LA STREGA DI GIOVANNI GIUDICI
È da poco uscita per Ledizioni la riedizione della prima raccolta di saggi di Giovanni Giudici, La letteratura verso Hiroshima e altri scritti 1959-1975, a cura di Massimiliano Cappello. L’estratto che pubblichiamo, La moglie del servo, è stato composto nel 1969, e restituisce tutta la profondità della riflessione di Giudici in merito alla incomunicabile condizione di una certa umanità menomata; con particolare riferimento, in questo caso, a quella femminile all’epoca del miracolo economico, messa a confronto con la nascita della moderna strega sotto il giogo feudale. Con l’aria che tira, si direbbe, il discorso è tutt’altro che inattuale. Ma parlare di elementi «feudali» nella società presente, chiamare feudali gli elementi non borghesi significa prima di tutto chiedersi se questi siano residui o nuove formazioni. Il rischio è quello di attribuire alla lotta politica il compito di liberare la società borghese dagli elementi feudali, e con essa i suoi strumenti attuativi: Stato, Costituzione, Parlamento. In questo senso, Giudici sembra accettare l’analogia feudale solo a patto di privarla delle sue conseguenze metastoriche, considerandone le mitologie solo in quanto e fino a quando sia possibile trarne non già una verità valida una volta per sempre, ma una debole luce messianica.

LA MOGLIE DEL SERVO
La Sorcière, the Witch, die Hexe, la Strega: varrebbe la pena completare il catalogo delle sue denominazioni in ogni lingua e delle associazioni che in ogni lingua la parola può evocare. Decisamente negative nel vocabolo italiano («brutta strega»), esse tendono immediatamente al fiabesco (un fiabesco orrido) nell’inglese: the Witch possiamo ben vederla trasvolare su vecchi tetti a cavallo del manico di scopa (o, direttamente, arsa sul rogo con scopa e tutto). E in tedesco die Hexe, dove il doppio effetto dell’h fortemente aspirata e della x aggiunge al fiabesco orrido un’ulteriore connotazione di fattura, dispetto, ghigno. Sorcière, no: sorcière («ma sorcière»), che in italiano non potrebbe davvero tradursi «mia strega», piuttosto «mia maga» o, sfidando il ridicolo, «mia maliarda», è parola che evoca l’incanto. Incanto come malìa, incanto come magia, e quell’incanto che si chiama anche fascino.
Nel suo libro famoso quanto imperfetto, ricco forse di poesia quanto di ingenuo enciclopedismo, ma con tutto questo sostenuto dalla potente intuizione centrale della strega come violatrice (e redentrice dunque) della sua stessa e dell’altrui oppressione, Michelet fonda la mitologia storica di una donna «diversa».
Roland Barthes ha scritto al riguardo pagine assai penetranti. E, nella misura in cui finirei per parafrasare il già detto, preferisco citare direttamente.
«Michelet riprende la nostra Storia dall’istituzione della servitù della gleba: si forma allora l’idea della Strega; isolata nel suo tugurio la giovane moglie del servo porge l’orecchio a quei leggeri demoni del focolare, residuo delle vecchie divinità pagane, che la Chiesa ha scacciato: ne fa i suoi confidenti, mentre il marito fuori lavora. Nella sposa del servo la Strega è ancora soltanto virtuale, non si tratta che di una comunicazione sognata fra la Donna e la Soprannatura: Satana non è ancora concepito. Poi i tempi si fanno più duri, la miseria, l’umiliazione aumentano; fa la sua comparsa nella Storia qualcosa che cambia i rapporti fra gli uomini, trasforma la proprietà in sfruttamento, svuota di ogni umanità il vincolo tra servo e signore: è l’Oro… È qui che con molta esattezza, per una sorta di prescienza di tutto ciò che più tardi si è potuto dire sull’alienazione, Michelet colloca la nascita della Strega: nel momento in cui viene distrutto il rapporto umano fondamentale, la moglie del servo si allontana dal focolare, raggiunge la landa, fa un patto con Satana e raccoglie nel suo deserto, come un pegno prezioso, la Natura scacciata dal mondo; poiché la Chiesa è vacillante, alienata ai grandi, tagliata fuori dal popolo, sarà la Strega a esercitare le magistrature di consolazione, la comunicazione con i morti, la fraternità dei grandi sabba collettivi, la guarigione dai mali fisici, nel corso dei tre secoli in cui essa trionfa: il secolo lebbroso (XIV), il secolo epilettico (XV), il secolo sifilitico (XVI). In altre parole, poiché il mondo è votato all’inumanità dalla terribile collusione dell’oro e della servitù, tocca alla Strega ritiratasi dal mondo, divenuta l’Esclusa, raccogliere e preservare l’umanità».
Nel secolo atomico, elettronico, neoplasico, in quale dei tre stadi storici (quello latente della moglie del servo, quello trionfante della sacerdotessa, quello decadente della fattucchiera professionista) che Michelet disegna nel divenire della Strega, possiamo ricercarne il più probabile equivalente?
Direi, senza esitazione, nel primo: nella Strega come ap-prendista o, meglio, nella Strega colta nella sua inconscia aspirazione a se stessa, nella pre-Strega che è appunto la piccola, ignorante, ma sottilmente e gentilmente nevrotica moglie del servo della gleba, sprofondata nella cucina di una fangosa casupola normanna, tra odori di fumo e di pollaio, tra i recenti e non del tutto accettati, anzi intimamente rifiutati, simboli cristiani e i vecchi idoli delle sue nonne, sprofondata nella gola senza scampo che si determina tra le due acropoli del sistema (la Chiesa e il Castello), consegnata alla tentazione obiettiva della sua solitudine e, in questa solitudine, alla persuasione occulta delle «voci».
Le «voci»? Quali «voci»? A quale tentazione invitanti? Jeanne d’Arc è la visione sublimata della pre-Strega. Le sue «voci» sono celestiali, in filo diretto con la voce divina. La sua «tentazione» si autostrumentalizza ad majorem Dei gloriam. La storia di Jeanne è collegata a quella della pre-Strega semplicemente nel modello, ma nella sostanza è già alienata al sistema, acquisita al bagaglio ideologico del sistema (come la festa pagana che viene neutralizzata mediante un inserimento del tutto formale nel calendario liturgico della Chiesa). Le «voci» percepite dalla moglie del servo sono i bisbigli dei folletti e delle fate (e Michelet lucidamente sottolinea il modello liberatorio che si ritrova come una costante strutturale nelle grandi fiabe della più remota tradizione: liberazione dalla miseria, liberazione dalla bruttezza, liberazione dalle barriere di classe); e, più ancora delle voci, la giovane sposa denutrita, battuta, timorata, innamorata del servo, violata dal jus primae noctis, coglie il movimento, quasi l’essenza fisica, dei suoi liberatori, del suo liberatore. Il genio del focolare è il genio della solitudine, ed è anche un genio erotico che, incurante del coniuge, s’insinua fra le coltri a inquietare la sua preda e protetta.
Nel nostro secolo atomico, elettronico, neoplasico, in quale tipo femminile dobbiamo ricercare la moglie del servo della gleba, la Jeanne d’Arc non deformata dall’esigenza apologetica del sistema, la donna «vocata» a una missione liberatrice non banalmente nazionale ma precipuamente ed unicamente umana?
Il genio della solitudine è un genio domestico: alla sua chiamata la moglie-serva risponde, in Michelet, in omaggio a criteri assolutamente legittimi della sua condizione; l’amore per il marito umiliato, ad esempio, la sollecitudine per il focolare commesso alle sue cure di sposa. In realtà la spinta decisiva, direi biologica, è ben altra: la fuga dal dolore, il desiderio del miracolo, l’attingimento dell’eros come totalità (non semplicemente come sessualità, che ne è versione riformistica, deformata, degradata, mistificata).
La promessa del miracolo è il micromiracolo, il miracolo del microfolletto, microamante, che starà poi alla decisione della pre-Strega tradurre nella sua dimensione macroscopica, macromiracolante, macraliberatoria. Il micromiracolo è il risveglio d’un mattino in cui Lei trova per incanto la casa rassettata, pulita, ordinata (facile è richiamare la favola di Biancaneve); anche la culla che, toccata da una mano leggerissima e invisibile, dondola per acquetare nel sonno il suo bambino piangente.
Io credo che sia proprio il capitolo intitolato al demonietto o genietto del focolare, alla sua sottile azione vocatrice e tentatrice, a raccomandare questo bel libro alla lettura, più che di un lettore, di una lettrice moderna: di una pre-Strega non più campagnola e feudale, ma cittadina, condominiale, industriale; al suo desiderio, in tanto squallore, di scherzo (piccola luce, non più della cupa notte arcaica, ma dell’anche troppo luminosa e perciò più spietata notte di questo secolo, visto nel duplice versante tecnocratico e burocratico, consumistico e poliziesco, dell’unica repressione) alla sua vocazione di dolcezza, di pulizia, di semplice umanità. L’equivalente della pre-Strega di Michelet è fin troppo sotto i nostri occhi perché si debba insistere nel parallelo: è la moglie del «colonizzato» e di tutti gli equivalenti del «colonizzato», del «dannato della terra» (ossia: dell’uomo comunque disumanizzato, reso oggetto del e nel sistema, spogliato perfino della naturale aspirazione a esser riconosciuto come uomo); rispetto a questo uomo non-uomo, la donna come pre-Strega è coscienza (rimossa) dell’aspirazione al riconoscimento.
Il genio domestico è un genio elettrodomestico o petrolchimico, a scelta; o l’uno e l’altro. Le «voci» vocanti sono audiovisivi pubblicitari. Il tugurio normanno che la moglie del servo medioevale trova perfettamente in ordine e ripulito proprio nel momento in cui, probabilmente con la grave accidia del quotidiano e ripetitivo dovere, si accinge lei stessa a mettere in ordine e ripulire, non si associa soltanto alla fiaba di Biancaneve: ma (con un gran salto di secoli che tuttavia non riesce a interrompere la continuità e l’identità qualitativa della situazione) si associa soprattutto alle immagini e ai temi pubblicitari che si riferiscono oggi ad uno dei settori fondamentali del consumo, quello dei «beni», durevoli e non durevoli, per la casa, per il luogo dove la donna (un certo tipo di donna?) vive o semplicemente vorrebbe (o lo crede?) vivere. Allora: lavatrici, lavastoviglie, lucidatrici, detersivi, bucato bianco sempre più bianco, mobili che non invecchiano, pavimenti che brillano: il genietto benefico non si annida più nel mastello del latte, nelle bolle del latte che si fa burro, e nemmeno tra i petali di una rosa, ma negli stampi dei frigoriferi, nei forni d’essiccamento degli smalti, nelle formule di struttura della chimica organica per le polveri miracolose, nella grafica del packaging dei surgelati da supermarket.
I tempi della società dei consumi sono più stretti, accelerati; la società dei consumi ha fretta di consumare e far consumare; vuole l’uovo oggi, non certo la gallina domani; e cosi il suo genio, il suo folletto, la sua fata, non hanno bisogno di coltivare a lungo la tentazione della pre-Strega; e i suoi prodigi si arrestano, evidentemente, al micromiracolo, che la pre-Strega (detentrice, oggi, nelle società affluenti, di sempre più larghi margini di decisione, più che di potere, di acquisto) non pensa davvero (e come, del resto?) a tradurre nella dimensione macroscopica, macromiracolante, macroliberatoria. Quanto la pre-Strega di Michelet procede dal suo stadio latente a quello trionfante del sabba e infine alla decadenza, secondo un modello che, per la sua eccezionalità e il suo carattere individuale, è invero di falsa redenzione, tanto la pre-Strega del secolo neoplasico (del secolo in cui, come avviene da qualche parte, diventa buona norma entrando nelle case togliersi le scarpe e calzare ciabatte di feltro a levigare ulteriormente le cere sui parquet) non procede affatto oltre il suo primo stadio: si aliena nel micromiracolo che il genio elettrodomestico le propone in misura macroscopica, a livello di massa. Non va oltre, non pensa nemmeno che ci sia un oltre: l’eros è utopia; e, se mai di esso appare anche il fantasma, la moglie del servo si affretta a castigarlo (e a castigare se stessa) nella dimensione riformistica e degradata e falsamente liberatoria dell’adulterio borghese, prima o poi contestato da una voce della «coscienza» che è in realtà voce del sistema. E la piccola violazione del sistema non servirà, in fondo, che a confermare, a rafforzare il sistema.
Michelet che, già vecchio, all’età di sessantatré anni, scrisse per amore il suo libro sulla Strega, per fondare, come è stato detto, la mitologia storica di una donna «diversa», per evocare al proprio soccorso la donna-fata, la donna recante le chiavi del paradiso terrestre, l’incarnazione di un eros mediatore tra un grande modello umano e una condizione di grande disumanità, sapeva probabilmente di ripercorrere un itinerario lungamente tentato dalla storia stessa delle religioni: ancora una volta si cerca nella donna la liberazione dell’uomo; nel genere femminile della specie l’adempimento della specie. Per quanto utopistico e risibile possa oggi apparire alla mente geometrica ogni patto con la Soprannatura, non dovrà sfuggirci una piccola differenza nei diversi modelli del mito: il patto di Faust, utopia maschile, non si accontenta di aspirare all’uomo, ma punta al superuomo e (direi) al nulla; il patto femminile, quello della pre-Strega, chiede in contropartita una semplice misura di umanità. È dunque, nella sua disperazione, più concreto; e non superabile, quali che ne siano i fallimenti.
