SOTTOTRACCIA, A MILANO, C’È VITA – di Paolo Pasi

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Milano è piena di itinerari. Quelli tracciati dalle direttive che accompagnano verso il lavoro, i sali e scendi della movida nelle zone più in, quelli messi a fuoco dalle fotocamere del turismo internazionale. È lo sguardo che incide e graffia la città, e spesso in cerca di ciò di cui può appropriarsi si incatena nella miseria di ciò che è fatto per essere consumato, e che ci separa tra noi e dai luoghi.

Questo testo cerca di guardare la città da un’altra angolazione, conducendo il cammino su angoli interrati e episodi di memoria collettiva, per ritrovare stralci di intimità nel nostro incedere quotidiano. Uno sguardo inattuale che vaglia la città sottotraccia, là dove ancora c’è vita.

Non c’è niente come camminare per scoprire angoli del paesaggio urbano tenuti in ombra da sguardi abitudinari e pigri, da giorni e giorni di tragitti ciechi e ripetitivi. La città inizia allora a rivelare dettagli oscurati per troppo tempo dal tettuccio delle nostre auto o dalle pieghe nervose di moto costantemente in lite con il tempo.

Confidare sulla lentezza del passo è il modo migliore per viaggiare a Milano, e scoprire che perfino la metropoli della frenesia è in grado di sorprendere, rivelandoci una sua vita sotterranea, o meglio underground, sovversiva perché letteralmente capace di sovvertire le aspettative, anche rispetto a quello che abbiamo sotto il naso.

Ecco perché ho scelto di iniziare il percorso cittadino dalla chiusa della Conchetta, sul Naviglio pavese, a sud di Milano, così chiamata perché – molto semplicemente – è la conca più piccola dei canali dei navigli milanesi. E’ una testimonianza storica risalente al 1809, un’opera ingegneristica “vinciana”, perché ispirata alle scoperte diLeonardo da Vinci, ed è soprattutto il punto di partenza per me naturale, visto che sta quasi sotto casa mia.

Un ponticello collega via Darwin a via Conchetta. Consiglio di prendere posizione al centro, il punto di osservazione migliore, e di guardare verso nord, in direzione della Darsena. Davanti a voi si apre la via risaputa del divertimento che si concede una tregua come una donna struccata. Spente le insegne, calate le serrande. Solo la corrente del naviglio scorre con forza tra i congegni che ne regolavano il livello a beneficio dei battelli fluviali che salivano e scendevano, scendevano e salivano…

Godetevi questa musica naturale, il respiro impetuoso dell’acqua che riesce a imporsi sul sottofondo acustico del traffico. Poi aprite lo sguardo. Non avete che da scegliere. Andare dritti verso il centro della città, paralleli al corso d’acqua, entrando nella desertificazione della vecchia o new movida, oppure puntare in direzione anomala, un po’ più verso destra, e imboccare via Conchetta per andare oltre il paesaggio rimodellato dai consumi.
In quest’ultimo caso entrerete in un territorio da esplorare senza perdere nulla. I locali vi aspettano a qualunque ora, si sa. E allora camminiamo lungo via Conchetta. A una ventina di metri, sulla sinistra, spicca un edificio basso e lungo dalla facciata bianca e scrostata, su cui campeggia un murale che ritrae tante teste tutte collegate da inquietanti marchingegni. Il manifesto politico resistente è sormontato da tre scritte: Cox 18, Primo Moroni, Calusca City Lights.

Benvenuti nella sede del centro sociale Conchetta, appunto il Cox 18, che ospita la libreria Calusca e il più importante archivio cittadino di controculture e tematiche underground. La libreria venne fondata nel 1971 da Primo Moroni, figura storica dell’antagonismo milanese. Dal 1995 si chiama Calusca City Ligths, per ricordare la visita del poeta simbolo della beat generation, Lawrence Ferlinghetti. Vi si accede da una porticina alla sinistra dell’ingresso principale. Fatevi guidare nel labirinto di libri usati, riviste, dischi, perdetevi nel loro odore tra le sezioni che coprono tutto quanto è alternativo alla cosiddetta corrente mainstream, altrimenti detta del “pensiero unico”: dal femminismo alla psichedelia, dagli anni Settanta all’anarchismo. L’archivio Primo Moroni, al piano superiore, è costituito da circa 15mila volumi e 1.500 testate periodiche, senza considerare altri supporti come registrazioni, vinili e video. Roba da capogiro underground, pura vertigine per gli appassionati. Una volta usciti da questa immersione storica tra le pagine, proseguiamo lungo via Conchetta. In fondo, in largo Mahler, vedrete l’Auditorium di Milano, sede della prestigiosa orchestra Verdi.

Imboccate a sinistra corso San Gottardo, all’apparenza una normale via commerciale trafficata, piena di negozi di abbigliamento e alimentari. Ma la storia si annida in luoghi nascosti come una strada secondaria o un cortile interno, testimonianze del passato intimidite dal nuovo che non ha mai smesso di avanzare. Ed ecco sbucare dalla traversa di via Gentilino una storica trattoria del quartiere, la Madonnina, cucina lombarda, prezzi abbordabili e interni accattivanti, autentici, all’insegna di una leggera nostalgia che non teme di tornare sul proprio passato. Consigliabile una pausa ristoro.

Continuiamo a camminare. Un tempo corso San Gottardo era chiamato in milanese “el borgh di formaggiatt”, il borgo dei formaggiai, perché si stagionavano e vendevano le forme di formaggio trasportate dalle campagne a sud di Milano fino ai Navigli. Tracce di queste origini restano nelle case più antiche e nei retrobottega di alcuni negozi. Uno di questi, all’altezza del numero civico 13, è un’enoteca storica della zona, che ha trasformato in cantina il locale interrato dove un tempo venivano conservate le forme. Chiedete al saggio gestore dell’enoteca un giro guidato, tempo e clienti permettendo. Ne vale la pena, e già che ci siete beveteci sopra. Riprendiamo il cammino per arrivare direttamente in piazza 24 maggio, al cui centro è pronta ad accoglierci la porta Ticinese. Alla sinistra si apre lo specchio della Darsena, l’antico porto milanese, punto di arrivo delle chiatte che trasportavano ghiaia e merci sulle rotte dei canali navigabili. Si faceva sosta lungo le sponde in qualche posteria, prima di riprendere il viaggio di ritorno.

A proposito di cronache sovversive della città “oscurate” dal tempo, va aggiunto che la piazza e i suoi dintorni furono attraversate dalla rivolta milanese del pane, nel maggio 1898, duramente repressa dal famigerato generale Bava Beccaris. Quello che è oggi il cuore della Milano turistica era un tempo un quartiere popolare, operaio, perfino malfamato, dove le contrattazioni non avvenivano sempre alla luce del sole e i traffici illeciti convivevano con gli scambi commerciali. Oggi, sotto la porta Ticinese si concentrano i moderni sfruttati, i rider che consegnano cibo ai non affamati, e che all’ombra, o al riparo dal freddo a seconda della stagione, si concedono una tregua di silenzio dopo le ordinazioni.
Poco più avanti, spiccano i due caselli daziari trasformati in locali trendy per aperitivo-dipendenti. Uno di questi è stato per molti anni frequentato dallo scrittore milanese Andrea Pinketts.

Andiamo oltre per imboccare corso di porta Ticinese. Subito sulla sinistra, all’altezza del numero 106, spicca una piccola strada laterale, via Calusca, sul cui nome cisono interpretazioni diverse. C’è chi dice che provenga dall’espressione Ca’ Losca, per sottolineare come questo fosse, in tempi meno recenti, il ritrovo abituale della“ligera”, la malavita locale, fatta di borseggiatori, ladri e protettori che sorvegliavano l’attività di una casa di appuntamenti. Per altri il nome deriva dalla famiglia Lusca, che qui risiedeva. Narrano gli storici che la via era anche conosciuta come “vicolo dei nani”, forse per le sue dimensioni contenute che, dal suo interno, farebbero pensare alla corte di un piccolo borgo poco illuminato. Di certo la stessa storia ci consegna un dettaglio tragico, intrecciato ancora una volta alla repressione. Durante le Cinque Giornate di Milano, questo vicolo fu teatro di violenze contro donne e bambini da parte delle truppe austriache in fuga. Le vie del quartiere, evidentemente, sono lastricate del sangue del potere.
Procedendo per corso di porta Ticinese, troverete sulla destra la bella basilica di Sant’Eustorgio, nell’omonima piazza. Se volete avventurarvi in una spiegazione storica dovete avvicinarvi fin quasi a contatto di naso all’entrata laterale sinistra, dove troverete uno striminzito cartello informativo: edificio di epoca paleocristiana, origini tra il quarto e il sesto secolo. Ma noi vogliamo soprattutto stanare l’inconsueto e l’invisibile.

Continuiamo a percorrere il corso, e quasi subito si apre sulla sinistra un’altra strada laterale, via Scaldasole, dal nome di un’antica contrada del Ticinese. È un altro vicolo che s’insinua tra edifici storici e un piccolo parco, di fronte al quale, al numero civico 5, sorgeva un circolo anarchico. Fu qui che, la sera del 12 dicembre 1969, la polizia fermò Pino Pinelli poco dopo l’esplosione di una bomba in piazza Fontana. Gli venne chiesto di seguire l’auto degli agenti con il suo motorino rosso. Sappiamo com’è andata a finire. Pinelli, ferroviere anarchico, era innocente: entrò in questura e non tornò più a casa.

Tornando verso corso di porta Ticinese, troviamo sulla destra la libreria Scaldasole, ricca di libri di narrativa e saggistica, soprattutto usati, una miniera per chi cerca testi storici e ama gli incontri a sorpresa con testi spesso fuori catalogo. Vale la pena fermarsi anche per una chiacchierata con Giulia, titolare della libreria. Riprendiamo il cammino in corso di porta Ticinese. Sulla destra s’intravede l’oasi verde dei giardini di piazza Vetra, utili e consigliati per una pausa distensiva sul prato. Seguendo la direzione verso il centro, percorriamo il tratto finale del corso. Arrivati in fondo, è tempo di attraversare la circonvallazione interna e, sul lato opposto del marciapiede, varcare l’arco più antico, l’originaria e antica porta Ticinese medievale. Poco più avanti, svettano le spettacolari colonne di San Lorenzo, tra le poche testimonianze storiche dell’epoca tardo romana.

Lasciate che l’occhio catturi i dettagli e si faccia conquistare dalla bellezza architettonica senza troppe spiegazioni, anche perché cercare informazioni è quasi proibitivo. Anche in questo caso, pochi cartelli paiono fare spallucce ai monumenti, imbrattati da schizzi di vernice che qualcuno osa chiamare graffiti.

Strano. Questa città, così attenta a esporre in bella vista e a chiari caratteri le informazioni sui cantieri aperti, dà l’impressione di tirarsi indietro quando si tratta diconfrontarsi con la propria storia. Attraversiamo il maestoso colonnato. Sulla nostra destra ci saluta la basilica di San Lorenzo maggiore, costruita a cavallo tra il quarto e quinto secolo sulla strada per Ticinum, l’odierna Pavia.
Andiamo avanti nella nostra eroica impresa di camminatori che tentano di stanare le testimonianze rimosse o dimenticate, ed eccoci al Carrobbio, punto di congiunzione di quattro vie dove un tempo passavano i carri per il trasporto merci, cosicché gli storici sono combattuti tra Quadrivium Carrivium come origine dell’attuale nome. Aldilà dell’etimo, ci interessa imboccare la direzione che porta dritto al cuore di Milano, ovvero via Torino. Anche questa strada è un luogo in prevalenza commerciale, costellato di negozi e insegne con marchi delle più famose catene. Ma se affiniamo i sensi, l’olfatto e l’udito in particolare, possiamo ancora cogliere l’eco degli scontri e l’odore della polvere da sparo. Basta leggere le cronache del giornalista Paolo Valera, scritte in presa diretta, matita e taccuino alla mano, il 7 maggio 1898. Vedo in via Torino come un polverio bianco e ho per le nari un odore di fucilate...

Sì, stiamo ancora parlando delle sanguinose giornate della rivolta repressa con ferocia da Bava Beccaris. Come in porta Ticinese, anche in questo spicchio di Milano si eressero le barricate e si tentò di opporre resistenza ai fucili dei militari. Pietre contro cannonate. Nessuna targa lo ricorda, eppure la memoria storica, per quanto rarefatta dal tempo, sembra ancora aleggiare sugli edifici più antichi e nell’intrico di viuzze interne che un tempo offrirono riparo ai ribelli.

Continuando lungo via Torino, verso piazza Duomo, ci accorgiamo che le sorprese non mancano e riescono a liberarsi dalla presa soffocante di tavolini e insegne dei bar. Ne sono dimostrazione la chiesa di San Giorgio al Palazzo, fondata nell’anno 751, e poco più avanti, sempre sulla sinistra, il Civico tempio di San Sebastiano, uno dei pochi esempi di edifici religiosi a pianta centrale di Milano informa un pannello finalmente leggibile. Il tempio venne eretto come ex voto per celebrare la fine della peste nel 1576.
Quasi accanto, rifugiato nell’ombra di un passaggio laterale, c’è un altro piccolo tempio consacrato alla settima arte. È il cinema Centrale, uno dei più antichi di Milano, nato nel 1907, quando ancora si parlava di cinematografo. Un multisala ante litteram, con due piccole sale che per decenni hanno richiamato (e continuano a farlo) i cultori del cinema che un tempo si chiamava d’essai per distinguerlo dalle sale dove programmavano i film di cassetta. Oggi basta chiamarlo cinema per conferirgli l’aura di un luogo anomalo e di una scelta controcorrente, meritevole dunque di essere inserita nel nostro itinerario. Consigliata la sosta per chi ama consumare un paio d’ore di solitudine attiva, oziosa e creativa davanti a un film. Passo dopo passo lasciamo che via Torino ci guidi verso un’altra destinazione. Sulla sinistra, incastonata tra i palazzi e obliqua, quasi in retroguardia rispetto al flusso dei passanti, spunta la facciata di una piccola chiesa del periodo rinascimentale, Santa Maria presso San Satiro. Vale sicuramente una visita, a patto che la troviate aperta. Andiamo oltre. Arrivati in fondo a via Torino, il cuore si allarga alla vista della più famosa cattedrale della città. A questo punto si aprono due possibilità. Andare subito a destra verso piazza Duomo, oppure concedersi una variante: voltare a sinistra e imboccare via Orefici, alla scoperta di un’altra piazza meno conosciuta, ma di straordinaria bellezza: piazza Mercanti.

È quanto ci accingiamo a fare, ma prima un consiglio. Addentriamoci per qualche minuto nelle viscere del centro di Milano per regalarci la suggestione di un vero viaggio underground. Scendiamo nel labirinto sotterraneo della metropolitana milanese dove si incrociano due linee (la rossa e la gialla) e scopriamo il lungo sottopasso che collega piazza Duomo a piazza Cordusio. Quello che oggi è un semplice punto di attraversamento sotterraneo con tanto di bar e negozi, negli anni Sessanta era il rifugio notturno dei beat e dei cosiddetti “capelloni” che venivano a dormirci in sacco a pelo. Un vero motivo di scandalo, pare, per i benpensanti meneghini e i giornali moderati, tanto più che gli stessi beat, nelle ore del giorno, si ritrovavano in piazza Duomo sotto il monumento a Vittorio Emanuele II, ribattezzato “il pirla a cavallo”.

Torniamo in superficie come i beat di un tempo, e puntiamo verso piazza Mercanti percorrendo un breve tratto di via Orefici. Qui, una cinquantina di anni fa, c’era l’edicola più sovversiva di Milano, gestita da Augusta Farvo, una donna combattiva soprannominata “la mamma degli anarchici” perché prestava assistenza e davainformazioni ai compagni di passaggio a Milano. Vi si trovavano le principali pubblicazioni libertarie, libri di Bakunin e Malatesta, testate storiche degli anarchici. Oggi, nello spazio un tempo occupato da questa isola di ribellione, c’è un altro chiosco che vende souvenir, accendini e magliette. Di fronte si apre uno stretto passaggio, detto degli Osii, che in pochi metri ci porta nella magia di Piazza Mercanti, cuore politico e commerciale della Milano medievale.

Piazzatevi al centro, proprio accanto al pozzo e ammirate la bellezza degli antichi palazzi, l’eco delle loro storie segrete che ci riportano indietro nel tempo: il palazzo della Ragione, la sottostante Loggia dei mercanti, la Loggia degli Osii. Unico elemento che stona è l’impatto visivo e olfattivo di una nota catena di fast food, che da anni ha impiantato qui un suo negozio. Ci fu una querelle, ma gli oppositori al progetto vennero bollati come conservatori e persero la battaglia. Poco male, la piazza mantiene quasi intatto il suo fascino.

Se sbuchiamo sul lato opposto, possiamo ammirare la parte frontale della Loggia dei mercanti. Dettaglio per i curiosi, per me ricordo di una gita scolastica ai tempi delle elementari: sul secondo arco partendo da sinistra potete vedere il bassorilievo della Scrofa lanuta, creatura leggendaria nonché antico simbolo di Milano.

Ma è tempo di riprendere contatto con la storia più recente intessuta di suggestioni letterarie. Entriamo in piazza Duomo. Camminiamo sotto i portici a sinistra della cattedrale e raggiungiamo la galleria Vittorio Emanuele. Al suo imbocco si è ormai spenta l’eco del chiacchiericcio dei pensionati che qui, un tempo, formavano capannelli e scaldavano i pomeriggi invernali con le loro accese discussioni politiche. Restano però altre testimonianze di un passato ancora vivo. Sulla sinistra troviamo infatti un luogo storico che ci riporta agli inizi del Novecento. È il barCampari, più precisamente “Il Camparino”, fondato nel 1915, meta non solo turistica ma anche artistica; frequentata per esempio da scrittori e pittori del movimento futurista. Molti i motivi per entrare e concedersi una pausa di riflessione alcolica: dagli aperitivi ai suggestivi interni della piccola sala arredata in stile liberty, con specchi e banconi dell’epoca, mosaici e lampadari d’autore, che danno nell’insieme la sensazione di un viaggio a ritroso.

Tra gli avventori illustri del Camparino troviamo anche Ernest Hemingway, che cita il bar in Addio alle armi nelle memorabili pagine dedicate a Milano, che lo scrittore conobbe quando venne ricoverato nell’ospedale della Croce Rossa americana. L’effetto di questi richiami letterari e artistici, come dicevo, è di restituire al luogol’aura antica e originaria, nonostante il Camparino abbia subito gli effetti dei bombardamenti nella seconda guerra mondiale, come peraltro tutta la Galleria dedicata a Vittorio Emanuele II, restaurata e riaperta nel 1955. Adesso è il momento di addentrarci proprio in Galleria. Arrivati al centro, laddove si incrociano i bracci, nel cosiddetto Ottagono, non potrete fare a meno di notare sulla sinistra uno strano fenomeno, un assembramento di turisti rotanti come dervisci inconsapevoli che girano ossessivamente su se stessi facendo perno sul tallone. Preparati dal fitto passaparola tra conterranei o amici social, si accaniscono su un punto preciso della pavimentazione, un mosaico raffigurante lo stemma della città di Torino. Il punto di pressione dei turisti, per la precisione, sono le cosiddette “palle del Toro”, e l’accanimento è legato a un rito scaramantico secondo cui basterebbe girare per tre volte a occhi chiusi sui testicoli del quadrupede per avere fertilità, fortuna, oltre che il ritorno assicurato a Milano. Di certo l’usanza e l’usura hanno finito per massacrare gli attributi dell’animale, soggetti a per questo a periodico restauro.

Che decidiate o meno di partecipare a questa folcloristica passerella, l’importante è rimettersi in cammino verso l’uscita dal lato opposto della Galleria. Bastano pochi metri perché si riveli la bellezza di piazza della Scala. Sulla sinistra c’è il teatro del Piermarini, tempio mondiale della lirica. Sulla destra Palazzo Marino, edificio del Cinquecento realizzato dall’architetto Galeazzo Alessi, sede della giunta e del consiglio comunale di Milano dai tempi dell’Unità d’Italia. Sulla storia della Scala e del suo palazzo dirimpettaio le informazioni sono sterminate. Dato che il nostro percorso si muove su tracce nascoste e meno risapute della città, preferisco soffermarmi sul terzo lato della piazza, dove svetta un palazzo antico sormontato da una scritta. Si tratta della sede della Banca commerciale italiana, legata suo malgrado al ricordo di uno dei giorni più tragici della recente storia di Milano. Qui, il 12 dicembre 1969, a poche ore dalla strage in piazza Fontana, venne infatti ritrovata una valigetta nera con un ordigno inesploso, presumibilmente simile a quello che aveva appena provocato lo scoppio nella Banca nazionale dell’agricoltura. La sera stessa l’ordigno venne fatto “brillare” dagli artificieri, che fecero così scomparire un probabile, prezioso elemento d’indagine sui mandanti e gli esecutori della strage di piazza Fontana. Decisione incomprensibile, o forse fin troppo chiara, che moltiplica la rabbia per i tanti misteri d’Italia.

In nostro soccorso sembra venire lo sguardo assorto di Leonardo da Vinci, la cui statua si staglia al centro della piazza, proprio di fronte alla Scala. Sembra concentrato sulle sue riflessioni filosofiche e scientifiche, forse sulla suggestione del volo chissà… Un tributo all’arte, e non solo, all’opera e all’ingegno, alla musica e alla ricerca. Soprattutto alla figura dell’essere umano poliedrico, scienziato e umanista, che così tanto cozza con il nostro presente così affamato di definizioni con cui etichettare le persone, limitandone il raggio d’azione al ruolo che il marketing ritiene appropriato.

Forse mi sono fatto prendere la mano, ma mi piace pensare che, dopo le conche dei Navigli, sia sempre Leonardo a indicarci una nuova direzione, lontana da quella dell’uomo parcellizzato. E allora rimettiamoci in cammino lungo il nostro itinerario. A destra di Leonardo e della Scala troviamo via Verdi, una lunga strada che potrebbe essere meglio apprezzata se non fosse per i lavori in corso che, in parte, ne intralciano la vista. È in fase di realizzazione, infatti, il nuovo edificio che completerà il complesso della Scala.

Andiamo avanti tenendoci sulla destra di via Verdi. A circa metà strada incrociamo la chiesa di San Giuseppe, costruita nella prima metà del Seicento, ma già sentiamonell’aria il richiamo di qualcos’altro, fiutiamo nuove tracce di storia, intravediamo un incrocio stretto, un semaforo, e proprio dritto davanti a noi si apre un’altra via che si avvicina, non molto larga, ma testimone un tempo di una febbrile vita sotterranea.

Siamo arrivati al semaforo. Eccola di fronte a noi. Via Brera è la porta di ingresso al quartiere che fu degli artisti, e che oggi è un patinato richiamo turistico ad altissimo costo per metro quadrato.

Tra poco ci entreremo, ma prima consiglio una piccola deviazione a destra lungo via Monte di Pietà. Percorso un centinaio di metri ci troviamo di fronte al palazzo che ospitava il Monte di Pietà di Milano, nato alla fine del Cinquecento per favorire l’accesso al credito dei ceti meno abbienti a condizioni meno soffocanti rispetto ai tassi usurari, attraverso il meccanismo dei pegni. La storia narra che l’edificio, realizzato dal Piermarini alla fine del diciottesimo secolo, fu sede dell’istituzione fino al 1938. Oggi ospita gli uffici di una banca. Ancora una volta resta la memoria storica del luogo, percepibile se solo la si vuole vedere, a ricordarci il sottofondo popolare della città, i tanti oggetti lasciati come garanzia, ciascuno una storia mai affiorata sotto il peso dei debiti. È come se di fronte a questo palazzo parlasse ancora la Milano del bisogno, della fatica, della povertà, e tutto questo a due passi dalle scintillanti e lussuose promesse di via Montenapoleone. Il contrasto non potrebbe essere più stridente.

A questo punto torniamo sui nostri passi per tuffarci finalmente in via Brera. Anche qui si respira un’aria chic tra vetrine e negozi di profumi, moda, gadget di lusso esimili. La strada che porta verso l’Accademia di belle arti sembra aver perso le tracce dell’antico quartiere che deriva il proprio nome dal termine longobardo “Braida”, con cui si definiva un terreno incolto ai margini della città. Laddove una volta “era tutta campagna”, come direbbero i nostri avi, sorsero poi abitazioni e locali che colorarono il quartiere di tante anime: prima zona malfamata, ad alta densità di malavita locale e di case chiuse, poi – intorno ai primi anni Sessanta – meta di artisti senza una lira che vi trovavano stanze a poco prezzo e trattorie economiche. Insomma, quella Brera dall’anima bohemienne e anticonformista di cui scrive Luciano Bianciardi nello splendido e corrosivo romanzo La vita agra.

Immaginiamo di affidarci alla guida dello scrittore toscano di spirito anarchico, e non potremo che realizzare che quel quartiere, oggi, è profondamente cambiato. Poco o nulla è rimasto degli anni scapigliati, quando le strade erano un miscuglio di pittori, poeti e vagabondi, di gente fiacca di giorno e creativa di notte. Oggi possiamo solo indugiare sui negozi che vendono colori, pennelli e sogni di creazione. Qualcosa del fascino antico, loro, lo hanno mantenuto. Per il resto le gallerie d’arte, i locali dalle insegne accattivanti, le viuzze e il pittoresco richiamo dei menu fanno pensare più a una piccola Montmartre ripulita e confezionata per i turisti. Nessun giudizio, solo una constatazione.

Vero è che qualche elemento di continuità persiste. Ce ne accorgiamo mentre ci avviciniamo all’antico palazzo di Brera, una gemma architettonica che contiene altre bellezze. Il palazzo, costruito nel diciassettesimo secolo e completato dal Piermarini in epoca austriaca, ospita la ricchissima Pinacoteca, la Biblioteca nazionale braidense, l’Accademia di belle arti, l’orto botanico e l’osservatorio astronomico. Insomma, avete capito: il palazzo di Brera meriterebbe da solo almeno una giornata, ma noi abbiamo camminato molto e cominciamo ad avvertire un po’ distanchezza. Forse è meglio rimandare all’indomani la visita ai capolavori della pinacoteca e a tutto il resto. E poi siamo quasi alla fine del nostro itinerario a piedi. Lasciandoci alle spalle il palazzo di Brera, percorriamo pochi metri e ci troviamo all’incrocio con via Fiori Oscuri. Sull’angolo a destra c’è un antico negozio, anno di nascita 1880, frequentato da generazioni di studenti dell’Accademia: la ditta Cesare Crespi. Qui potete trovare tutto l’occorrente per il disegno nelle sue tante sfumature e tecniche. Locale piccolo, ma molto assortito.

Chiusa la piccola parentesi culturale-pubblicitaria, torniamo ad assaporare gli echi dell’epoca ribelle e scapigliata di Brera, terminando il nostro itinerario pochi metri più avanti, al bar Jamaica. Un luogo simbolo per tanti artisti, quasi una seconda casa, e tra loro ritroviamo Luciano Bianciardi, Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Emilio Tadini, Piero Manzoni. Lista quasi infinita che include molti altri nomi, da Buzzati ad Allen Ginsberg, perché il bar esiste dal 1911 e ha attraversato le diverse stagioni del Novecento, come vi confermerà Micaela, la proprietaria che ha ereditato dal nonno e dal padre le storie dei tanti avventori annidate tra i tavolini e gli scaffali. Oggi il Jamaica è un bar in vista nell’isola turistica di Brera, e conserva tracce del passato come un velo lasciato dal tempo. Forse un epilogo malinconico per il nostro itinerario, anche se io preferisco pensare a un nuovo punto di partenza.

Sediamoci dunque a un tavolino e ordiniamo il nostro cocktail preferito. Nell’attesa chiudiamo gli occhi e sentiamoci artisti, abitanti del vasto mondo dei camminatori. Sottotraccia, a Milano, c’è vita.