EDIZIONE STRAORDINARIA: SI TRATTA DI ATTENTATO

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Fare a pugni con le banalità del nostro presente è inevitabile non appena si scruti un poco più a fondo. Quando una parola è sulla bocca di tutti gli organi di stampa, viene la tentazione di cavargliela di gola per vedere com’è fatta: una modesta prova di tenuta linguistica per capire come, senza troppi giochi di magia, riesca a saturare lo spazio del discorso. E quale rapporto al mondo e alla vita nasconda.

Il pretesto neanche troppo mascherato di questo piccolo esperimento linguistico proviene dal passato, e più precisamente dalle infanzie dei millennial. Chi non ricorda Beppe Braida a Zelig urlare, parodiando Emilio Fede, estremo difensore di SB, “Attentato!, si tratta di attentato” è forse, e fortunatamente, troppo giovane; ma non per questo meno chiamato in causa.

Certo, non erano bellissimi nemmeno i tempi in cui, bambini, ci toccava ridere a queste non-imitazioni dei canali Mediaset su Mediaset – per quanto, in fondo, fosse l’espressione più innocente (e, in un qualche modo ignobile, “fedele”) del concetto che soggiace ad ogni critica generalmente intesa: “esiste solo questo mondo qui”. O, più alatamente: “il riso è complicità; vuol dire: ‘siamo uguali’” (Franco Fortini, L’Ospite ingrato). Ma il nostro destino politico, come abbiamo già avuto modo di dire, è di vivere nella tragedia e nella farsa insieme; ed ecco che, quando più te lo aspetti, torna a tirare un’aria di attentati; e sembrano parlare proprio questa lingua.

E dunque. Italia (Mondo), inizio febbraio 2023: quasi un anno di conflitto russo-ucraino, più di cento giorni dall’inizio dello sciopero della fame di Alfredo Cospito contro il regime di 41-bis al quale è sottoposto. In trepidante attesa che la Gran Bretagna porti i carrarmati in prima linea a Kiev, come promette, a Pasqua (ma cattolica o ortodossa?), a devastare il Belpaese non è solo il rammarico per non essersi qualificata nella wishlist delle autoblindo compilata da Zelensky, ma a quanto pare anche alcuni attentati di matrice anarchica, rivendicati proprio in solidarietà con Alfredo. Fedelissimi allo stile elencatorio e di servizio che contraddistingue questo blog, ecco qualche titolo per afferrare l’altezza della situazione:

  • Atene, pista anarchica per l’attentato alla diplomatica Susanna Schlein. Vigilanza per la sorella Elly (2 dicembre 2022)
  • Anarchici greci rivendicano l’attentato a Susanna Schlein (8 dicembre 2022)
  • Palazzo Chigi dopo gli attentati anarchici per Cospito: “Lo Stato non tratta con chi minaccia” (29 gennaio 2023)
  • Attentati a diplomatici: pm Roma indaga per terrorismo (30 gennaio 2023)
  • Molotov contro i vigili. “Sono atti terroristici, nessuna tolleranza”. Dura condanna per l’attentato in viale Tibaldi. Indaga la Digos: si segue la pista anarchica (30 gennaio 2023)
  • Allarme attentati anarchici. Scontri a Roma, 41 denunce. Palazzo Chigi: “Non si scende a patti con chi minaccia” (31 gennaio 2023)
  • Caso Cospito, dagli attentati allo scontro politico: tutto quello che sappiamo in 10 punti (4 febbraio 2023)
  • Cospito: ecco gli attentati attribuiti all’organizzazione terrorista Fai (6 febbraio 2023).

La prima cosa a far notizia è, paradossalmente, che la cosa fa notizia; e questa volta non soltanto per lo stanco carosello giornalistico che torna sugli anarchici a ogni giro di stagione. Gli “attentati” di cui sopra hanno avuto luogo in Grecia (macchina incendiata), a Barcellona (vetrate rotte, muro taggato), a Berlino (auto incendiata), oltre che a Milano (auto incendiata) e Roma (locali danneggiati). È del tutto in linea con i tempi in cui viviamo che l’homepage di un quotidiano a caso titoli qualcosa come (esagero, ma neanche troppo) “Armi all’Ucraina: perché l’Italia non potrà inviare mezzi corazzati (faccina triste)” e, poco sotto, senza che si avverta alcuno stacco, alcun disturbo, “Rabbia e cordoglio per le famiglie dei veicoli incendiati: ‘non arretreremo’”.

Nulla di eclatante, sia ben chiaro: nulla a che vedere col procedimento per “tentato omicidio” dopo la parata poliziesca del 18 maggio 2016 a Parigi, in pieno Nuit debout, conclusasi con una volante in fiamme lungo il Canal Saint-Martin e un cartello che diceva: “Pollo arrosto – offerta libera” (facile immaginare cosa volesse dire, in gergo, quel poulet).

Questo per dire che davvero, non c’è alcuna intenzione di fare del benaltrismo: ma forse non stiamo parlando propriamente della stessa cosa. Per dirimere questa faccenda, un tempo si sarebbe detto che per prima cosa occorre ricercare la definizione di “attentato” sul dizionario. Qualcuno addirittura si sarebbe spinto a meditarne l’etimologia. Sono espedienti stilisticamente discreti, ma utili a spacciare ciò che c’è di più contingente (la lingua e il suo utilizzo) per eterno. Mezzucci giornalistici.

Più interessante è saper cogliere i punti di rottura di una parola, il momento in cui per la prima volta ha suggerito un altro suo utilizzo. È il caso, lo ricorda il linguista Émile Benveniste nel suo Problemi di linguistica generale, del termine “eufemismo”. Il quale, tecnicamente, sta per “dire parole di buon auspicio”, “parlar bene di”. Eppure, e questo Benveniste lo mostra con alcuni esempi, si è finiti a intendere per eufemismo l’“evitare di parlare male di”, o addirittura il “rimanere in religioso silenzio”. Fino a emanare per suo tramite dei veri e propri ordini: “taci!”, “fermo lì!”.

Ovviamente, di questa storia interna non si reca traccia, a una ricerca etimologica o definitoria. Di qui, l’inutilità di rifarsi a quanto le parole portano in origine con sé, se non se ne considerano i significati accumulati nel tempo. Solo le situazioni, le condizioni di utilizzo nella vita, restituiscono in fondo quello che potremmo definire il “senso” delle affermazioni. Altrimenti, il falso metaforico è servito: tutto significa ciò che sempre ha significato; e in definitiva, “l’essere umano” – per non dire “l’uomo” – “è sempre uguale a sé stesso”. Anche questo, in fondo, è un progetto, per l’umanità, per miserabile che sia. Tuttavia, si può scavare ancora, e questa stessa “vita” intimamente contraddice, come credo sia possibile provare, la massima citata. Spesso accade, infatti, che si impieghi una parola per esprimere non tanto il fatto che si mostra, quanto ciò che si nasconde.

La nozione di “senso” fa riferimento al modo in cui un oggetto viene mostrato dalle nostre espressioni; la cultura nella quale ci troviamo a vivere, invece, vorrebbe persuaderci che esiste un modo oggettivo di nominare la realtà, in una parola di denotarla. Era Franco Brioschi, e in un testo dedicato a tutt’altro – Il lettore e il testo poetico –, a riportare, quale esempio “quotidiano” dei poco quotidiani concetti di “semiotica denotativa” e “semiotica connotativa”, uno stralcio di riassunto da un’udienza dell’affaire Valpreda. E ad analizzarlo con una perizia e un’eleganza impareggiabili:

Posso analizzare questo esempio: “Valpreda si è scagliato con furibondi insulti contro il Presidente della Corte, suscitando la pronta reazione del Pubblico Ministero che ha annunciato una nuova denuncia contro l’imputato della strage di Milano”. La frase rappresenta la stringa terminale di una catena di trasformazioni proprie della lingua italiana: come tale è analizzabile e come tale è decifrata, ossia riportata […] ai paradigmi e alle regole di trasformazione sottostanti, che la generano. Posso tuttavia isolare alcuni segni (“furibondi insulti”, “pronta reazione”, “una nuova denuncia”) o alcune relazioni (“Valpreda”: il nudo cognome di un cittadino italiano, di contro ai portatori di un’autorità sovrapersonale: il “Presidente della Corte”, il «Pubblico Ministero»): in questo caso segni e relazioni non si consumano nella decifrazione, ma lasciano una sorta di residuo; assunti nella loro totalità, comunicano un ulteriore significato, grazie al quale il sintagma finale, “l’imputato della strage di Milano”, finisce per significare anche: “il colpevole della strage di Milano”.

Se “denotativa” è l’espressione linguistica unita al suo contenuto, “connotativa” è questa unità di espressione e contenuto utilizzata per esprimere un ulteriore contenuto. “Imputato” non significa “colpevole”; eppure lo diventa. Misteri dello stile. Ma questo fatto, per quanto perpetrato in malafede, prevedeva una finezza e un’attenzione estranei ormai a quest’epoca. Nel nostro caso, infatti, è l’“attentato punto” a imporsi come sola chiave di lettura, denotato in quanto tale a fronte delle spiegazioni spesso misere portate a suo sostegno.

Che ciò sia sintomatico della nostra generale perdita di consistenza al mondo, si avrà modo di parlarne poi. Ma non verseremo certo lacrime perché non siamo più chiamati a interpretare nulla in quanto soggetti storici, sociali, ideologici, ma a malapena a decifrare e ad annuire, o a provare un vago senso di disagio inesplicabile, inafferrabile. Il nostro essere sociale, insomma, non investe più le strutture della lingua, che ci appare quindi monolitica e già data da sempre. E tuttavia, noi seguitiamo a prenderle per buone, e vediamo dove portano.

Ebbene, il Codice Penale non definisce propriamente l’attentato. La voce reperibile sul dizionario è dunque, a conti fatti, monca. Tanto più che questo sostantivo, se composto, dà di sé diverse sfumature. Se “attentato” è l’“atto con cui si attenta a persona o cosa”, basta che sia “mirato” perché divenga “attacco terroristico o azione militare rivolti contro un obiettivo prestabilito”. Appaiono cioè sullo stesso piano la legittimità (militare) e l’illegittimità (terroristica) di una violenza. “Attentato mirato” (ma ce ne sono di imprecisi?) è termine attestato dal 1991. Epoca del mondo: Guerra del Golfo. Anche in questo caso, occorrerebbe ritornare all’uso che ne fecero i giornali; e lasciamo al lettore l’arduo compito di immaginarne l’accezione o, per meglio dire, la “connotazione”.

Dicevamo: Il Codice Penale non riporta una definizione di “attentato”; o meglio, questa definizione è tautologica. L’“attentato” è definito solo come l’atto di attentare. Qui, leggendo tra le righe, ci si avvede che, nel limitarsi a elencare gli anni di condanna attribuibili a “chiunque, per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, attenta alla vita od alla incolumità di una persona” (art. 280 C.P.), di fatto il succo del discorso non è tanto la definizione di una “cosa”; ma di un “come”, e di un “perché”. Bisognerà dunque tornare alla famigerata definizione di “Terrorismo”, fornita dallo stesso codice al comma sexties dell’art. 270:

Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia.

I giochi sono presto fatti. Se il “terrorismo” è innanzitutto la “finalità” di una “condotta”, in breve la sua “possibilità” di conseguire quanto si propone, è chiaro che la medesima “finalità” che si riscontra nel “terrorismo” può valer bene un cassonetto in fiamme o un muro imbrattato – se con ciò si intende “costringere i poteri pubblici […] a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto”. In questo caso, la revoca del 41-bis per Alfredo e, appena più in là, l’abolizione – che so – della società carceraria; e via a seguire. Ne conseguirebbe poi, probabilmente, che una condotta simile, portata senza le “finalità di terrorismo” sopra menzionate, non equivarrebbe a un attentato.

Non è certo la prima volta, credo, che si arriva a constatare tutto questo; né credo che, provatolo logicamente, ci si possa ritenere soddisfatti. Si tratta di andare alla ricerca di altre conseguenze – conseguenze, voglio dire, che siano davvero tali, e non “semplici”, per quanto truci, formule di indifferenza inattaccabili e forbite. Ciò che oltre si dice vorrebbe piuttosto articolare l’avvertimento di un senso più profondo sotto la scorza di questo esempio materiale.

Non stupisce che tra le forme di eufemismo considerate da Benveniste compaia la parola francese per “uccidere” (tuer), che deriva dalla pratica di spegnere le fiamme, il fuoco essendo visto come cosa viva. Meglio ancora si comprende il senso pratico dell’eufemismo se si pensa che ignem tutari voleva dire pressappoco “conservare, proteggere il fuoco”. Come si vede, per paura di nominarla, questa pratica e il suo effetto è addirittura ribaltata nel contrario: questa fiamma che si spegne, a parole, “si preserva”. Simbolicamente, e per estensione, si potrebbe anche pensare che l’intento di chi estingue questa “fiamma” non sia altro che quello di preservarne una più grande. Più in alto della felicità e della giustizia di un’esistenza, è l’esistenza stessa come tale.

Ecco quanto poco ci vuole per portare qualsiasi tipo di discorso verso il luogo ineludibile delle scelte senza scampo. Perché di questo, in fondo, si discute; è “questo” l’enorme non detto che circonda la faccenda e che ci spinge a interrogarci, a scegliere se agire e come. Se di fronte al puro fatto umano, il solo incontemplato in questa storia – il fatto cioè, di uno che, detenuto in un regime carcerario che comprime fino all’inessenza, dice: “io così non vivo”, e agisce di conseguenza –, se, dico, di fronte a questo puro fatto umano siamo in grado di vedere il dito e non la luna, gli “attentati” di protesta e non invece l’“attentato” esplicito a una “vita” (sulla cui consistenza, certo, ora dovremo discutere) stiamo freschi, amici miei. L’imitazione, la contraffazione non avrà davvero mai una fine.

Non ho impiegato il singolare e il plurale di “attentato” a caso. In effetti, alle definizioni e alle etimologie, come dicevo poco sopra, in quest’epoca bisognerebbe preferire in primo luogo un mezzo più realistico, “sul solco della greve materialità”, dice il poeta. Dunque, let me google it for you, e conduciamo una ricerca sull’italiano dell’uso. A quanto pare, Google stesso pensa che “attentato” in questi ultimi giorni voglia dire altro: e che, in particolare, voglia dire Gerusalemme (28 gennaio 2023: 7 morti), ad esempio, o Peshawar, in Pakistan (30 gennaio 2023: 101 morti, 217 feriti); o, ancora, il colpo alla testa a Mangushev, sedicente inventore della “Z” putiniana (4 febbraio 2023). Tutte news (sia detto per inciso) in rapida scomparsa dalle homepage dei quotidiani.

La storia cambia se si digita “attentati”. Sulla scorta del plurale, ecco che riappaiono carcasse di automobile, muretti verniciati, “il punto” sugli anarchici: “chi sono e cosa vogliono”. Che si tratti di una semplice indicizzazione, è certo; che questa ci restituisca uno spaccato interessante sul linguaggio dei giornali, pure. A uno sguardo un po’ più attento, è come se la parola apparisse sfocata, o per meglio dire sdoppiata. Come se evocasse, con l’immagine presente, un’altra, più profonda.

Il passaggio dal singolare al plurale non è mai una semplice moltiplicazione. In poesia, il plurale vago della tradizione ermetica si staglia come una categoria dello spirito sulla pagina, conferendo un’aura mistica e ineludibile alle parole nominate. Benveniste aggiunge che il plurale, nel verbo e nel pronome, è quasi un fattore di illimitazione, di amplificazione. Stanti così le cose, il senso consapevole e contingente di questa operazione di irrazionale puro e introiettato non è forse nemmeno il vero punto del discorso, benché di fatto lo concluda.

Evocare “vagamente” gli attentati del ’69-’78, sbandierando lo spauracchio della guerra civile; e insieme rompere il contatto col passato, negare ogni residuo di conflitto interno. Che l’unico conflitto contemplabile (prima ancora che condivisibile) è quello imposto dalle agende dei governi. È questo il senso familiare e alieno che oggi assume il termine “attentato”; è in questo senso che si esorta il pubblico generico a tenere duro, e costi quel che costi. Che lo Stato continui ad esistere, è sempre preferibile a che esso esista in modo giusto. Ma a questo, sentiamo di dover replicare che i poteri, quando sono forti, è vero, non fanno autocritica; ma è il non farla che li indebolisce.

È il caso allora di concludere, per ora, sulla “callida iunctura” che nessuno sembra più voler notare: non tra i miliardi di euro in armamenti e i roghi delle macchine di ambasciatori e consoli, tra l’ossessione bellica ed un vetro rotto, un muro scritto. Bensì tra l’esibita posa occidentale in lotta per una “vita giusta” e la natura miserabile, alienata, abolita del suo progetto di esistenza.

Nella sua Critica della violenza, Walter Benjamin ritrovava nel concetto di destino anticamente inteso le origini del diritto occidentale, nelle sue varianti ebraico-elleniche. La violenza, nel mito greco, è una semplice manifestazione degli dei e della loro volontà. Non rappresenta in alcun modo un mezzo per i loro scopi. Questa violenza non punisce l’infrazione di un diritto esistente, ma lo istituisce. Si tratta spesso di una violenza sanguinosa, viscerale, alla quale si contrappone diametralmente la violenza del Dio ebraico.

La sua legge è sempre data, prima di ogni azione; la sua violenza non ha lo scopo di imporre una volontà, ma è ciò con cui ciascuno deve confrontarsi. Per questo uccide senza versare sangue: perché il sangue “è il simbolo della nuda vita”, il semplice fatto di consistere nella forma minima del corpo, quanto è reso vulnerabile dalla storia e dalla violenza storica. L’essere umano, dice Benjamin, non coincide in alcun modo con la sua nuda vita; e tanto sacro è l’essere umano, tanto poco lo è la sua vita fisica.

“Falsa e miserabile è la tesi che l’esistenza sarebbe superiore all’esistenza giusta, se esistenza non vuol dire altro che la nuda vita”, dice Benjamin. Su questa frase si fonda la ricerca agambeniana sulla “sacertà”: perché quest’epoca provvede ormai a mostrarcene l’equivalenza. Ma, quel è peggio, ha provveduto ormai a incarnare Dio, la cui violenza espia e purifica senza toccare. E che Alfredo Cospito, per usare un eufemismo, si stia spegnendo silenziosamente, senza sangue sparso, dice tutto quanto c’è da dire su questa vita qua.