IL DISCEPOLO PREDILETTO
L’apparizione di un ospite inatteso alle soglie della fine del secolo breve.
Le giornate di pioggia appena prima di Pasqua avevano gettato nello sconforto il Paese: la fine di una considerevole quantità di vasi di maionese giallognola racimolati nella speranza di una Pasquetta stesa su un prato di insalata russa e tramezzini sarebbe stata indecorosa, se costretti dietro i vetri di una casa sfacciatamente più umidiccia e triste del solito. Per la santa pace di tutti il sole aveva poi fatto presto a mostrarsi, in verità non totalmente inaspettato, giacché tutto si può dire men che non ci si aspetti il sole a marzo. Non si può dire invece che da questa angoscia collettiva Giovanni si fosse sentito particolarmente toccato – intendiamoci, il pensiero di passare Pasqua e Pasquetta tappato in casa di sua madre l’aveva turbato, ma la realtà era che non sentiva la prospettiva così distante dalla seggiolina dell’ufficio e dal suo stridulo GNI-GNI che ne accompagnava ogni movimento. Grigiastra una, grigiastra l’altra e che a squittire fosse la madre anziché la sedia poco cambiava: cose da perderci la testa. Ogni tanto temeva di starsi rincoglionendo, piegato dalle buste paga e dai numeretti che incrociavano gli occhi, ma tirando le somme, i conti che tornavano sempre placavano le inquietudini. Al termine della giornata la luce era un’ombra slavata e la temperatura, a confronto col pomeriggio, era calata. Giovanni infilò il mento nella giacca. Mordicchiando la zip, dopo aver girato la chiave per tre volte, entrò nella casa vuota da che la moglie se n’era andata, un matrimonio senza figli, e strisciò veloce il dito sull’interruttore. L’aria dell’appartamento era appesantita dall’odore di formaggio che continuava a sentire nel naso, un odore marcescente da cui non si fugge semplicemente lavorando in ufficio. Dopo un paio di lavaggi di faccia e di denti, la situazione pareva migliorata. L’azienda casearia per cui lavorava non era più di proprietà della famiglia del paese da già più di dieci anni – non che avesse preferenze di chissà che genere sull’identità di chi lo faceva sedere in un ufficio puzzolente, ma sapeva che la notizia del suo assorbimento da parte di una multinazionale francese non era cosa da incontrare in buona tranquillità d’animo. Non sarebbe salito sul tavolo della sala mensa sventolando una bandiera rossa, ma pensava fosse giusto prenderla così. La credenza come suo solito offriva poco di elettrizzante, ma c’era quel tanto che bastava per una cena decente o forse anche di più, dopo che un barattolo di sugo pronto si era fatto notare sporgendo appena giusto dietro al riso, già pensato come utile alla cena mentre a pranzo rigirava nel piatto l’ultimo pezzettino di una carne vagamente gommosa. Prima il tg3 e poi un rimbalzare indeciso tra il tg1 e il tg2 avevano tenuto compagnia alla cena servita in un elegante piatto di plastica rosa per non doversi dare da fare col sapone per i piatti. Di leggere non ne aveva nessuna voglia, così si trovò a fare più e più volte il giro dei canali tra un telequiz e una fiction: una noia bestiale. Fatti scivolare i piedi nelle pantofole color senape, superate in bruttezza solo dallo sceneggiato sui vigili urbani in cui si era imbattuto, perplesso, poco prima, si diresse trascinandoseli appresso verso la libreria da cui pendevano una ragnatela e una copia del Capitale autografata da Berlinguer e che minacciava di cadere a terra in un futuro molto prossimo. Allungata la mano per rimettere il libro in piedi, lo schiuse per leggere la dedica che già conosceva: “con gli occhi rivolti al futuro, alla mia amica Nadia. Enrico Berlinguer”. Un regalo di sua madre, Nadia, che diceva preferire tenesse lui, più giovane, perché potesse tramandarlo un giorno a suo figlio. Risposto al regalo con un grande sorriso, il Capitale era finito a trovarsi in un tempo circolare nel quale scivolava sempre più verso il bordo della mensola fin quando Giovanni trovava la forza di andarlo a sistemare nella posizione originaria, momento nel quale pensava avrebbe dovuto comprare uno di quegli affari di metallo per reggere i libri in piedi.

La primissima mattina della domenica di Pasqua del 1989 vedeva Giovanni ancora disteso a letto, ma già teso dopo essersi reso conto di non essersi preoccupato di comprare nulla da portare a casa di sua madre per il pranzo, nemmeno un bignè. Nella speranza che già sapeva essere vana, fece il giro di tutte le pasticcerie del paese e trovandole chiuse, rimase a mani vuote. Maledicendo sé stesso e Gesù Cristo, prese la strada di casa per darsi una lavata prima di andare dalla madre. L’unico posto che sembrava essere aperto era un negozio di cianfrusaglie usate semibuio e il cui proprietario non si trovava certamente scomodo tra la polvere, ma nel quale decise di entrare per ingannare il tempo, dato che erano ancora le 10 e non si sarebbe parlato di pranzo almeno per un altro paio d’ore. Tra una ciotola crepata coperta da piccole decorazioni che potevano essere lillà e un campanello da bicicletta, era stato attirato da una statuetta grigio topo e dalla forma non esattamente definita. Per poco convenzionalmente graziosa che fosse, già al primo sguardo l’aveva pensata come un buon oggettino per tener fermi i libri che continuamente tentavano il salto dalla libreria al pavimento e la portò a casa con sé.

La casa di Nadia a Giovanni sembrava intrappolata nei ricordi della sua infanzia, tutto uguale meno che il padre, morto dieci anni prima. La tapparella che solitamente lasciava aperto il passaggio solo a poche gocce di luce, data la straordinarietà della giornata, Pasqua, era stata tirata su completamente e la sala da pranzo inondata di un sole pallido. Nei ricordi della sua infanzia tutto era colori vibranti: quella stanza ne era solo un riflesso opaco, così come sua madre lo era di quella di allora che, sebbene non particolarmente anziana, passava le giornate galleggiando in un mare di momenti identici tra un risotto in busta e una telenovela. A pranzo, soli, madre e figlio parlavano della primavera appena arrivata e di quanto sconvolgente fosse che il posto dove tutta la famiglia aveva lavorato sarebbe diventato uno dei tanti piccoli pezzi di una grande multinazionale, roba da matti, cose da perderci la testa. In assenza di dessert migliori, l’unica possibilità era una colomba unticcia che ebbero l’ardire di allagare di zucchero a velo, scelta che produsse un importante profluire di colpi di tosse. Mentre tentava di riprendere fiato, Giovanni pensò all’aggeggio bruttino che aveva mollato sul divano di casa e gli sembrò fosse necessario sbrigarsi per andare a sistemare la libreria per evitare che i libri cadessero come loro solito. Finito di mangiare e salutata la madre, andò a casa con un compito chiaro per le mani. Posizionata la statuetta, faceva davvero il suo lavoro. Seduto sul divano, lasciò scorrere gli ultimi rivoli del pomeriggio per vederli congiungersi ormai stagnanti nella sera, occupando il tempo fissando l’oggetto color cemento il cui volto mal modellato pareva ricordargli qualcuno. A mente aveva sfogliato i volti di chiunque, presidenti, uomini di spettacolo, personaggi di fiabe, ma nulla, niente. Così fino a quando alzandosi per andare a letto, cambiò prospettiva: era Lenin, palesemente Lenin! Un poco scombussolato dal sapere che un ospite così prestigioso era accomodato nella sua libreria, andò a letto senza lavarsi i denti su cui sentiva incrostato lo zucchero a velo.

Martedì mattina dopo una merendina Giovanni infilò la statuetta in borsa e la portò con sé in ufficio – non era cosa da persone assennate lasciare Lenin in casa da solo alla mercé di qualunque malintenzionato, una persona tanto preziosa cui, come sempre detto in famiglia, erano dovute reverenza e rispetto. La giornata, solita, era resa eccezionale solo dagli sguardi dei colleghi che Giovanni sentiva su di lui e sulla sua borsa. Il purè del pranzo non gli dispiacque, come al solito era la sua opzione preferita: sostanzialmente premasticato, uniforme, confortante. L’unica sua preoccupazione era tenere il più stretta a sé possibile la borsa, perché se i colleghi davvero avevano intuito qualcosa, non era possibile, francamente, fidarsi di nessuno. Nella penombra delle 18 sentiva alle sue spalle la presenza di qualcuno – chi? Persone mandate dal governo a controllare il suo ospite? Spie? – non abbandonarlo nemmeno raggiunto lo zerbino e che, immaginava, avrebbe tentato di scrutare in casa sua dalle finestre, che oscurò calando la tapparella. Madido di sudore, ricolmo d’ansia, estrasse Lenin e se lo mise in grembo, pensando a che fare. Trovandosi inaspettatamente senza idee, tirò anche la tenda e si addormentò sul pavimento del soggiorno.

Il tempo che seguì non godeva della praticità e della definizione della temporalità fuori dalla casa, ingarbugliato com’era. Giovanni aveva preso la ponderata decisione di non aprire la porta all’esterno salvo che per allungare la mano per raccogliere il cibo che qualcuno, probabilmente del Partito, gli lasciava in segreto di fronte all’ingresso dell’appartamento. La porta era stato meglio barricarla e in questo erano state utili le assi del tavolo. Lenin, riposto sul ripiano più alto della libreria, era al sicuro e Giovanni avrebbe piuttosto perso la vita, se l’alternativa era abbandonarlo alle unghie di qualcuno. In televisione suonava Rock me, la canzone con cui la Jugloslavia aveva appena vinto l’Eurovision Song Contest, ja novu pjesmu našla sam da svira, whoa-oh, oh-oh, rock me, baby, nije važno šta je… Le ombre scure che battevano i pugni sulle porte popolavano le nottate, e a porta e finestre sbarrate, solo quello c’era. I tentativi di tenerle a distanza affondando la testa nei cuscini del divano, un susseguirsi di sconfitte. Chiamare aiuto era impossibile. Le intenzioni dei vicini erano sconosciute, la linea telefonica sicuramente controllata. Aprire la finestra per incontrare uno sguardo amico avrebbe attirato per certo l’attenzione di chi quella notte di tempo fa l’aveva accompagnato nel buio degli angoli delle strade. Srotolato il pacchetto di carta di giornale che celava dei biscotti, Giovanni giocherellava con le codette attaccate sulla glassa e le mangiava una alla volta con un fare simile a quello di un roditore. Ricoperta di briciole la faccia, si scontrò con le parole del giornale di cui stava mangiando il contenuto, è necessario inventare strade nuove per unificare le forze di progresso, ja novu pjesmu našla sam da svira, dice Achille Occhetto a Bologna a una manifestazione partigiana, è questo l’incitamento che viene dai grandi mutamenti maturati a Est, rock me, baby, aggiunge il segretario del PCI, alla fine qualche giornalista chiede: le sue parole lasciano presagire un cambiamento del nome? E Occhetto risponde: lasciano presagire tutto.
Giovanni aprì la porta e accogliendo il freddo d’autunno uscì ad affrontare il mondo nuovo.
Rock me, baby
Rock me, baby
Rock me, baby
