HIROSHIMA MON AMOUR / LA CHIAMANO PRIMAVERA: UN TESTO E UN RACCONTO

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Un mese fa usciva l’articolo Le forme vuote della storia. La lettura ha ispirato a un amico una risposta in forma doppia, saggistica e narrativa, che pubblichiamo con piacere, perché vi abbiamo trovato critiche e spunti molto stimolanti. C’è una discussione da portare avanti in tante forme, e necessità di linguaggi e, perché no, anche azioni comuni sempre più stringente man mano che l’inverno intorno si fa più buio e cupo.

I saw you standing at the airport
With your chihuahua in your hand
Crying on the moving sidewalk
On your way to Disneyland

Magnetic Fields – The flowers she sent and the flowers she said she sent

HIROSHIMA MON AMOUR

C’è una scena ne L’infanzia di Ivan di Tarkovskij in cui, davanti a un pozzo, il protagonista ha questo dialogo con la madre:

Ivan:-Com’è profondo. Vero, mamma?

Mamma: -Sì, e quando il pozzo è molto profondo, ci si può vedere una stella anche se splende la luce del sole.

I: -E quale stella?

M:-Una qualunque.

I:- -La vedo mamma! La vedo!

M:-Sì,sì. Eccola là.

I:-Ma come è possibile?

M:-Perché laggiù per lei è notte. Lei si mostra come di notte.

I:-Ma non è notte adesso, è giorno!

M:-Per noi sì, è giorno. Ma per la stella è notte.

Ivan entra nel pozzo per cogliere la stella e regalarla alla madre, poi uno sparo, fune e catino cadono, il corpo della madre riverso per terra, e il bambino va alla guerra.

Il film verrà criticato di astrattismo dai partiti comunisti di mezzo mondo, e soprattutto sull’Unità – al tempo organo mediatico del PCI – verrà pubblicata una corrosiva recensione in cui l’autore è accusato di aver abusato della forma poetica a scapito di quella narrativa. Ciò che probabilmente irritava la sinistra filosovietica dell’epoca, era che il film toglieva la maschera dell’eroismo al gioco della guerra e la presentava non solo come crudele, ma soprattutto come processo di produzione di identità alienate.

Jean-Paul Sartre, scrivendo all’Unità i difesa del film di Tarkovskij, ne coglieva appieno questo significato: “la verità è che il mondo intero per questo bambino è un’allucinazione eche lo stesso bambino, mostro e martire, è in quest’universo un’allucinazione per gli altri.(…) minuscola spazzatura della storia. rimane una domanda senza risposta che non compromette nulla, ma che fa vedere tutto sotto una luce nuova: la Storia è tragica”.

Nell’articolo Le forme vuote della Storia è detto che gli individui si sentono alienati dal tempo presente, estranei alla Storia, e in questa estraneità costruiscono la propria comunità fittizia fatta di arruolamenti, opinioni, prese di posizione.

Sentendo la Storia come altro da sé gli umani si avvincono al ballo mascherato col travestimento che si sono scelti, senza possibilità di penetrare il reale perché percepito come a un tempo troppo e troppo poco.

Questa sensazione di inautentico non preclude la ricerca continua di un’autenticità, della pienezza di una vita realmente vissuta, al di fuori dei processi di reificazione, eppure appaiono tutt’al più come brevi parentesi.

Nel mondo realmente rovesciato, l’autentico non pare altro che un momento dell’inautentico.

È consuetudine ritenere la virtualità dei rapporti spettacolari e la totalità dell’individuo reificato come esterno al tempo che scorre, come se i processi storici fossero scissi dai dispositivi di alienazione, e vi fosse la possibilità di essere radicalmente diversi da questi stessi dispositivi; il pensiero è legittimo, perché ci offre la spinta per provare a incidere sul presente.

Ma noi tutti incidiamo già su di esso, giacché oltre ai normali processi di produzione anche gli arruolamenti nel teatro dell’opinione contribuiscono a scavare le fosse comuni delle guerre in corso: eppure il senso di estraniamento permane, aggirandoci per la vita come figure spettrali di un mondo che non sembra nostro.

Per risolvere questo equivoco dobbiamo asserire che non siamo noi estranei alla Storia, ma che è la Storia stessa che produce estraneità; del resto cadere nella trappola essenzialista che da una parte vi è l’uomo alienato e dall’altra la realtà non spiega niente di questa alienazione, mentre la realtà — che in rapporto dialettico plasma e si plasma sul dominio della merce — crea un essere alienato di per sé a prescindere dal ruolo che investe in essa.

Dio esisteva nel momento in cui la Storia lo poneva in preminenza sui mutamenti delle società, e la religione che ne faceva da ideologia alienava gli uomini da sé stessi, oggi la merce ha preso il suo posto, e l’ideologia della fabbrica ne permette una alienazione eguale: non siamo fuori dalla Storia ma, prodotti da essa, ne siamo troppo dentro.

La guerra, ad esempio, è un momento che assume senza dubbio i contorni del reale, con i suoi morti e l’incombente minaccia di un conflitto nucleare, ma produce solo alienazione in ogni suo protagonista: l’ideologia tardoimperiale russa e il nazionalismo ucraino, il veterosovietismo simulato dei filorussi e l’occidentalismo “umanitario” dei filo-ucraini, tutto è alienante e spettacolare e tutto elude il vero significato della guerra, che è il proseguimento del mercato con altri mezzi.

E lo si elude perché non si vuol ammettere che i cumuli di morti che si ammucchiano giorno dopo giorno sono causati solo e unicamente dalle fasi di riassestamento dei mercati, è cosa triste ammettere di essere dominati dalla merce che crediamo di dominare, e pertanto cerchiamo di spiegarci le tragedie a venire con la falsa coscienza della morale, dell’etica o della politica.

Prodotti da una Storia alienata, rifiutiamo questa identità con l’ideologia per poter credere di contare qualcosa nel mondo, di farne la differenza, e così finiamo sempre ad accettare, anzi a rafforzare, la gesellschaft (società) corrente: possiamo andare a combattere per gli ucraini o per i russi, scrivere lunghi testi sugli orrori di Putin o della NATO, denunciare i nazismi dell’apparato bellico ucraino o dell’intelligencija russa, scrivere un articolo come questo e tutto ciò, solo in apparenza contrastante, contribuisce al corso della merce e al rinsaldamento di una società.

Perché nessuna posizione, neanche la più radicale, oggi vuole abolire la gesellschaft, poco importa se la nostra narrazione si tinge della sehnsucht dei rivoluzionismi passati; un tempo la Storia produceva anche quelli, oggi -perlomeno in Occidente- produce solo merci.

Il piccolo Ivan entrando in guerra penetra il reale e dà corso alla Storia che lo ha prodotto e diventa allucinazione per gli altri a loro volta allucinati da lui, così come i due fratelli protagonisti della Trilogia della città di K di Agota Kristof perdono la propria identità vivendo gli stenti nati dai conflitti bellici.

Stanno nella Storia e in questa condizione sono estranei a sé stessi, e l’indicazione fuori dalla Storia della madre di Ivan, quella di scorgere il rovesciamento del reale guardando la stella nel pozzo, rimane un miraggio dissolto dal colpo di pistola: se il reale è alienante, solo il sogno può ambire a dissolvere la separazione, ma finisce sempre troppo presto.

Del resto, non solo gli sconvolgimenti bellici sono iperbole esplicativa di questo tempo: cos’è una pandemia globale se non un bagno di realtà, con l’umano costretto a confrontarsi con le sue paure più ataviche come la malattia e la morte? Ebbene, cosa ha prodotto questo avvenimento? La nascita di nuove comunità fittizie, il popolo dei vaccinati “responsabili ed umanitari” e quello dei refrattari, una gemeinschaft (comunità organica) basata sulla gemeinwesen (comunità essenziale) fittizia della vaccinazione e del greenpass, o nella negazione di essa. Come fascismo e antifascismo queste posizioni sono risultanti di eventi storici e come tali sono forme alienate di azione, che emulano la fabbrica nell’etichetta, falsa identità, separazione fra azione e prodotto di essa.

Non si sfugge alla macchina, nemmeno quando ritornano le paure più antiche dell’umano.

Che fare, dunque? Al ballo in maschera del Principe Prospero, ne La maschera della morte rossa, la Peste vi partecipa fino a disvelare il carattere fittizio degli atti dell’uomo, così oggi non vi è peccato nel giocare al gioco della Storia per poi smascherare il carattere di merce che essa produce sui civilizzati.

E mentre la Storia si muove, perché non bisogna cadere nell’errore nichilisteggiante che così siamo e quindi così saremo per sempre, aspettare il momento — oggi assai visibile — per cavalcare sull’apocalisse di questo mondo per farsi generare da una nuova Storia.

Perché non esiste la fine della Storia né, sconvolgimenti climatici a parte, la fine del mondo, ma solo la fine di una società: Hiroshima, mon amour.

LA CHIAMANO PRIMAVERA

Decisi di disertare il giorno che morì Aleksander Ivanovic Porokov.

L’avevo conosciuto la scorsa primavera, all’accademia militare, e mi aveva colpito da subito: magrolino e biondo, si aggirava per il cortile guardando per terra, come a cercare qualcosa.

«Hai perso i documenti?» Gli chiesi in sinorusso, la lingua franca dell’esercito della  ipernazione BRICS.

Mi guardò come se lo avessi risvegliato da un sogno «No, fratello. Cerco la vita anche dove gli scarponi calpestano il suolo».

Si accorse del mio sguardo confuso, e aggiunse: «Guarda un po’ qua», e indicò il terreno. «Sta crescendo il primo germoglio di primavera. E malgrado in questo cortile abbiamo marciato e abbiamo corso, esso non è stato scalfito» e il suo sguardo si aprì in un sorriso che conteneva tutte le primavere del mondo.

«Io credo che ci sia il soffio di Dio in questo», mi disse ridendo.

Mi chiamo Chang Yanpeng, e sono un cadetto scelto per le operazioni di derattizzazione sul suolo Panrusso.

Durante il conflitto fra Russia e Ucraina, un gruppo di drogati del battaglione Azov si era rifugiato in una cantina di Bucha, risvegliando una stirpe di topi che riposava da tempo immemore nel sottosuolo.

Enormi ratti ciechi senza zampe posteriori, che divoravano esseri umani per far sì che, da una orribile sacca posta dove dovrebbe esserci ano e sfintere, uscissero fuori le gambe o le braccia del malcapitato e porre il mostro nella condizione di poter camminare.

Il nostro compito era eliminare i ratti adulti, fare strage dei cuccioli e dare pace alle prede umane.

La questione si faceva difficile quando, oltre ai ratti, si frapponevano fra noi anche i miliziani dell’esercito dell’ipernazione Ameuropa Saudita, i nostri nemici per eccellenza. Eravamo bombardati ogni giorno dalla propaganda mediatica: i “demoniaci e perversi occidentali” erano complici della Madre, il ratto gigante che partoriva mille cuccioli al giorno trascinandosi per le lande della vecchia Europa, ma noi cadetti sapevamo che erano tutte stronzate: i ratti avevano fatto stragi tanto da noi quanto da loro.

La nostra missione era semplice e pericolosa a un tempo: la nostra brigata, formata da  dieci membri, faceva un blitz in una tana di ratti, sparava in testa agli adulti, gasava i piccoli e infine, armati di machete, sventrava quei mostri per far uscire le prede dalla sacca, e poi ponevamo fine alle sue sofferenze.

Sì, perché non restava quasi più nulla di umani in quegli sventurati: la faccia era corrosa dai succhi gastrici dei ratti, e così pure il torso. Solo gli arti rimanevano intatti, mentre il cervello era completamente in pappa: urlavano e piangevano che “avevano un topo che   viveva nel loro cuore” e che “era pronto a mangiarsi le stagioni e con esse il mondo intero”.

Li finivamo con un colpo nel cuore, così da fugare eventuali dubbi sulla veridicità dei loro deliri.

Porokov era efficiente e soprattutto uno dei più svelti della mia brigata a eliminare i ratti, eppure sembrava assolutamente non interessato.

Già perché tutti noi dovevamo darci la scusa di credere in quello che facevamo: lo chef pazzo sudafricano Mondocane sventrava i ratti con sadico piacere, la capitana brasiliana Fernando Maria Bolsonara uccideva i piccoli gridando «Bambiniiiii ecco che arriva la mamma», e io dal canto mio liquidavo le prede con calma, recitando proverbi confuciani.

Porokov invece faceva solo quello che doveva fare, bene ma senza passione.

«Un giorno la polizia del pensiero ti farà storie» gli dissi una sera «devi perlomeno fingere di divertirti. Pensi che gli altri siano davvero convinti di quello che stanno facendo?»

Ma Porokov non mi ascoltava, si guardava attorno per collezionare nuove erbe officinali: «Chang, amico mio, per quanto la polizia del pensiero possa frugarmi in testa non può certo entrarmi nel cuore. È tutto quello che ci rimane, non trovi?»

E sorrideva.

Un giorno penetrammo in un villaggio ad est di Odessa. Si diceva che un ratto grosso quanto la Madre ne avesse preso il controllo.

Lo vedemmo subito: stava al centro della piazza principale, in posizione supina, mentre un centinaio di braccia e gambe tentavano di metterlo in piedi, spezzandosi sotto il suo peso. «Cazzo», disse Mondocane, «Quel mostro si è mangiato l’intero paese».

Partimmo all’attacco: una gragnuola di colpi tinse il suo volto cieco di rosso, mentre il sabotatore Indiro Gandhi, detto distruttore di mondi, tagliava gli arti.

Il ratto urlava con le mille voci delle sue prede, poi tirò una zampata a Bolsonara.

Il nostro orrore si trasformò in rabbia vedendo il corpo della nostra camerata decapitato che ancora si agitava fra gli spasmi del rictus, e finalmente dopo mille e più colpi di mitra il ratto cadde.

Cominciammo a sventrarlo.

Ogni persona che tiravamo fuori la finivamo.

Poi, l’inesplicabile: l’ultima delle prede che uscì fuori era una babushka gonfia in maniera innaturale.

Appena fuori, invece di rotolarsi per terra, attaccò Porokov.

Mondocane, sveltissimo malgrado la sua stazza, le tirò un colpo di machete nella pancia. Mentre le budella sgorgavano fuori, scoprimmo con orrore che insieme ad esse fuoriuscivano un numero inimmaginabile di feti di ratto.

Rimanemmo sconvolti, ma Porokov più di tutti: barcollando si avvicinò a un vecchio platano e, dopo aver vomitato, si rannicchiò a terra piangendo.

Da quel giorno smise di sorridere, l’inverno era caduto anche sul suo volto.

Camminavamo, una mattina di un freddo aprile, su un sentiero che dava su una fossa comune.

Improvvisamente Porokov si fermò ad annusare l’aria. «Cosa fai?» Gli dissi spazientito

«Non lo sentite?» Disse, mentre accennava al primo sorriso dopo mesi. «Certo che lo sentiamo, coglione», disse Mondocane. «È fetore di cadaveri».

«No, no», rispose deciso Porokov. «Sotto di esso c’è odore di rose. Qualcosa cresce anche  dopo la morte» e finalmente torno la primavera sul suo volto, ma era una primavera disperata.

«Aspettate un attimo! Vado a controllare», e come un folle si buttò giù per la scarpinata. Improvvisamente lo vedemmo inciampare, rotolare giù e fracassarsi la testa su un masso. Urlando mi gettai verso il fosso, ma Mondocane mi afferrò. «Idiota! Piantala di urlare, ci sentiranno. Era pazzo, ora è morto e va a ingrossare quel mucchio di corpi. Cibo per topi, null’altro che questo».

Tacqui, una lacrima mi scese sulla guancia: pensavo di disprezzare Porokov; invece, scoprivo ora di avergli voluto bene.

Mentre ci allontanavamo, in mezzo all’odore di corpi in decomposizione, mi sembrò di sentire profumo di rose.

La sera stessa decisi che non potevo più resistere un giorno di più in questo mondo di scarponi che marciano.

Se nelle città bombardate e nei paesi straziati vedete un giovane vagabondo che annusa l’aria bene, quello sono io. Sono in cerca del soffio di Dio, alcuni lo chiamano “primavera”.