CAN’T SLEEP!!! – di Elisa Teneggi

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Allucinato monologo ambientato in una certa città.

Vivo nella morte. Il puzzo si diffonde clamoroso a ogni affanno della Signora M sopra i gradini, lei che zut zut con la gorgia da rana, e il vestaglione ampio cinigliato, su e giù dalle scale per affacciarsi sull’amica Eliodora, ruminare quelle sue pattine fino in fondo al corridoio del sesto – piano, nondimeno – e lasciarsi dietro una scia di bava, acre sta lì, stagna, e fa rimbrottare per lo spazio occupato, vendetta misto cavolo naftalina, viene da chiedersi dove la si compri poi la naftalina, su Amazon solo cose dalla Cina che abboccano più a veleno per topi, mica fulminatarme. Ma comunque la M sale, incanaglita, acerba contro l’ortocoso che le ha visto il piede e le ha scosso nounou il capo davanti al becco, il n’y a rien à faire, la questione insomma è che dovrebbe mettersi ben a riposo ma questa, di star stesa anzitempo, ne ha le spalle piene, incurvite, e da quando in questa piccionaia di cemento bianco, affacciata a picco su San Vittore e su una palestratop dove si sudatop, ci sono entrato, le scapole si sono un po’ extraruotate anche a me. Così la M sale, li passa a trovar tutti, l’Egisto che sta nella prima porta ed è l’ultimo uomo sopra i quaranta rimasto qui in giro, affittacamere che doppia il convento delle suore di fronte, porelle, tre e storpie, e che cammina anzi no ciondola disarticolato, ginocchia camuffate a protesi – poi occhighiaccio affilati vuoti sotto una maschera di capelli bianchi, gilettino cotone piqué, abbottonato all’industriale. Poi c’è quella che non si gira se non la chiami Signorina, si veste nera e guai a farle notare che la ricrescita perlata spunta dal biondo campobruciato. Infine, appunto, l’Eliodora, una nanetta dal cognome di giù, piccola che mi ci starebbe in tasca, e che è brutta, come se qualcheduno le avesse afferrato il naso e da lì accartocciata tutta la faccia e che non mi spiccica né buongiorno né buonanotte da quando ha iniziato ad andare con la M ai funerali di quelli dei piani di sotto, e anche a me a un certo punto sembrava di schiattare con fuori le barelle nei corridoi che schizzavano tra le sirene finché c’era qualcosa da dare e tutti trincerati che manco la M ne usciva più, poi sono arrivate le mascherine e via che sono ripartite le visite tanto qui chi lo vede, se esci di casa per il piano di sopra di sotto oppure no. Anime abbandonate, nulla da perdere. Ma oggi c’è il sole, oggi è passata è un mondo nuovo ed è domenica, io sono sbronzo marcio da ieri sera e vorrei strangolare la M per avermi svegliato, anche oggi, per metterle a posto l’ora del cellulare, mentre i resti del sonno mi si squagliano penosi sulle guance.

A questo punto tanto che sono alzato vale barcollare fino alla finestra e squartarsi le mani finché tutti i buchi della tapparella non si alzano. Il monolocale dà a Sud, dove dai Popolari iniziano a tirarsi su i bracci delle gru per farsi belli per gli sghei, ed è un tugurietto niente male, scicchettino di città finto ristrutturato, spina di pesce per terra e truciolato bianco Ikea. L’ho preso a ottocento più spese ed era gran ficata piuttosto che ritornare alla cameretta, valigiare per la provincia e sbattere sul naso sulla schiena di mamma papà a ogni spigolo, a ogni porta. Mi danno del pazzo! e mi ricordano che a questi anni, a questo stipendio, sarei da un pezzo inquilino di proprietà nella pianura di provincia dove sorridono tutti, gli uomini tornano tardi la sera e le coperte si rimboccano sempre da sole, in pianura i soldi li cagano non mancano mai, in pianura fuoco e acciaio, ceramiche ville-vigneto, cooperative e chiacchiere di quartiere, e una mano sempre tesa per tosare bene il prato, eradicare all’ultima margherita; la pianura che ti stona, avvinazza della sua sensualità grassa, materna. Ma qui no, da quindici anni che ci sto e manco ricordo i titoli di due vie più in là, quindici anni che sono circa quanto ho passato nella pianura, quindici anni che guardo, e non capisco, che adoro questa terra promessa tipo i sovietici con le banane, che m’imbariago di dettagli, di spigoli, degli spacchi dei palazzi contro lo smog, qui, per farla breve, è tutto un io perché Milano è specchio magma idea, e guardo guardo in alto per non incrociare gli occhi di chi procede dritto, il vicino sul tram, la cassiera sorridente della panetteria, quella che ti passa le peronimerda sullo scontrino al supermercato. Io sono salito dalla provincia per farmi i fatti miei. Che venga lo sciabattare dei vecchi, il fruscio dei fantasmi, vengano gli scoppi i petardi i ruderi catodici quando passano il varietà, le bestemmie dei vicini per le feste impazzite, i tonfi le esplosioni che sembra la guerra, quelli dei rally clandestini su Papiniano mentre i semafori smettono di funzionare – nulla di questo sorpassa le mura della mia solitudine composta. E le pantofole oltre la porta vanno schlàc, schlàc, schlàc.

Interpreto quindi come atto di vanità il rompermi il cazzo delle serie TV della musica dello scrolling del computer per buttarmi addosso la prima tuta appallottolata che trovo nell’armadio e scendere le scale, mischiarmi con il piano terra, vanità e bisogno di ritrovarmi in quelle strade, quelle ombre. Rinnovare un atto di fede. Via San Vittore è cheta, la domenica. Se schiocchi le dita, la facciata non si muove di un millimetro. Meno male che c’è il cantiere, quello per la nuova metro, che schicchera perfora e in qualche modo è un pifferaio da seguire. Così, andare! Magari fino a Lambrate, dove ore fa scolavo birrette all’Adelchi e porcozio c’era il Tondo che m’imbeveva di stronzate clamorose, d’altronde con il Tondo ci esci quando vuoi far ginnastica alla lingua, lui che ha la casa di famiglia e se ne frega e suona il basso in un gruppo che porterà a casa sì e no centoduecento banane a sera ma almeno il bere è gratis e poi l’aria trasandata ti dà quel sexy in più con le tipe, bah, lui dice. Suona al Blue all’Ésprit negli sgabbiotti di via Padova e le prime volte mi c’infilavo anche a vederlo, ma quando giri con il Tondo finisce sempre così, ti tira dentro il suo giro di musici e lo sai che andate a finire tronchi a sboccare sul Pavese, cagare sui cofani delle macchine, ‘na volta eravamo a casa di uno e ci siamo presi a manciate di tiramisù in faccia, l’abbiamo lanciato giù a bomba verso il marciapiede completo di forchetta e boh, non si sentiva niente, quindi per un po’ abbiamo continuato. Questi sono quelli strani che fanno comune e vivono in Tuci sotto l’Ortica, tanto in comune che manco hanno la porta al bagno, e mi fanno crashare da loro, qualche volta, quando la situa è proprio bigia. Quindi se alla fine un po’ di cazzi tuoi li vuoi godere, meglio non dire sempre di sì, quando quelli escono, ché alla fine ti svegli sempre nel tuo letto, o tra le lenzuola di qualcun altro, ma comunque vadano le cose appena aperti gli occhi attenteranno al tuo scudo d’AlleinSein. No, meglio esercitare, ascetici, solitudine. Meglio passeggiare così, la domenica, sotto il fisso dello smog primaverile, chissà quando pioverà di nuovo, un saluto a Sant’Ambrogio e via per il pavé che fa tra Olona e De Amicis, mi vibrano le caviglie a ogni passaggio di 94, a ogni passaggio mi si contorcono le budella scrivimi quando torni a casa ma io ieri a mamma mica le ho scritto e chissà che pensa, ancora sfigliato a quest’età, e le ho scritto sempre meno man mano chi m’infittivo di presentazioni in microlibrerie di nomi contemporanei che in realtà non dicono niente a nessuno, i vivi non dicono niente a nessuno, salotti di molte parole e poco da dire, universitari di Lettere e libri in lingua tedesca, lezioni di russo che però è impossibile perché proprio quelli non li capisco, come vedano il mondo, e la prima cosa per parlare una lingua è capire come si veda il mondo attraverso le parole, e le teorie sulla Storia recente, e le certezze su quella passata, e nomi e date Calvino Thomas Eliot Woolf Beckett Rossetti Heaney Yeats Szymborska che anche quella peccato non avercela in lingua, insomma un Dedalus di demoni e che bello sedersi a teatro a batter le mani, sputare sentenze finger di capire Weerasethakul, ma tornando a mamma chissà dove mi vede, adesso, deserto di solitudine, forse inficcato nella Darsena, forse a Loreto a testa in giù, io che nei momenti migliori vado conciato da sanbabilino ma non entro in un seggio da quando ho fatto byebye alla pianura, io che al liceo ero arrabbiato e occupavo con la bandiera rossa sulle spalle AHAH si fa per dire e ridere, scopare, no è che rollavo fuori nel patio allora prendono i pullotti e giù botte, riportano a casa e giù botte, tutto pesto alla fine nessuna mi guardava manco in faccia COMUNQUE mo’ la mattina faccia una roba, mi allargo bene le cornee per accertarmi che lì dentro non si sia fermato qualcosa di morto, o putrido, perché se mamma mi vedesse mi girerebbe la faccia con due sganassoni come faceva quando la preside la convocava per annunciarle la sospensione, la pula aveva appena finito di menare, e ancora comunque credo non fosse colpa mia, solo che mi era presa ‘sta strana fissa per Tarkovskij perché la sua Zona non la capivo, non la visualizzavo, non finché non sono arrivato a Milano e non ho preso anch’io a varcare la soglia, finché non sono arrivato qui e la rabbia è diventata apatia, sdegnosa passività, finché non ho cominciato a rubarmi pezzi d’identità e portarmeli appresso in questo ramingaggio prima della prossima notte, prima della prossima sbronza e poi è anche meglio starsene per i fatti propri per sopravvivere alle giornate d’ufficio fissi sul blip blop dello schermo, alle corse in metropolitana, alla fila in Morbegno afterBeltrade che è l’unico cinema in cui puoi entrare senza singhiozzare per il biglietto, vedi roba improbabile ma almeno stai fermo, seduto, rimandi gli impegni della solitudine a più tardi giusto per balzare d’aria viziata in aria viziata. Puff. Qui, per stare soli, ce ne vuole d’impegno. E a volte fa stanchezza, fa arrendersi, lasciarsi trasportare sul culo di un motorino senza casco per la circonvalla, fermarsi a sballare in via Lecco e farsi randellare da quelli che, vabbè, chissà le pigne avevano nel cervello quando hanno preso casa lì, rimontare in sella per due ravioli di cena, grassi, glutinosi, e in sunto sciacquare il resto dei guadagni nel tentativo di dimenticarsi della demanding solitudine, del lavoro che aspetta a casa per rimanere soli, per essere soli e soprattutto sentircisi, e devo dire che ultimamente mi risulta parecchio difficile perché ‘sta città la conosco, I don’t get it ma la conosco, e ho cominciato a percepire delle cose, prendi per esempio ora che sono qui a mezz’aria tra Molino e Ticinese, io, l’irrequietudine, la sento che viene da sotto, bolle brulica tira su l’anima di questo posto che gode, e duole, eccolo! è qui, Lambro Olona Nirone Seveso Vepra Redefossi, questi sono i miei fiumi, che invoco quando la solitudine vacilla e mi tornano in mente gli schlàc, schlàc, schlàc che poi sono schlag! schlag! schlag! delle pantofole nel corridoio che implorano un cenno un dito una mano e io vorrei solo essere un fiume, segreto, sotterraneo, murato perché è l’unico modo per essere solo, l’unico modo per correre con i miei fiumi e comunque essere qui, perché Milano non la lasci, la domi, e l’unico modo per averla è sciogliertici, unirsi alla sua anima liquida, scorre antica, in silenzio, esala miasmi asfissianti e sale l’afa l’agosto e si chiama acqua, d’altronde questa è l’acqua, questa è Milano il luogo dove sono rinato nella solitudine che non trovavo in pianura, e guarda, arriva il mezzogiorno su Ripa di Porta, perché ci passeggiano madri agghindate quando la notte è un corso unico d’alcol e putrido dalle Colonne a P.ta Genova? tutti a ballare come Hollow-Hollow-Hollow Men CAVI! UOMINI CAVI! e ancora non voglio arrivare, ma alla fine a che serve una meta se la Ghisolfa esiste insensata, e i palazzacchi sono su, e Giangiacomo ci ha salutato così o colà, i paninari si chiamano Gen Z e si sparano l’hyperpop CHI DIMENTICA È COMPLICE la villa di quei fascisti è del FAI ci passano scommetto i milioni nelle visite guidate, e con gli occhi di Luciano vedo una cappa di catrame su ogni via ogni antenna e pur di star solo mi calco il cappuccio verso il labbro superiore e aspetto, attendo che i fiumi mi portino a casa perché qui tutto implode, ma oh Milano, spezzata dalle bombe diluvierei e mi appunterei la solitudine, quella che mi hai aperto tu, come coccarda sul petto, proseguirei tra le macerie e in questa spirale che mi porta sempre più giù, verso nuovi covi e gradazioni alcoliche, verso altre notti rumorose di periferia credendo di essere al centro del mondo, credendo che Finisterre giunga a Ponte Lambro, Mordor a Sesto il Cocito alla Brianza, e via che volge il mese nuovo e altri ottocento mi partono, finalmente una scusa per stare a casa non ho un cazzo di soldo!!! e tanto che cosa ti metti ora in lista per il mercato immobiliare, ora che si ammazzano, ora che tra due anni staremo come nei Cinquanta a Roma a fare bambinacci ragazzacci di vita – non essere cattivo – e anche se fosse i soldi per l’anticipo chi li ha mai avuti, chi li accetterebbe da genitori pasciuti sulla pianura perbene, e poi finalmente che bella scusa, per tornare a scrollare aspettare le pantofole spadellare triste petto di pollo e appostare dietro la porta per la M perché prima o poi ritorna, prima o poi si rifà viva questa vecchia troia a chiedermi come diamine si imposta quel suo scassone giurassico, se a me il riscaldamento funziona, se ho sentito quei rumori, come stanno i miei, se ho guardato il telegiornale e chissà se andremo a votare, si fa viva e mi ricorda che un giorno sarà mio il turno di annegare in questa pseudo-morte, di maledirmi per aver scelto la solitudine, di aver riqualificato la mia rabbia, di averla data in pasto al silenzio per un cuore tranquillo, verrà a sussurrarmi che sono ancora in tempo, la porta è lì davanti a me, e che per cambiare idea basterebbe un dito un gesto una mano allungata no, questa volta mi armo, a difesa della mia solitudine. Sarò lì ad aspettarla.

La pioggia tamburella leggera sulla tapparella. Mi sveglia, cerco la luce ed è domenica mattina. Dal corridoio viene il ciciarare delle vecchie del palazzo, la M l’Eliodora e la Signorina. Non ricordo di essermi addormentato. Il telefono di fianco alla tempia, sul cuscino. La testa fischia ancora un po’. Quante cazzate il Tondo, ieri. Sblocco lo schermo. Controllo l’ora. Mi accoglie la chat con il mio ultimo Tinder hook-up. Ieri non riuscivo a dormire. Insonnia, di nuovo. La tipa mi ha mandato ottocento messaggi, tutti in caps. Scorro in su e scopro un urlo dall’oltretomba, con molti punti esclamativi: CAN’T SLEEP!!!!

Categorie: narrativa