese da pezzi architettonici stereometrici. Certo, nella luce dorata della loggia una figura col volto in ombra avrebbe potuto aizzar folle… Ma vuota, resta una facciata che inanella una loggia luminosa. E rispetto a questa vastità accolta dal progetto, si capisce anche la ricchezza di orizzonti della cultura architettonica del ventennio che si provava a dare al paese fascista un volto davvero audace e moderno, del quale però questo non era fatalmente all’altezza che a parole. Poche furono le eccezioni.

Questo progetto di Aprilia, al di là dei suoi meriti compositivi, porta anche a pensare, con moltissima nostalgia, ad un momento in cui sembrava che gli insediamenti potessero ancora avere una misura finita e potessero stare nel territorio come forme nette e riconoscibili, con i maggiori edifici rivolti sia alla città che al paesaggio.
Qualcosa di questa apertura al paesaggio, comune peraltro anche ad altre proposte del concorso, è comunque restato nel successivo progetto di Pomezia. Il linguaggio architettonico è lo stesso strapaese di Aprilia, ma l’intera piazza si apre alla vista dei Lepini in lontananza; si apriva in realtà, che oltre il giardino pubblico che, se manutenuto, terrebbe sgombro il primo tratto del canale ottico, vi sono insediamenti industriali che chiudono definitivamente la vista.
E tanti saluti.
Compagni di strada:
Ferdinand Gregorovius (vedi il capitolo precedente)
Roberto Almagià (1884-1962), geografo. Pubblicò innumerevoli saggi su periodici a carattere nazionale ed internazionale, sui temi più disparati della geografia mondiale, sempre preceduti da meticolosi viaggi di ricerca.
Renato Mammuccari: avvocato e appassionato collezionista dell’Ottocento, si dedica da anni alla riscoperta dei pittori che dalla fine del Settecento agli inizi del Novecento hanno ritratto Roma e la sua campagna, riproponendone le opere in pubblicazioni e in mostre.
Rigel Langella, avvocato e teologa. Giornalista e saggista collabora a quotidiani e periodici come free lance. Ha pubblicato numerosi saggi, e come appassionata viaggiatrice e fotografa, numerosi reportage.
Angiolo Mazzoni (1894-1979), ingegnere, funzionario delle Ferrovie dello Stato e presso il ministero delle Comunicazioni durante il Ventennio, fu progettista di numerosissimi edifici pubblici. Alcuni, come la stazione di Montecatini, la centrale termica e cabina apparati della stazione di Firenze, il palazzo delle poste di Ostia e quello di Sabaudia, sono considerati capolavori. Dopo la guerra si trasferì in Colombia, tornò in Italia negli anni Sessanta.
Massimo Bontempelli (1878-1960), scrittore e saggista; teorizzò e praticò una sorta di Neoclassicismo, il Realismo Magico, un’arte capace di estrarre attraverso il gioco dell’intelligenza e dell’ironia, il dato fantastico e irreale delle vicende quotidiane (dall’enciclopedia della Letteratura Garzanti).
Adalberto Libera (1903-1963), architetto, tra i maggiori esponenti del razionalismo. Tra le sue opere più note, il palazzo dei Ricevimenti e Congressi dell’Eur a Roma e la villa di Curzio Malaparte a Capri.
Corrado Alvaro (1895-1956), scrittore, poeta, giornalista, sceneggiatore. Autore di un reportage sull’Agro Pontino pubblicato nel 1934, difese il suo lavoro dopo la guerra, scrivendo in Ultimo diario: Lo scriverei anche oggi, se qualcuno bonificasse qualche cosa, chiunque fosse, essendo io legato al lavoro, alla terra, alla sofferenza umana.
[1] Marco Annio Lucano, La Farsaglia, volgarizzata da Francesco Cassi, Venezia, 1850, p. 179, citato in Mammucari/Langella, vedi oltre
[2] Avrà avuto la fortuna di vederlo dal giardino del Belvedere, a valle del cinquecentesco palazzo comunale del Vignola. Noi oggi questa fortuna non l’abbiamo più, giacché le case al di sotto dello spiazzo son cresciute di quel tanto che dell’ultimo orizzonte il guardo escludono… Sicché si entri nel soprastante palazzo e si ammiri l’Agro da una delle grandi finestre ad arco degli atri.
[3] Ferdinand Gregorovius, Passeggiate per l’Italia, vol. 3 (Lazio e Abruzzo), Avanzini e Torraca editori, Roma, 1968, p. 60
[4] Le Vie d’Italia (rivista del Touring Club), marzo 1922 Roberto Almagià Vedi: http://www.cittaconquistatrice.it/paludi-pontine-1922/
[5] Nel regno della febbre di Guelfo Civinini, in Valentino Orsolini Cencelli, Le paludi Pontine, Bergamo, Opera Nazionale dei Combattenti, 1934, p.252-55
[6] Ci immedesimiamo volentieri in questo percorso iniziatico suggerito da Renato Mammuccari/Rigel Langella, I pittori della Mal’aria dalla Campagna romana alle Paludi pontine, Newton Compton, Roma, 1999, p. 29
[7] Ferdinand Gregorovius, Passeggiate per l’Italia, vol 3, cit. p. 48; La Capria approfondisce l’opposizione Virgiliano/Omerico in L’Occhio di Napoli (1994) ora nella raccolta Napoli, Mondadori, Milano, 2009, p. 173.
[8] Mammuccari/Langella, cit.p.190
[9] Ferdinand Gregorovius, Passeggiate per l’Italia, vol. 2 (Roma e Lazio), cit. p. 185
[10] Massimo Bontempelli, Il figlio di due madri, Utopia editore, Milano, 2021, p.57. Il libro venne pubblicato nel 1929.
[11] A. Pais, Per redimere la palude pontina, progetto di lotta antimalarica, Tipografia del Senato, Roma 1923, p. 32. Citato in Pietro Gruppuso, Nell’Africa tenebrosa alle porte di Roma, Annales edizioni, Roma, 2014, p. 53.
[12] Non ho trovato rispondenze tra la fondazione delle abazie in fregio alle paludi e un progetto di bonifiche da parte dei monaci.
[13] Giovanni Rosario Rocci (a cura di), Pio VI, Le paludi pontine, Terracina, Terracina, 1995, p 515.
[14] Orazio, Satira V, il viaggio a Brindisi. Per Strabone, Plinio ed altri autori antichi che scrissero sulle Paludi Pontine si veda la pagina di Wikipedia sulle stesse: https://wikiait.icu/wiki/Pontine_Marshes
[15] vedi Alfeo Giacomelli, per un’analisi comparata delle Bonifiche della Stato Pontificio del secondo Settecento: la bonifica delle tre legazioni e la bonfica pontina, in Giovanni Rosario Rocci (a cura di) Pio VI, Le Paludi pontine, Terracina, Terracina 1995, p. 165.
[16] Giulio Alfieri, La terra che non c’era, Betti Editrice, Siena, 2014, p.81
[17] Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori, Milano, 2010, e Canale Mussolini parte seconda, Mondadori, Milano, 2015
[18] Corrado Alvaro, La terra nuova, citato in Giorgio Muratore, La Città italiana del Novecento: un patrimonio europeo, in Metafisica costruita. La Città di fondazione degli anni Trenta dall’Italia all’Oltremare, a cura di Renato Besana, Carlo Fabrizio Carli, Leonardo Devoti, Luigi Prisco, Regione Lazio, Assessorato alla Cultura, Touring Editore, Milano 2002, pp. 19-29.
[19] Si è cercata una corrispondenza tra l’immaginario metafisico di De Chirico e queste piazze che tanto le ricordano. Alessandra Muntoni confuta molto giustamente questa corrispondenza nel suo Urbanistica e architettura nelle città dell’Agro Pontino, Architetturacittà n.14/2006 Città Pontine, p.26
[20] Progetto dell’architetto Oriolo Frezzotti con indicazioni tecniche dell’Ingegnere Caio Savoia
[21] Si segnalano Antonio Pennacchi, Fascio e Marello, Laterza, Roma-Bari, 2010; Metafisica Costruita, Le Città di fondazione degli anni Trenta dall’Italia all’Oltremare, TCI, Milano, 200 e Architetturacittà n.14/2006 Città Pontine.
[22] Progetto degli architetti Gino Cancellotti, Eugenio Montuori, Luigi Piccinato e Alfredo Scalpelli
[23] Solo Antonio Pennacchi, che io sappia, dissentiva dal coro.
[24] Massimo Bontempelli, Mattinata a Sabaudia, in Gazzetta del Popolo, 11 giugno 1934, ora in Alessandro Muntoni (a cura di), Sabaudia, lazio 3, de L’atlante storico delle città italiane, diretto da Francesca Bocchi – Enrico Guidoni, Roma 1988, p.70
[25] Franco Purini, Questioni Pontine, in Architetturacittà n.14/2006 Città Pontine, p.44.
[26] Alessandra Muntoni, Urbanistica e architettura nelle città dell’Agro Pontino in Architetturacittà n.14/2006 Città Pontine, p.27
[27] In Le Corbusier, la fattoria radieuse, il villaggio radieux, 1933-34 in R, Tamborrino (a cura di), Le Corbusier scritti, Einaudi, Torino, 2003, p. 179
[28] Io e…: Pasolini e… la forma della città, 17 min. Regia di Paolo Brunatto e Pier Paolo Pasoilini, sceneggiatura di Paolo Brunatto, musica di Giuliano Sorgini e fotografia di Mario Gianni, Produzione RAI, 1974.
[29] La bella estate. Io, Alberto e Pier Paolo , di Enzo Siciliano, La Repubblica, 2 agosto 1994, qui riprodotto: http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/pagine-corsare/la-vita/roma/vacanze-nel-silenzio-di-sabaudia-con-moravia-e-ppp-di-enzo-siciliano-1994/
[30] Edoardo Persico, Punto ed a capo per l’architettura, Domus, novembre 1934, ora in Edoardo Persico, Profezia dell’architettura, Skira, Milano, 2012, p. 65n.
[31] Pontinia venne progettata da Alfredo Pappalardo, con la consulenza artistica di Oriolo Frezzotti; Aprilia e Pomezia vennero ambedue progettate dagli architetti Concezio Petrucci, Mario Tufaroli, e Riccardo Silenzi e dall’Ingegnere Emanuele Filiberto Paolini;
[32] Si veda Fascio e Martello, cit.
[33] Forse trasparente. I disegni, rimasti ad una scala di dettaglio funzionale al concorso non sono approfonditi. Certo è che la parte verticale del palazzo comunale era molto sottile e orientata nord-nord-est. Il grande quadrato del comune, in ombra per buona parte del giorno verso il paesaggio, aveva così al suo centro una loggia che lo attraversava e con essa il sole. Viceversa, si sarebbe visto in piena luce, con forse la loggia in ombra, da Anzio e dal mare.